Cannes 2017 – “Good Time” e “Closeness”

 

Good Time: Robert Pattinson al servizio del crimine

Dal Queens dei fratelli Safdie al Caucaso russo. Un divo cerca una via d’uscita dal cliché hollywoodiano sposando la causa del cinema indipendente. Mentre, nel film dell’esordiente Kantemir Balagov, una giovane donna indipendente rifiuta l’identità del gruppo di appartenenza.



Ci sono autori che coltivano il momento in cui il caos fa irruzione in sistemi perfettamente (perversamente?) funzionanti. Come Sofia Coppola. Altri, come i fratelli Safdie lasciano che il caos, il nonsense contaminino quell’universo, che lo pervadano. I conti non tornano mai in Good Time, che abbiamo visto questa mattina, e per una volta è un sollievo. Robert Pattinson è un “loser” (un “perdente”), greco di seconda o terza generazione, vive con la nonna e il fratello, che ha un deficit di apprendimento (interpretato dallo stesso Benny Safdie) e di cui sente di doversi prendere cura. Tant’è che lo porta via a forza dall’istituto dove uno psicologo apparentemente gentile lo sottopone a un test che lo sconvolge fino alle lacrime e lo porta con sé a fare una rapina in banca (scena niente male, considerato quante l’hanno preceduta nella storia, qui né Tarantino, né Quel pomeriggio di un giorno da cani). La rapina finisce male e quel che segue è una spirale di errori e diversioni, compreso un lungo capitolo in cui il protagonista, grazie a uno scambio di persona, entra nelle disavventure criminali di qualcun altro.

Pattinson, che non ci è mai sembrato un grande attore, dimostra di avere fiuto nella scelta delle storie e degli autori funzionali alla sua buonuscita dall’universo di Twilight: in Good Time (espressione per indicare il tempo passato fuori dalla galera per buon condotta, privilegio di cui i personaggi del film godranno in misura probabilmente ridottissima) è sporco, sudato, tinto di biondo, cinico e votato al fallimento: praticamente perfetto.


Dal Queens al Caucaso russo. Tesnota (Closeness) di Kantemir Balagov, selezionato in Un certain regard, ci porta a Nalchik, città natale del regista (ci informa di questo in una didascalia e ci rivela l’etnia di appartenenza), nella Repubblica di Cabardino-Balcaria, dove una piccola e chiusa comunità di ebrei fronteggia l’ostilità del mondo circostante. Ila, giovane e bella donna indipendente, maschiaccio che ama riparare motori nell’officina del padre e che non ha nessuna voglia di sposarsi con il ragazzo che i suoi hanno scelto per lei, non accetta la remissività con cui la famiglia fa fronte al dramma del rapimento del fratello. Il senso di appartenenza alla comunità viene meno quando l’aiuto chiesto per raggranellare i soldi del riscatto non arriva, anzi qualcuno coglie l’opportunità per costringere la famiglia a svendere i pochi beni. Un grumoso vhs guardato alla tv in una serata di balli e baldorie mostra la vera esecuzione di soldati russi fatti prigionieri in Cecenia. Qualcuno in sala Debussy non ha retto e si è alzato. La realtà del mondo, anche quando l’asse temporale ci riporta indietro, alla fine degli anni ’90, qualche volta è difficile da guardare.

Paola Piacenza (www.iodonna.it)

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