Marco FOLLINI*- Telecomandi. Meriti e demeriti di “1993” seconda parte (in onda da ieri)

 

Telecomandi*

 


“1993” -2a PARTE- HA TANTI MERITI

Stefano Accorsi, ideatore di 1993 Stefano Accorsi

E nondimeno alcuni demeriti

°°°°

Cominciata ieri sera, la serie 1993 ha molti meriti televisivi e -almeno ai miei occhi- un demerito politico. È un racconto brillante, che cattura l’attenzione del pubblico e risveglia interrogativi e stati d’animo che hanno accompagnato quella nostra prima transizione politica e continuano a tenerci compagnia nell’attraversamento di quella che ci sta capitando adesso.

Un riflettore puntato sul potere, quello vecchio ormai evanescente e quello nuovo che si sta facendo largo utilizzando con estrema spregiudicatezza le fragilità e le debolezze di un establishment ormai consunto. La descrizione di un cambio di cavallo, tra la Prima Repubblica in macerie (e in manette) e la Seconda che si costruisce anche utilizzando i mattoni del cinismo. Dico cambio di cavallo perché al confine tra i due mondi si staglia appunto, come si sa, la figura del Cavaliere.

Il potere, in quella storia, c’è e si vede. Le trame, le manovre, le pressioni, gli agguati. Tutto l’armamentario con cui gli uomini al vertice fanno e disfano, si combattono e si aggregano. Soprattutto dopo House of Cards, la regola televisiva impone che quel potere sia furbo, svelto, pronto a tutto. La realtà magari è più complessa, ma si può capire che la sua rappresentazione spettacolare debba andare per le spicce. Dunque, era nelle cose che i potenti dell’epoca venissero un po’ tagliati con l’accetta e che i loro successori apparissero in scena con una certa, inverosimile, brutalità.

Quello che manca però, almeno secondo me, è il popolo. Il racconto che si fa di quegli anni è tutto imperniato sul triangolo che tiene insieme i politici, gli imprenditori e i magistrati. Tutti intenti a regolare i conti tra di loro. Ma senza che si avverta, alle loro spalle, la presenza dell’opinione pubblica. Ci sono le monetine scagliate contro Craxi, questo sì. E nella serie precedente c’era qualche cittadino che applaudiva Di Pietro. Ma niente più.

Non lo dico per improvvisarmi critico televisivo. Ma per segnalare che fin troppe volte il racconto delle nostre vicende politiche (1993 è solo un pretesto) prescinde da tutto quello che sta dietro, e dentro, la vita di chi si dedica alla politica. Si mette in scena un rapporto rarefatto tra i condottieri delle battaglie politiche e i loro eserciti. Come se gli stati maggiori potessero combattere tra di loro senza mobilitare i soldati, e gli ufficiali, con cui di solito si intesse la trama di una guerra. Un war game tecnologico, non una battaglia in carne ed ossa.

Questo modo di raccontare le cose è presente anche in molte, troppe ricostruzioni giornalistiche che leggiamo quotidianamente. Ci sono i giochi di palazzo. E però è come se mancasse la materia prima. D’accordo, oggi la gente è largamente fuori e contro la politica. D’accordo, una parte della classe dirigente difende e rappresenta ormai solo se stessa. D’accordo, impera la demagogia che fa suonare falso ogni proclama pubblico. Tutto vero, purtroppo. Ma tutto pur sempre insufficiente a dar conto di quello che avviene in quel vasto territorio che collega i decisori politici e il resto del paese.

Tangentopoli avvenne perché era cambiato il vento dell’opinione pubblica, questo è chiaro. Ma i partiti che si davano da fare sotto le sue mura, gli assedianti e gli assediati, si muovevano spinti da pezzi di paese, magari più piccoli, che li orientavano da una parte e dall’altra. Non c’era decisione al vertice che non fosse anche un tentativo di mantenere un briciolo di collegamento con la propria base. Quella base che stava franando. Ma che poi si sarebbe riaggregata altrove, come quasi sempre succede. Portandosi dietro le sue domande insoddisfatte.

La crisi di quegli anni avviene appunto quando gli elettori si trasformano nella “gente”. Un popolo vissuto come una massa informe che i suoi interpreti stentavano a vedere. E che nelle serie televisive non si vede affatto.

Ma la politica è, pur sempre, quel popolo.

(*dal blog dell’autore e di huffington post)

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