Francesco TOZZA- In cerca d’autore? Ronconi e i suoi attori (uno “studio” pirandelliano al Piccolo, Milano)

 

Il mestiere del critico

 


IL CERCA D AUTORE?

Al Piccolo

RONCONI E I SUOI ATTORI….

Studio sui “Sei personaggi” di L. Pirandello- diretto da Luca Ronconi, ripreso da Luca Bargagna  (progetto a cura di Roberta Carlotto)-  con Massimo Odierna (Padre), Sara Putignano (Madre), Lucrezia Guidone (Figliastra), Fabrizio Falco (Figlio),  Alice Pagotto (Madama Pace), Davide Gagliardini (Capocomico),  e inoltre: Matteo Cecchi, Marina Occhionero,Gloria Carovana, Zoe Solferino.  Luca Tanganelli, Stefano Guerrieri,Luca Mascolo, Luca Carbone, Cosimo Fascella.  Coproduzione: Centro Teatrale Santacristina e Piccolo Teatro di Milano

Al Piccolo Teatro Studio Melato, Milano, maggio 2017

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Il teatro – si ripete spesso – è il luogo della verità, non però quella con la v maiuscola (che forse nemmeno esiste!), bensì di quella – grande o piccola, non importa – che alberga nel nostro inconscio, difficilmente approdando poi alla nostra coscienza. La quale, non senza violenza, spesso la reprime o comunque la nasconde   (perfettamente riuscendovi, per giunta); anche se poi le manifestazioni artistiche che talvolta ne derivano – nel momento in cui le si producono (per chi ha la capacità di farlo, ovviamente!), o quando (più di consueto) le si fruisce, in chiave di sublimazione – diventano, grazie alla loro preziosa ambiguità, cartine di tornasole per la rivelazione dell’implicito (più retoricamente si dice dell’ineffabile), altrimenti condannato, nel quotidiano, al più assoluto dei silenzi.

E’ fin troppo nota questa dimensione del teatro (e dell’arte in genere); anche se – bisogna dire – il teatro raggiunge l’obbiettivo assai meglio, almeno fino a quando rimarrà subdolo gestore del corpo dell’attore, e dello stesso spettatore, magari suo malgrado: dimensione che, forse proprio per le peculiarità sottilmente sublimative che accompagnano questo antico linguaggio, ne sta determinando il relativo abbandono, a vantaggio della più comoda e asettica virtualità assicurata, senza più catarsi, dai nuovi media. Inutile, dunque, insistere sulla cosa: si scoprirebbe solo l’acqua calda.

E tuttavia – per venire all’oggetto dell’articolo – sul rapporto Ronconi/Pirandello è il caso di spendere qualche parola, proprio alla luce di quanto appena detto: certo con grazia… e senza la pretesa di scoperchiare tombe o aprire inferni felicemente occultati, magari riandando a certe riflessioni, contenute in una nostra postfazione ad una delle ultime interviste concesse da Ronconi (forse l’ultima), ampiamente saccheggiata per alcuni aspetti, di fatto passata sotto silenzio nei misteriosi percorsi della c.d. critica ufficiale. Un rapporto difficile – lo si è già detto da altri, senza magari approfondirne i motivi – a conti fatti un rapporto conflittuale, si direbbe di amore/odio (per sotterranee corrispondenze intuite, ma razionalmente sempre respinte), fra uno dei più illustri e prolifici registi degli ultimi decenni e il drammaturgo forse più importante che il secolo scorso ha di sé improntato, con evidenti ripercussioni sulla “vita nuda” (non quella semplicemente virtuale) che ancora resiste ai nostri giorni.

Rapporto difficile, torniamo a dire, non a caso sempre ritardato da un regista che, pur non risparmiandoci generosi amplessi con vecchi e meno vecchi classici, pur curiosando nei meandri della drammaturgia contemporanea, per sperimentazioni linguistiche di indubbia caratura anche nel semplice approccio ai mai rinnegati “testi”, ha però quasi sempre (e puntigliosamente) evitato la messa in scena del terribile Agrigentino, e non certo per il timore del confronto con grandi e ormai storici allestimenti (ma non si può mai dire!). Pochissime le eccezioni: un’edizione dei Giganti con attori tedeschi; un Questa sera si recita a soggetto – all’Argentina di Roma nel dicembre del ’98 – strumentalmente affrontato per sperimentare istanze metateatrali, a nostro avviso non efficacemente metabolizzate; L’innesto appena comparso, ma assai poco mantenuto sulle nostre ribalte, già all’epoca di Pirandello, comunque da noi  purtroppo perduto, anche se quanto mai emblematico, proprio come testo, per il nostro discorso; infine questi Sei personaggi, mutilati nel titolo e non solo in quello, affrontati quasi con una sorta di pudore sotto la ben nota formula dello “studio”: che poi tale è rimasto, negli anni delle riproposte con gli stessi giovani attori, bravissimi tutti e in buona parte ormai entrati nell’agone teatrale, accanto ad altri, di loro più giovani, in parti secondarie, per questa ennesima riproposta post mortem, chissà se davvero gradita, nell’aldilà, dal grande regista da poco scomparso.

E le eccezioni confermano i dubbi, per non dire i sospetti! Il fatto è – per non farla lunga – che qui ci si trova di fronte a due sottili esercizi di autorepressione. Apparentemente più scoperta quella di Pirandello, appena velata (proprio nei Sei personaggi) dalle latenti contraddizioni di un complesso universo familiare, che rischia addirittura di sperimentare l’incesto (aveva qualche ragione la povera Antonietta Portulano, la “pazza” moglie del grande Siciliano, finita in manicomio per le ossessive incursioni nel privato del marito?), ma forse nascondeva più consistenti difficoltà o insofferenze da parte dell’Autore nei confronti dell’altro sesso (sintomatico il “casto” rapporto con Marta Abba, sua “donna di cuori” ma solo nelle pagine che il “caro maestro” andò regalandole nel corso della sua esistenza di attrice). Il gioco veramente drammatico – e non solo drammaturgico! – fra realtà e finzione, aldilà delle indubbie dimensioni socio-antropologiche nella realtà del tempo (ancora ravvisabili, anche se con segno parzialmente diverso, ai nostri giorni), a prescindere anche dalle sue indubbie coordinate metateatrali (Pirandello intuì, da par suo, la fine possibile di certo teatro, forse del teatro tout court) aveva un retroterra esistenziale che, proprio per la sua urgenza interiore, fu portato sulle tavole del palcoscenico con infinita, sofferta maestria.

L’autorepressione  di Ronconi – in una società certamente più tollerante, almeno nei suoi aspetti esteriori, di quella in cui visse Pirandello – probabilmente è stata più ideologica (se così si può dire) che drammaticamente esistenziale, forse per nulla vissuta nell’esplicitazione riservata delle proprie pulsioni, magari facilmente sublimata in pedagogia teatrale, e però non pienamente accettata nell’intimo di una coscienza, ugualmente inquieta per le difficoltà delle non sempre possibili, volute o ipotetiche, corrispondenze: nella quale inquietudine resta il mistero, nonché il dramma delle più intime pulsioni.

Insomma Pirandello fa esplodere nella scrittura drammaturgica, poi anche in quella scenica, se se ne sanno cogliere i connotati, il suo inconscio, facendolo vivere solo lì, sulla pagina e sulle tavole teatrali, ben consapevole del forzato transfert (“o si vive o si scrive”, ebbe melanconicamente a dire); i suoi personaggi sono la calda testimonianza di pulsioni offerte ad attori e spettatori, i quali ultimi difficilmente si sottraggono – per quella spasmodica voglia di autenticità, così sentitamente espressa in quelle pagine e nella relativa messa inscena di chi sa, e/o vuole, coglierne il drammatico afflato – al famoso dilemma del Capocomico: finzione o realtà?

I personaggi dello “studio” ronconiano sono, invece, freddi, si direbbe più frigidi o comunque algidi, nonostante la voluta più giovane età degli interpreti. Ma non per colpa loro (sono tutti bravissimi – lo si è già detto – e testimoniano l’alta scuola di un grande maestro della recitazione). Sono peraltro il parto di una testa pensante (il che non guasta mai!), un regista diviso fra tradizione e sperimentazione, abile concertatore di comportamenti scenici (le frequenti incursioni nel teatro d’opera non certo casuali), anche se l’abile gioco scenico tende a tutti i costi a nascondere, se non addirittura a negare, l’altro da sé. Nel che poi fu spesso il limite, oltre che la grandezza, di Ronconi, forse l’ultimo, inquietante figlio del Barocco.

Attori e personaggi, in questa sua messinscena pirandelliana, non si distinguono granché: ombre disincarnate di un presente (forse anche di un futuro prossimo) che si aggirano, come spettri, in quel bianco intenso che è luce di una razionalità che sa riflettere, ormai, solo su se stessa, anche quando grida un dolore che appartiene ad un corpo che in sostanza è negato.

Tutti dunque solamente attori “in cerca d’autore” (coerente l’eliminazione della prima parte nel titolo pirandelliano). E magari quell’autore l’hanno trovato: nel regista che scrupolosamente ha saputo orchestrare il vuoto della loro coscienza d’interpreti per uno spettacolo perfetto; dove, forse, la magia del teatro può ancora evocare la presenza di una Madama Pace (non a caso uno dei momenti più fascinosi dello spettacolo in quanto tale), ma alla Figliastra non è più lecito ridere, con quella sua reiterata, tragica risata, per quindi allontanarsi definitivamente da quel palcoscenico divenuto ormai l’esclusivo regno di una sempre più rarefatta finzione.

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