Francesco TOZZA- Al digiunatore Nekrosius….(Kafka di scena al Bellini di Napoli)

 

Il mestiere del critico

 

 

 

AL DIGIUNATORE NEKROSIUS

foto di Kim Mariani foto di Kim Mariani

NON SI ADDICE (E NON SI AUGURA!) L’ULTIMA CENA

 

“A Hunger artist “(Un artista del digiuno) di Franz Kafka   con Viktorija Kuodyté, Vygandas Vadeiša, Vaidas Vilius, Genadij Virkovski.   Regia di Eimuntas Nekrošius.   Teatro Bellini, Napoli

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Non è difficile notare, se solo ci si riflette, che i veri (o comunque i grandi!) artisti concludono spesso la loro parabola creativa con un drammatico rifiuto della loro arte: quasi una presa d’atto dell’incommensurabile distanza che la separa dalla vita, un amaro smascheramento della sua effettiva capacità di ritrarla – la vita – o di sublimarla, magari per viverne una migliore nel frattempo, una finale anche se tardiva consapevolezza dei limiti insormontabili ma imprescindibili della finzione in cui ogni linguaggio artistico si condensa, rispetto alla verità della vita che forse solo con il suo ultimo respiro, dinanzi alla morte, si riesce a cogliere in tutta la sua inesprimibile intensità.

E’ così (tanto per fare degli esempi, pertinenti allo specifico teatrale, qui maggiormente in causa) che  il grande Kantor dava alle sue ultime messe inscena emblematici titoli come Crepino gli artisti o Qui non ci torno più; a non dire proprio del suo ultimissimo lavoro, Oggi è il mio compleanno, tragico bilancio delle ineffabili utopie e delle altrettanto inesprimibili mostruosità di un secolo che il grande polacco, morto alla vigilia del debutto, non riuscì a vedere sul palcoscenico, direttamente partecipandovi come notoriamente sempre faceva, lui che quelle mostruosità ed utopie le aveva intimamente vissute sulla sua carne, ormai forse emblematicamente non più disposto a tradurle o comunque riviverle nella finzione scenica.

Non diversamente Grotowski, dopo aver concepito – e soprattutto praticato – il teatro come suprema occasione per sperimentare la verità dell’umano, messo di fronte, nella sempre più pervasiva ‘società dello spettacolo’, ai seri rischi quando non addirittura alla possibilità di non più perseguirlo quell’obbiettivo, abbandonò il teatro – ormai appannaggio esclusivo dello “spettacolo”, non più luogo per celebrare la perduta pregnanza della presenza – e si ritirò (novello monaco di clausura di un incipiente, nuovo Medio Evo!) in quel di Pontedera, riversando le residuali energie di una ritrovata spontaneità dapprima in una “drammaturgia dell’incontro”, non più avvolta, però, dalla mistificazione rappresentativa, più tardi e più radicalmente, in una sorta di comunità della libera educazione, quasi di ascendenza tardo platonica (la celebre Lettera VII), dove eventi rituali sempre meno assimilabili ad azioni teatrali, riconducibili piuttosto a momenti di comune, autentica riflessione, univano i relativi “testimoni” (non più spettatori) nella solidale aspirazione alla verità dell’essere.

L’arte, dunque, non più “faccenda di persone per bene” (non tanto – o non proprio, però – nel senso dell’ultimo libro di Lea Vergine!), piuttosto come inutile spreco di un’esistenza autentica dietro i simulacri della finzione, digiuno di anime e corpi spettacolarizzato per un equivoco bisogno di laica santità, che a stento nasconde il perseguimento di fantasmatici obbiettivi che solo la verità della morte rivela nella loro nuda inutilità. E’ questa forse – per venire allo spettacolo di Nekrosius che qui recensiamo – l’ennesima contestazione del linguaggio artistico che ha portato il regista lituano ad affrontare l’ultimo lacerto della narrativa kafkiana, quasi un movimento (il terzo) di un suo più complesso quartetto, in cui lo scrittore boemo stigmatizza una “vita d’artista” di cui, con un colpo di scena finale, rivela l’equivoco assurdo su cui si basava. Si tratta di uno di quei digiunatori per i quali già ai tempi di Kafka (agli inizi degli anni venti del secolo scorso) l’interesse degli spettatori andava scemando, ma che il permanere di quella che altrove si è chiamata “spettacolarità diffusa” ha permesso, ancora alcuni decenni fa, di vedere nelle piazze dei nostri paesi o nei più modesti circhi che ancora li attraversavano.

In breve, l’arte del digiunatore – sottolinea il racconto kafkiano – consisteva nella messa in scena del suo digiuno, dato in pasto alla morbosa curiosità, se non al vero e proprio sadismo, degli spettatori, sotto il vigile controllo dei guardiani, alle dipendenze – a loro volta – di un cinico impresario: insomma la spettacolarizzazione di un martirio, nella cupa malinconia dell’artista, con la sua pretesa pura spiritualità, senza carne, addirittura senza più il bisogno di carne!

Ma nel prosieguo delle pagine l’allegoria del racconto si fa più variegata e sottile: l’impresario diveniva sempre più tollerante verso le periodiche e necessarie interruzioni del digiuno, anzi le pretendeva sempre più spesso, per evitare il rischio che, con la prevedibile scomparsa del protagonista, scomparisse lo stesso spettacolo. Il quale, a sua volta, progressivamente andava perdendo l’interesse di adulti e bambini: “ci si abituò alla stranezza in tempi come i nostri” (profetica intuizione!); finì che nessuno più si curava del povero digiunatore, che invece avrebbe voluto che si continuasse ad ammirare il suo digiuno, magari prolungandolo ulteriormente per evitare la concorrenza, visto che volentieri ormai gli si preferiva la visita agli animali delle gabbie contigue. Tanto più che, in una crisi di coscienza, il digiunatore rivelò all’impresario il segreto del suo lungo digiuno: l’incapacità di trovare il cibo che gli piacesse, data la mancanza fisiologica in lui dell’organo di gusto!

Intrigante anche se non proprio semplice, in questa specie di apologo kafkiano, cogliere le valenze allegoriche di ogni “vita d’artista”: le sue difficoltà iniziali, ma anche quelle che si prospettano a fine carriera, con il sopraggiungere dei tempi duri e il tramonto dell’antica gloria; il sadismo delle iniziali, sempre più pressanti esigenze degli spettatori, poi il loro facile abbandono nello spegnersi progressivo delle stesse, ma anche il masochismo dell’artista, implicito nel costante suo  bisogno  di successo, causa di una perenne insoddisfazione, spinta fin quasi ad una forma di ascesi.

E soprattutto – così torniamo all’inizio del nostro discorso – c’è, con il disvelamento del mortificante segreto del digiunatore, la sottolineatura dell’inganno, imprescindibile ma reale, che ogni finzione d’artista comporta (per sé e per gli altri) e che l’esigenza di verità del finis vitae non riesce più a sopportare; onde il tardivo, anche se comprensibile, autoesilio nella melanconica nicchia della solitudine, sempre più in balia delle opportunistiche manovre di squallidi impresari (oggi si direbbe dei capricci del mercato), ma anche un evidente cupio dissolvi, preludio alla dissoluzione vera e propria, spirituale e fisica, dell’artista del digiuno, dell’artista tout court (infine consapevole della vuota spiritualità che alimenta l’arte, nel suo essere lontana dalla vitalità del reale).

Nekrosius ha indubbiamente avvertito l’estremo fascino della metafora kafkiana; l’ha fatta sua (ma già nel breve racconto del boemo c’è dell’autobiografia); forse lo ha fatto troppo presto (ha ancora una lunga carriera artistica dinanzi a sé, almeno gliela si augura): ma lo spettacolo, probabilmente, è la testimonianza di una crisi, a stento mascherata dal cambiamento d’identità del protagonista, qui una donna: la stupenda Viktorija Kuodytè, dall’alta professionalià. Come, del resto, anche gli altri tre attori, nei panni di strani personaggi, nei quali non sarà difficile riconoscere i guardiani del digiunatore e lo stesso impresario delle sue performance, cinico e magnanimo al tempo stesso, come si ricorderà.

Ma dapprima, cioè all’inizio della messa in scena, essi incarnano i conferenzieri di un ipotetico convegno sulla digestione, muniti di sagome di cartone dello stomaco per illustrarne le problematiche, e intenti ad imporre al digiunatore varie esercitazioni che lui (cioè lei!) comunque rifiuterà: anche questo un tentativo di depistaggio…? Per non scoprire una sempre più evidente immedesimazione, tramite un inserto non presente nel testo, tuttavia abbastanza coerente con la metafora del digiuno e le sue immancabili conseguenze pseudogastriche (un vuoto esistenziale tenacemente spettacolarizzato, per poi avvertirne la sostanziale inanità!).

Il testo, per altri versi, è abbastanza rispettato, quasi snocciolato, anche se in una diversa ambientazione: la gabbia da baraccone del digiunatore è sostituita da un interno essenzialmente arredato (come sempre avviene nelle scarne messe in scena di Nekrosius); il resto lo fa, al solito, l’atmosfera creata da movimenti e gesti (estremamente controllati ma spesso sulla soglia del surreale) da parte degli interpreti, nonché l’eco, a volte appena percettibile, di musiche lontane, iterative, persistenti, che sembrano dilatare il tempo (peraltro qui è riconoscibile il valzer struggente già usato da Kantor per La classe morta, ormai tema per eccellenza della memoria e dell’oblio al tempo stesso: un ponte lanciato in direzione del maestro polacco,forse mai sentito così vicino, sull’orlo di una crisi di nervi?).

Altre varianti o aggiunte al testo kafkiano non mancano (gli stracci estratti da un sacchetto di plastica per le diverse vestizioni/metamorfosi dell’artista; la più pregnante esposizione sul pavimento di suoi riconoscimenti e attestati – questa volta quelli veri, che hanno costellato la carriera del regista lituano – sui quali il (la) protagonista sembra felicemente adagiarsi, per poi melanconicamente riporli nella scatola da cui li aveva estratti, ponendoci sopra il cartellino “Monte dei pegni”: drammatica traccia della futilità di ogni fama o successo e delle sue altisonanti insegne!). Sono varianti e aggiunte che più che tradire (!) lo scarno e amaro racconto kafkiano, ulteriormente lo personalizzano; e comunque non meravigliano più di tanto, in un regista che i testi (dai vari Shakespeare, Čechov, Dostoevskij ecc, messi in scena in spettacoli memorabili che  fortunatamente abbiamo potuto ammirare su diversi palcoscenici italiani), li ha frantumati, smontati e rimontati, usandoli per riletture fantasticamente visionarie, dove spesso penetrava anche il grottesco, per stimolare e fare esplodere battute e scene altrimenti logorate da certa tradizione interpretativa.

Forse questa volta l’intento allegorico-dimostrativo, già presente nelle ultime pagine dello scrittore boemo, ha suggerito meno visionarietà, maggiore riflessione, quindi un più ampio uso della parola che sembra meglio poterla esprimere; di qui qualche perplessità o traccia di delusione per gli abituali spettatori del grande lituano. Ma anche per loro, per una volta, la riflessione a freddo (da parte nostra lo confessiamo), un po’ dopo lo spettacolo, è servita a diradare dubbi e incertezze su quest’ultimo lavoro del regista

“La cena è pronta” – dice ripetutamente il/la protagonista nelle prime scene dello spettacolo; ma non può né deve essere l’ultima cena del digiunatore Nekrosius o tanto meno indicare nel menù (come avviene sulle lavagnette di proscenio) le  diverse portate dell’ennesimo digiuno! Si può contestare l’arte quanto si vuole, durante quegli accessi più o meno mistici che costellano la nostra tormentata esistenza, prospettandoci l’esigenza di più profonde verità; resta il bisogno della funzione/finzione rappresentativa, anche per coglierle o meglio intuirle, quelle verità, magari discuterne, come fa e ci si augura continui a fare il teatro in particolare.

Non a caso, recitava l’antico adagio che servì da titolo ad uno dei più pregnanti testi dell’epoca barocca: “chi non finge non sa vivere”; non può vivere, aggiungiamo noi. Eterna necessità di quell’inganno prezioso che si chiama arte e di cui si può fare a meno solo quando non ci siamo più.

 

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