Venerdì 26 maggio, a Perugia, Francesco Severini presenta il suo Vagabolario, viaggio miniato tra le leggende dei piccoli popoli nelle isole linguistiche d’Italia, pubblicato dalla casa editrice Prospettiva.
L’appuntamento è per le ore 18.00 nei locali dell’Associazione L’Una e L’Altra, in via Ulisse Rocchi 18-20. A parlarne con l’autore sarà Corrado Fratini, mentre le letture sono affidate a Federica Ficola e Giovanna Scalia.
Qui di seguito riportiamo la presentazione dello stesso autore.
Il progetto Vagabolario nasce con l’intento di rendere plausibile il nesso tra la parola e l’immagine, il legame che scaturisce da vincoli intimi e giocosi mediante i quali è possibile dare ancora voce cristallina alla narrazione. Quella capace di suggerire e dar vita ad infiniti racconti, proprio come nella tradizione orale che rigenera fiabe e leggende, modificandole di volta in volta, arricchendone il senso, ridefinendone gli spazi ed i tempi d’azione.
Il sottotitolo in tal senso, oltre il titolo stesso, ne definisce inoltre i contorni e gli ambiti. Si tratta appunto di un viaggio miniato, un viaggio per immagini vivo di racconti nel racconto, tra le leggende di quelle che sono state (in certi casi anche giuridicamente) definite isole linguistiche esistenti in varie zone d’Italia, ciascuna virtualmente inscritta entro confini regionali, il più delle volte troppo angusti e per questo limitanti. Dove variegati sono i popoli che le costituiscono e le abitano, seppure persino misconosciuti, e tuttavia forti di un’energia straordinaria; quella che attinge, coniugandoli, sapere e attenzione alla vita. Il mio lavoro di ricerca intorno alle leggende di questi piccoli popoli – la definizione è solo apparentemente, volutamente minimizzante – è diretto ad una riscoperta, in molti casi una vera e propria scoperta, dei rimandi ad una tradizione che fonda le proprie radici nel tessuto letterario dell’oralità. Il fine: restituire loro una dignità culturale capace di rimarcare, elevandola, l’identità peculiare di ciascuno di essi.
Ventuno, dunque, i popoli, tanti quanti le lettere dell’alfabeto italiano. Di qui l’idea di altrettanti capolettera da rendere quali miniature di un singolare vocabolario, il mio personale Vagabolario, appunto: una sorta di breviario laico che attraverso un ordine ben noto, dalla A alla Z, scandisca il tempo della narrazione. Ventuno capolettera, ciascuno densa di figurazioni che illustrano la storia presa in esame – essa stessa stimolo primario di un soggetto (oggetto) visuale – spesso in maniera didascalica, altre volte lasciando che un’immagine chiave della leggenda ne divenga il punto focale.
Il progetto non ha la pretesa di rappresentare una indagine demologica esauriente, tanto meno esaustiva, in merito ai piccoli popoli e alle loro leggende prese a riferimento. Mi auguro, piuttosto, esso sia stimolo per nuovi ed interessanti approfondimenti che possano far luce su alcune realtà ancora poco indagate, quando anche sconosciute, di un Paese già minato nelle sue fondamenta più solide, ovvero la disattenzione alla storia e alla sua straordinaria cultura. Non dimenticando, mai, che proprio nel ricorso alla tradizione un popolo, pur nelle sue infinite diffenze identitarie, può trovare sempre ulteriori spunti per la coesione e la sua unitarietà.
Ho parlato del mio lavoro di ricerca intorno alle leggende e ai saperi di coloro che ho volutamente definito piccoli popoli. Poiché piccoli lo sono davvero, almeno per l’entità numerica a volte esigua di alcuni di essi, come ad esempio nel caso dei francoprovenzali di Puglia. Ma l’accento su cui trae forza la mia attribuzione verte su un altro aspetto: essi sono piccoli quanto lo sono i bambini, i quali si nutrono di fiabe e di storie (seppure, purtroppo, dai contenuti stonati: come accade oggi); ma, proprio come loro, sono grandi ciascuno d’una propria, singolare connotazione, essendo essi capaci di trovare il senso della vita nella semplicità assoluta delle piccole cose, appunto.
L’altra aggettivazione, dalle sfumature meno fanciullesche, riguarda invece il termine minoranza: che prelude e presume molto più spesso una considerazione meno alta della materia con cui abbiamo a che fare, in ogni ambito.
Le minoranze e le isole linguistiche in Italia
La Legge 15 dicembre 1999, n. 482 «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», oltre a stabilire all’articolo 1 che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano, prevede nei successivi articoli specifiche misure di tutela e valorizzazione per la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. Nel 2001 è stato emesso il DPR n. 345 del 2 maggio 2001 (Regolamento di attuazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche) che disciplina l’uso della lingua delle minoranze nelle scuole e nelle università, l’uso della lingua delle minoranze da parte dei membri dei consigli comunali, comunità montane, province e regioni, la pubblicazione degli atti ufficiali dello Stato nella lingua ammessa a tutela, l’uso orale e scritto del bilinguismo negli uffici delle pubbliche amministrazioni e il ripristino dei nomi originari e della toponomastica.
Attualmente, in Italia, esistono diverse minoranze idealmente “confinate” in altrettante isole linguistiche, più frequenti nel nord, nel sud e nelle isole, quasi del tutto assenti nel centro della penisola. Un breve elenco, per renderne più chiara la presenza e la dislocazione (maggiori indicazioni nelle pagine dedicate a ciascuna di esse all’interno di Vagabolario).
Al nord: i Comuni walser sulle Alpi occidentali (Valle d’Aosta e Piemonte); i comuni ladino-dolomitici divisi tra le province di Bolzano, Trento e Belluno; la Valle dei Mocheni in Trentino; le comunità cimbre del Triveneto, in particolare Lessinia, Cansiglio e Luserna e sull’altopiano di Asiago; la minoranza slovena del Friuli-Venezia Giulia; i carnici bavaresi (austro-bavaresi) di Sappada (in provincia di Belluno), Timau e Sauris (in provincia di Udine); la minoranza istriana di lingua istrorumena, che viene parlata a Trieste da circa 300 esuli dall’Istria e che fu considerata minoranza nel regno d’Italia, potrebbe considerarsi isola linguistica storica italiana (l’istrorumeno era ancora parlato durante l’Ottocento nel Carso triestino, principalmente ad Opicina e Servola).
Al sud: la minoranza albanese (arbëreshë) sparsa in quasi tutte le regioni del sud; la minoranza croata nel Molise, detti moliški hrvati (croati molisani); la minoranza francoprovenzale in Puglia (Celle di San Vito e Faeto), detta anche isola linguistica della Daunia arpitana.: gli Occitani valdesi di Guardia Piemontese in provincia di Cosenza; i greci nella Bovesia (il versante ionico dell’Aspromonte) in provincia di Reggio Calabria; la Grecìa salentina nel Salento leccese; i Comuni gallo-italici della Basilicata.
Nelle isole: la minoranza albanese (arbëreshë) in provincia di Palermo, ovvero a Contessa Entellina (Kundisa), Piana degli Albanesi (Hora e Arbëreshëvet) e Santa Cristina Gela (Shëndastina); i Comuni gallo-italici, come Piazza Armerina (in gallo italico: Ciazza) in provincia di Enna, e San Fratello (in gallo italico: San Frareau) e di Novara di Sicilia in provincia di Messina; la comunità di lingua greca di Messina; Alghero, città di lingua catalana in provincia di Sassari; nella provincia di Carbonia-Iglesias, i tabarchini di Carloforte e Calasetta; altra isola linguistica in cui si parla un dialetto di tale famiglia è Bonifacio in Corsica.
Diffusi in molte parti d’Italia, data la loro natura nomade, sono i Rom e i Sinti, spesso più conosciuti come zingari o gitani, termini generici usati per indicare un insieme di diverse etnie originarie dell’India settentrionale ed accomunate, almeno in passato, dall’uso di un idioma comune, il romanì.
Di ciascuno dei piccoli popoli sopra elencati – tranne i rom e i sinti, per la loro natura non stanziale e pertanto non storicamente collocabili – ho preso in esame storie e leggende popolari servendomi di una bibliografia pur non vasta e spesso di difficile reperimento, facendo ricorso alle biblioteche pubbliche, ma soprattutto cercando e trovando nel web una buona quantità di materiale letterario spesso misconosciuto ed esistente nei suoi massimi contenuti – strano a dirsi – in siti non italiani (archive.org è uno di essi).
La letteratura (la poesia) popolare in Italia
La letteratura orale (definizione che suona quasi come un ossimoro) è un portato culturale del romanticismo europeo della fine dell’Ottocento: da una disamina di questa (si pensi alle prime raccolte dei fratelli Grimm) nasce l’input per gli studi sul folklore che, proprio in Italia, trovano esponenti di grande rilievo quali Giuseppe Pitrè, Gianfranco D’Aronco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Mario Cirese, Italo Calvino, Paolo Toschi tanto per citarne alcuni. In quegli anni nascono pubblicazioni interessanti come la Rivista delle tradizioni popolari italiane di Angelo De Gubernatis e viene fondato l’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari sotto la direzione di Giuseppe Pitré e Salvatore Salomone-Marino. E’ molto interessante riflettere sul fatto che proprio in quegli anni si è addirittura coniato il concetto di “popolo autore” e non certo perché autori siano i popoli, ma perché singoli individui, fatto proprio un racconto o una leggenda, dopo averlo modificato a piacere, lo tramandano rendendolo di dominio di una collettività: le modifiche, dunque, diventano a loro volta creazione.
L’opera, di qualsivoglia natura essa sia, esprime l’anima della gente che la fa propria: l’autore, dunque, non lavora più a titolo individuale ma diviene l’interprete di un popolo. In questo senso, non è più possibile discernere l’altezza culturale (o meno) di un componimento additato quale opera d’arte. Benedetto Croce, al riguardo e con particolare riferimento alla poesia, la più immediata e genuina fra le forme letterarie spesso non trascritte, è molto eloquente ed esaustivo: “la poesia non ammette categorie di nessuna sorta, e, quando è poesia, è unicamente poesia”. E con questa affermazione mi pare si possa fornire una eventuale riflessione in merito alla questione delle cosiddette arti minori in particolare per ciò che attiene la materia di questo progetto, ovvero le leggende popolari: anch’essa a torto vengono iscritte appunto nell’ambito di una letteratura minore.
Le leggende popolari
C’è una sottile eppure pregnante differenza tra le fiabe, racconti di fatti meravigliosi e fantastici in cui si trovano come protagonisti maghi, fate, orchi, streghe, personaggi umili accanto a re, regine, principi e principesse, e le leggende (la cui etimologia risale al gerundivo del verbo latino legere, letteralmente: “cose da leggere”, “che devono essere lette”), ovvero narrazioni di fatti in cui l’elemento storico è mescolato con l’elemento fantastico e stupefacente, talora con intenti educativi o religiosi, per spiegare l’origine di una città, di un’usanza, di un culto, talora come mezzo per esaltare e tramandare gloriose imprese delle età passate e la fama dei loro protagonisti – a volte personaggi tratti proprio dalla vita quotidiana – celebrando altresì il popolo cui essi appartengono. La fiaba con la sua atemporalità (c’era una volta, tanto tempo fa, etc.) e la sua mancanza di ambientazione spaziale (reami che non esistono, luoghi inventati, etc.), si sviluppa tutta all’interno della fantasia poetica di chi narra e di chi, a sua volta, la fa sua riscrivendola.
Le leggende, sebbene molto spesso ricche di elementi fantastici, contengono chiare indicazioni temporali (epoche storiche o episodi legati al personaggi realmente vissuti) o geografiche (menzioni di luoghi o paesi che esistono nella realtà), tali da non poterle sradicare completamente dal mondo del vero. Quei numerosi racconti, spesso mai stati scritti, che rientrano nell’ambito della cultura popolare e che vengono tramandati in forma orale, sono le leggende che da sempre continuano ad affascinare adulti e bambini. Il loro punto di forza risiede nel valore stesso della parola in grado di incantare, suscitando sensazioni ed idee, e sulla capacità dell’uomo di elaborare e di reinventare. Per questo, e per molti altri motivi, la narrazione popolare rappresenta un patrimonio da non trascurare, poiché è un reportage di epoche e di luoghi, di genti e di valori da essi tramandati, oltre ad essere una grande risorsa in grado di chiarire il modo in cui si formano quei simboli e quegli stereotipi culturali che costituiscono il bagaglio formativo di un’intera società o di una classe sociale.
Le leggende prese in esame in Vagabolario, essendo esse stesse racconti per immagini nella concezione di ciascuno dei capolettera, dipanano la propria singolare trama narrativa attraverso gli esiti della figurazione: ogni capolettera “contiene” la storia, a volte definita idealmente negli ambiti e nei perimetri onirici, in altri casi corredata di rimandi visuali che divengono efficaci chiavi di lettura. L’ekphrasis dei greci, quella figura retorica nella quale un’arte tenta di correlarsi a un’altra espressione artistica definendone l’essenza e la forma, in Vagabolario ha il suo compimento. Così come trova effetto l’assunto di Orazio – ut pictura poesis – in merito alla congiunzione fra l’arte visiva e la poesia: il mariage tra parola e immagine, che poi è presupposto fondante e intendimento primario del mio fare arte. Non vi era, dunque, un’altra possibile espressione visuale che potesse ad un tempo rispettare entrambi i canoni di questo progetto, vale a dire il narrare per immagini e il ricorso ad una presunta forma d’arte a torto designata e inscritta nel novero delle arti minori: la miniatura.
De arte illuminandi
Nell’antichità miniare un testo equivaleva a illuminarlo, o meglio alluminarlo, ovvero a renderne la bellezza attraverso l’uso di lacche alluminate, colori naturali resi brillanti dal concorso chimico dell’allume di rocca: da qui il termine cui fa riferimento uno dei trattati più conosciuti sul tema, appunto il De arte illuminandi scritto da un autore anonimo intorno alla fine del Trecento. Il termine miniatura si fa derivare da una tintura, il minio, ossia quel colore cinabro largamente usato dai pittori dell’epoca. Oggi, riferendoci ad una miniatura, se ne usa parlare in ordine alla definizione della dimensione ridotta di un oggetto rispetto alla sua reale essenza, per estensione. Ma l’antica arte di dipingere nei piccoli formati quelle illustrazioni che corredavano in particolare i testi sacri (codici, evangelari, salteri, libri d’ore) ma anche trattati astronomici e di medicina, così come tavole di storia o codici profani, era un lavoro eseguito con minuzia raffinata e con precisione estrema, portato a compimento dai miniaturisti quasi in forma seriale in quegli antri bui, spesso maleodoranti e angusti quali erano gli scriptoria dei conventi.
Tuttavia è importante considerare che nel momento della sua più alta fioritura, ovvero nei secoli XIII e XIV, l’arte di miniare fu un’attitudine prestigiosa cui artisti di grande livello si erano riferiti, basti pensare ai fratelli Limbourg, a Jan Van Eyck, a Jean Fouquet o, in Italia, a Lorenzo Monaco, a Beato Angelico, a Giovannino De Grassi. Ed inoltre quale potesse essere l’ingegno di coloro i quali, disponendo soltanto di materie coloranti naturali e di poche altre tinture preparate con modesti artifici chimici, seppero creare opere degne della più alta ammirazione. Non sono chiari, pertanto, i criteri mediante i quali, nello scorrere del tempo, quest’arte sia potuta essere confinata negli ambiti di una minorità: la “dimensione” dell’arte, infatti, non risulta essere maggiore quanto più lo siano i formati delle opere, tanto meno per lo stupore che esse debbano suscitare ad ogni costo: l’evidenza di ciò che spesso si lascia intendere solo agli addetti ai lavori, è l’esito insano di un concettualismo che il più delle volte preclude lo sguardo a chi voglia avvinarsi all’arte con lo spirito della semplicità. La miniatura, proprio come le leggende, è una forma d’arte che riesce a parlare a chiunque attraverso immagini nitide, comprensibili, molto spesso corredate di riferimenti ben noti, popolari, appunto, perché facilmente leggibili da tutti: bastano gli occhi del cuore.
Io ritengo non esista un’arte che sia minore o maggiore rispetto ad un’altra, essendo impossibile misurarne le “altezze” mediante canoni prefissati o parametri generalizzanti. Così come credo che l’importanza di Vagabolario risieda proprio nella sua duplice capacità di restituire da un lato l’opportuna dignità culturale al corpus letterario, immenso e variegato, di quella tradizione orale che da millenni ha accompagnato il racconto della vita, attraverso il ricorso alle immagini della pittura; dall’altro di dare conto della fierezza di quei piccoli popoli spesso misconosciuti che sono parte integrante e fondante della civiltà e del sapere d’Italia.
Francesco Severini
Venerdì 26 maggio, a Perugia, Francesco Severini presenta il suo Vagabolario, viaggio miniato tra le leggende dei piccoli popoli nelle isole linguistiche d’Italia, pubblicato dalla casa editrice Prospettiva.
L’appuntamento è per le ore 18.00 nei locali dell’Associazione L’Una e L’Altra, in via Ulisse Rocchi 18-20. A parlarne con l’autore sarà Corrado Fratini, mentre le letture sono affidate a Federica Ficola e Giovanna Scalia.
Qui di seguito riportiamo la presentazione dello stesso autore.
locandina
Il progetto Vagabolario nasce con l’intento di rendere plausibile il nesso tra la parola e l’immagine, il legame che scaturisce da vincoli intimi e giocosi mediante i quali è
possibile dare ancora voce cristallina alla narrazione. Quella capace di suggerire e dar vita ad infiniti racconti, proprio come nella tradizione orale che rigenera fiabe e leggende, modificandole di volta in volta, arricchendone il senso, ridefinendone gli spazi ed i tempi d’azione.
Il sottotitolo in tal senso, oltre il titolo stesso, ne definisce inoltre i contorni e gli ambiti. Si tratta appunto di un viaggio miniato, un viaggio per immagini vivo di racconti nel racconto, tra le leggende di quelle che sono state (in certi casi anche
giuridicamente) definite isole linguistiche esistenti in varie zone d’Italia, ciascuna virtualmente inscritta entro confini regionali, il più delle volte troppo angusti e per questo limitanti. Dove variegati sono i popoli che le costituiscono e le abitano, seppure persino misconosciuti, e tuttavia forti di un’energia straordinaria; quella che attinge, coniugandoli, sapere e attenzione alla vita. Il mio lavoro di ricerca intorno alle leggende di questi piccoli popoli – la definizione è solo apparentemente, volutamente minimizzante – è diretto ad una riscoperta, in molti casi una vera e propria scoperta, dei rimandi ad una tradizione che fonda le proprie radici nel tessuto letterario dell’oralità. Il fine: restituire loro una dignità culturale capace di rimarcare, elevandola, l’identità peculiare di ciascuno di essi.
Ventuno, dunque, i popoli, tanti quanti le lettere dell’alfabeto italiano. Di qui l’idea di altrettanti capolettera da rendere quali miniature di un singolare vocabolario, il mio personale Vagabolario, appunto: una sorta di breviario laico che attraverso un ordine ben noto, dalla A alla Z, scandisca il tempo della narrazione. Ventuno capolettera, ciascuno densa di figurazioni che illustrano la storia presa in esame – essa stessa stimolo primario di un soggetto (oggetto) visuale – spesso in maniera didascalica, altre volte lasciando che un’immagine chiave della leggenda ne divenga il punto focale.
Il progetto non ha la pretesa di rappresentare una indagine demologica esauriente, tanto meno esaustiva, in merito ai piccoli popoli e alle loro leggende prese a riferimento. Mi auguro, piuttosto, esso sia stimolo per nuovi ed interessanti approfondimenti che possano far luce su alcune realtà ancora poco indagate, quando anche sconosciute, di un Paese già minato nelle sue fondamenta più solide, ovvero la disattenzione alla storia e alla sua straordinaria cultura. Non dimenticando, mai, che proprio nel ricorso alla tradizione un popolo, pur nelle sue infinite diffenze identitarie, può trovare sempre ulteriori spunti per la coesione e la sua unitarietà.
Ho parlato del mio lavoro di ricerca intorno alle leggende e ai saperi di coloro che ho volutamente definito piccoli popoli. Poiché piccoli lo sono davvero, almeno per l’entità numerica a volte esigua di alcuni di essi, come ad esempio nel caso dei
francoprovenzali di Puglia. Ma l’accento su cui trae forza la mia attribuzione verte su un altro aspetto: essi sono piccoli quanto lo sono i bambini, i quali si nutrono di fiabe e di storie (seppure, purtroppo, dai contenuti stonati: come accade oggi); ma, proprio come loro, sono grandi ciascuno d’una propria, singolare connotazione, essendo essi capaci di trovare il senso della vita nella semplicità assoluta delle piccole cose, appunto.
L’altra aggettivazione, dalle sfumature meno fanciullesche, riguarda invece il termine minoranza: che prelude e presume molto più spesso una considerazione meno alta della materia con cui abbiamo a che fare, in ogni ambito.
Le minoranze e le isole linguistiche in Italia
La Legge 15 dicembre 1999, n. 482 «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», oltre a stabilire all’articolo 1 che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano, prevede nei successivi articoli specifiche misure di tutela e valorizzazione per la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. Nel 2001 è stato emesso il DPR n. 345 del 2 maggio 2001 (Regolamento di attuazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche) che disciplina l’uso della lingua delle minoranze nelle scuole e nelle università, l’uso della lingua delle minoranze da parte dei membri dei consigli comunali, comunità montane, province e regioni, la pubblicazione degli atti ufficiali dello Stato nella lingua ammessa a tutela, l’uso orale e scritto del bilinguismo negli uffici delle pubbliche amministrazioni e il ripristino dei nomi originari e della toponomastica.
Attualmente, in Italia, esistono diverse minoranze idealmente “confinate” in altrettante isole linguistiche, più frequenti nel nord, nel sud e nelle isole, quasi del tutto assenti nel centro della penisola. Un breve elenco, per renderne più chiara la presenza e la dislocazione (maggiori indicazioni nelle pagine dedicate
a ciascuna di esse all’interno di Vagabolario).
Al nord: i Comuni walser sulle Alpi occidentali (Valle d’Aosta e Piemonte); i comuni ladino-dolomitici divisi tra le province di Bolzano, Trento e Belluno; la Valle dei Mocheni in Trentino; le comunità cimbre del Triveneto, in particolare Lessinia, Cansiglio e Luserna e sull’altopiano di Asiago; la minoranza slovena del Friuli-Venezia Giulia; i carnici bavaresi (austro-bavaresi) di Sappada (in provincia di Belluno), Timau e Sauris (in provincia di Udine); la minoranza istriana di lingua istrorumena, che viene parlata a Trieste da circa 300 esuli dall’Istria e che fu considerata minoranza nel regno d’Italia, potrebbe considerarsi isola linguistica storica italiana (l’istrorumeno era ancora parlato durante l’Ottocento nel Carso triestino, principalmente ad Opicina e Servola).
Al sud: la minoranza albanese (arbëreshë) sparsa in quasi tutte le regioni del sud; la minoranza croata nel Molise, detti moliški hrvati (croati molisani); la minoranza francoprovenzale in Puglia (Celle di San Vito e Faeto), detta anche isola linguistica della Daunia arpitana.: gli Occitani valdesi di Guardia Piemontese in provincia di Cosenza; i greci nella Bovesia (il versante ionico dell’Aspromonte) in provincia di
Reggio Calabria; la Grecìa salentina nel Salento leccese; i Comuni gallo-italici della Basilicata.
Nelle isole: la minoranza albanese (arbëreshë) in provincia di Palermo, ovvero a Contessa Entellina (Kundisa), Piana degli Albanesi (Hora e Arbëreshëvet) e Santa Cristina Gela (Shëndastina); i Comuni gallo-italici, come Piazza Armerina (in gallo italico: Ciazza) in provincia di Enna, e San Fratello (in gallo italico: San Frareau) e di Novara di Sicilia in provincia di Messina; la comunità di lingua greca di Messina; Alghero, città di lingua catalana in provincia di Sassari; nella provincia di Carbonia-Iglesias, i tabarchini di Carloforte e Calasetta; altra isola linguistica in cui si parla un dialetto di tale famiglia è Bonifacio in Corsica.
Diffusi in molte parti d’Italia, data la loro natura nomade, sono i Rom e i Sinti, spesso più conosciuti come zingari o gitani, termini generici usati per indicare un insieme di diverse etnie originarie dell’India settentrionale ed accomunate, almeno in passato, dall’uso di un idioma comune, il romanì.
Di ciascuno dei piccoli popoli sopra elencati – tranne i rom e i sinti, per la loro natura non stanziale e pertanto non storicamente collocabili – ho preso in esame storie e leggende popolari servendomi di una bibliografia pur non vasta e spesso di difficile
reperimento, facendo ricorso alle biblioteche pubbliche, ma soprattutto cercando e trovando nel web una buona quantità di materiale letterario spesso misconosciuto ed esistente nei suoi massimi contenuti – strano a dirsi – in siti non italiani (archive.org è uno di essi).
La letteratura (la poesia) popolare in Italia
La letteratura orale (definizione che suona quasi come un ossimoro) è un portato culturale del romanticismo europeo della fine dell’Ottocento: da una disamina di questa (si pensi alle prime raccolte dei fratelli Grimm) nasce l’input per gli studi sul folklore che, proprio in Italia, trovano esponenti di grande rilievo quali Giuseppe Pitrè, Gianfranco D’Aronco, Pier Paolo Pasolini, Alberto Mario Cirese, Italo Calvino, Paolo Toschi tanto per citarne alcuni. In quegli anni nascono pubblicazioni interessanti come la Rivista delle tradizioni popolari italiane di Angelo De Gubernatis e viene fondato l’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari sotto la direzione di Giuseppe Pitré e Salvatore Salomone-Marino. E’ molto interessante riflettere sul fatto che proprio in quegli anni si è addirittura coniato il concetto di “popolo autore” e non certo perché autori siano i popoli, ma perché singoli individui, fatto proprio un racconto o una leggenda, dopo averlo modificato a piacere, lo tramandano rendendolo di dominio di una collettività: le modifiche, dunque, diventano a loro volta creazione.
L’opera, di qualsivoglia natura essa sia, esprime l’anima della gente che la fa propria: l’autore, dunque, non lavora più a titolo individuale ma diviene l’interprete di un popolo. In questo senso, non è più possibile discernere l’altezza culturale (o meno) di un componimento additato quale opera d’arte. Benedetto Croce, al riguardo e con particolare riferimento alla poesia, la più immediata e genuina fra le forme letterarie spesso non trascritte, è molto eloquente ed esaustivo: “la poesia non ammette categorie di nessuna sorta, e, quando è poesia, è unicamente poesia”. E con questa affermazione mi pare si possa fornire una eventuale riflessione in merito alla questione delle cosiddette arti minori in particolare per ciò che attiene la materia di questo progetto, ovvero le leggende popolari: anch’essa a torto vengono iscritte appunto nell’ambito di una letteratura minore.
Le leggende popolari
C’è una sottile eppure pregnante differenza tra le fiabe, racconti di fatti meravigliosi e fantastici in cui si trovano come protagonisti maghi, fate, orchi, streghe, personaggi umili accanto a re, regine, principi e principesse, e le leggende (la cui etimologia risale al gerundivo del verbo latino legere, letteralmente: “cose da leggere”, “che devono essere lette”), ovvero narrazioni di fatti in cui l’elemento storico è mescolato con l’elemento fantastico e stupefacente, talora con intenti educativi o religiosi, per spiegare l’origine di una città, di un’usanza, di un culto, talora come mezzo per esaltare e tramandare gloriose imprese delle età passate e la fama dei loro protagonisti – a volte personaggi tratti proprio dalla vita quotidiana – celebrando altresì il popolo cui essi appartengono. La fiaba con la sua atemporalità (c’era una volta, tanto tempo fa, etc.) e la sua mancanza di ambientazione spaziale (reami che non esistono, luoghi inventati, etc.), si sviluppa tutta all’interno della fantasia poetica di chi narra e di chi, a sua volta, la fa sua riscrivendola.
Le leggende, sebbene molto spesso ricche di elementi fantastici, contengono chiare indicazioni temporali (epoche storiche o episodi legati al personaggi realmente vissuti) o geografiche (menzioni di luoghi o paesi che esistono nella realtà), tali da non poterle sradicare completamente dal mondo del vero. Quei numerosi racconti, spesso mai stati scritti, che rientrano nell’ambito della cultura popolare e che vengono tramandati in forma orale, sono le leggende che da sempre continuano ad
affascinare adulti e bambini. Il loro punto di forza risiede nel valore stesso della parola in grado di incantare, suscitando sensazioni ed idee, e sulla capacità dell’uomo di elaborare e di reinventare. Per questo, e per molti altri motivi, la narrazione popolare rappresenta un patrimonio da non trascurare, poiché è un reportage di epoche e di luoghi, di genti e di valori da essi tramandati, oltre ad essere una grande risorsa in grado di chiarire il modo in cui si formano quei simboli e quegli stereotipi culturali che costituiscono il bagaglio formativo di un’intera società o di una classe sociale.
Le leggende prese in esame in Vagabolario, essendo esse stesse racconti per immagini nella concezione di ciascuno dei capolettera, dipanano la propria singolare trama narrativa attraverso gli esiti della figurazione: ogni capolettera “contiene” la storia, a volte definita idealmente negli ambiti e nei perimetri onirici, in altri casi corredata di rimandi visuali che divengono efficaci chiavi di lettura. L’ekphrasis dei greci, quella figura retorica nella quale un’arte tenta di correlarsi a un’altra espressione artistica definendone l’essenza e la forma, in Vagabolario ha il suo compimento. Così come trova effetto l’assunto di Orazio – ut pictura poesis – in merito alla congiunzione fra l’arte visiva e la poesia: il mariage tra parola e immagine, che poi è presupposto fondante e intendimento primario del mio fare arte. Non vi era, dunque, un’altra possibile espressione visuale che potesse ad un tempo rispettare entrambi i canoni di questo progetto, vale a dire il narrare per immagini e il ricorso ad una presunta forma d’arte a torto designata e inscritta nel novero delle arti minori: la miniatura.
De arte illuminandi
Nell’antichità miniare un testo equivaleva a illuminarlo, o meglio alluminarlo, ovvero a renderne la bellezza attraverso l’uso di lacche alluminate, colori naturali resi brillanti dal concorso chimico dell’allume di rocca: da qui il termine cui fa riferimento uno dei trattati più conosciuti sul tema, appunto il De arte illuminandi scritto da un autore anonimo intorno alla fine del Trecento. Il termine miniatura si fa derivare da una tintura, il minio, ossia quel colore cinabro largamente usato dai pittori dell’epoca. Oggi, riferendoci ad una miniatura, se ne usa parlare in ordine alla definizione della dimensione ridotta di un oggetto rispetto alla sua reale essenza, per estensione. Ma l’antica arte di dipingere nei piccoli formati quelle illustrazioni che corredavano in particolare i testi sacri (codici, evangelari, salteri, libri d’ore) ma anche trattati astronomici e di medicina, così come tavole di storia o codici profani, era un lavoro eseguito con minuzia raffinata e con precisione estrema, portato a compimento dai miniaturisti quasi in forma seriale in quegli antri bui, spesso maleodoranti e angusti quali erano gli scriptoria dei conventi.
Tuttavia è importante considerare che nel momento della sua più alta fioritura, ovvero nei secoli XIII e XIV, l’arte di miniare fu un’attitudine prestigiosa cui artisti di grande livello si erano riferiti, basti pensare ai fratelli Limbourg, a Jan Van Eyck, a Jean Fouquet o, in Italia, a Lorenzo Monaco, a Beato Angelico, a Giovannino De Grassi. Ed inoltre quale potesse essere l’ingegno di coloro i quali, disponendo soltanto di materie coloranti naturali e di poche altre tinture preparate con modesti artifici chimici, seppero creare opere degne della più alta ammirazione. Non sono chiari, pertanto, i criteri mediante i quali, nello scorrere del tempo, quest’arte sia potuta essere confinata negli ambiti di una minorità: la “dimensione” dell’arte, infatti, non risulta essere maggiore quanto più lo siano i formati delle opere, tanto meno per lo stupore che esse debbano suscitare ad ogni costo: l’evidenza di ciò che spesso si lascia intendere solo agli addetti ai lavori, è l’esito insano di un concettualismo che il più delle volte preclude lo sguardo a chi voglia avvinarsi all’arte con lo spirito della semplicità. La miniatura, proprio come le leggende, è una forma d’arte che riesce a parlare a chiunque attraverso immagini nitide, comprensibili, molto spesso corredate di riferimenti ben noti, popolari, appunto, perché facilmente leggibili da tutti: bastano gli occhi del cuore.
Io ritengo non esista un’arte che sia minore o maggiore rispetto ad un’altra, essendo impossibile misurarne le “altezze” mediante canoni prefissati o parametri generalizzanti. Così come credo che l’importanza di Vagabolario risieda proprio nella sua duplice capacità di restituire da un lato l’opportuna dignità culturale al corpus letterario, immenso e variegato, di quella tradizione orale che da millenni ha accompagnato il racconto della vita, attraverso il ricorso alle immagini della pittura; dall’altro di dare conto della fierezza di quei piccoli popoli spesso misconosciuti che sono parte integrante e fondante della civiltà e del sapere d’Italia.
Francesco Severini
Foto Severini + cover libro