Franco LA MAGNA – L’ “alieno” e “sovversivo” Antonio De Curtis, in arte Totò

 

 

La memoria

 

L’”ALIENO” E “SOVVERSIVO” ANTONIO DE CURTIS, IN ARTE TOTO’ (A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE)

con Franca Faldini


Antonio De Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno di Bisanzio, in arte Totò – nato a Napoli il 15 febbraio 1898 nel rione “Sanità” e morto a Roma il 15 aprile 1967, nella sua casa dei “Parioli”- spese un numero imprecisato di anni (e di quattrini) per “dimostrare” le origini blasonate del suo casato. Tanta angosciante perseveranza avrà forse finalmente requie e ragione con il suggello dell’incredibile “scoperta” finale, secondo cui egli sarebbe stato l’ultimo discendente dell’imperatore di Bisanzio. Nel frattempo la madre, Anna Clemente, finalmente unita in matrimonio con il marchese Giuseppe De Curtis, dopo ben 23 anni dalla nascita del figlio “more uxorio” (15 febbraio 1898), consacra un vincolo che lo libera definitivamente dall’ insopportabile condizione di illegittimo.

Nato, dunque, da una relazione “ancillare” tra un patrizio e una popolana, come tutti gli attori provenienti dal teatro di varietà, Totò vive un’infanzia dura, ai limiti dell’indigenza, iniziando precocemente una carriera, dapprima stentata (esibendosi nei teatri di quartiere, tra caffè concerto e compagnie di varietà) poi in rapido crescendo con il teatro di rivista e di operetta, che lo consacreranno “come uno dei comici più originali delle scene italiane tra le due guerre”. Una felice stagione che si prolungherà anche nell’immediato dopoguerra, periodo in cui “l’attore ebbe modo di manifestare appieno le sue non comuni doti drammatiche e spettacolari in una serie di riviste di grande successo, firmate da Michele Galdieri, che riscossero uno strepitoso successo di pubblico e di critica” (Gianni Rondolino).

“Nella nebulosa dei generi spettacolari tra le due guerre Totò appare – scrive Giampiero Brunetta – come un astro dotato di luce propria…Nel suo albero genealogico trovi Pulcinella e Sciosciammocca, lo Zanni e Capitan Fracassa, Pierrot e Truffaldino, Arlecchino e Pantalone. Trovi il ricordo della fame atavica e quello dei soprusi, ingiustizie, ma anche l’orgoglio, il desiderio di ribellione, la carica di aggressività accumulata da tempo pronta ad esplodere non solo a parole… La sua recitazione introduce, in numero considerevole, elementi di irregolarità, dissimetrie, aritmie nei modelli recitativi. Sulle scene teatrali e cinematografiche è come se fosse giunta, per vie imprevedibili la lezione della musica dodecafonica, delle pittura cubista e surrealista…In situazioni di ordine e di equilibrio la presenza di Totò fa precipitare le cose verso il caos…”.

E sul confronto con le grandi maschere ritorna – in una intervista concessa alla RAI, in occasione del centenario – Franca Faldini. “Totò – dice la Faldini – rimarrà sempre, come rimangono le grandi maschere della commedia dell’arte. Totò è oggi simile a Pulcinella, a Pantalone, Arlecchino, che non sono collocati in una determinata epoca”.

con Peppino De Filippo

Il suo volto, deformato da un pugno ricevuto sul naso e da snervanti esercizi inventati per mobilizzare le mascelle, acquista rapidamente notorietà. Ma per quanto straordinaria fosse la sua mimica stralunata e irresistibile in teatro, dove indossa un ridicolo e cortissimo tight che diventerà una sorta di divisa della comicità, egli riuscirà a raggiungere la grande platea soltanto con il cinema e soltanto dopo la fine della 2ª guerra mondiale – nonostante il suo debutto cinematografico risalisse al 1937 con Fermo con le mani di Gero Zambuto – quando esploderà fragorosamente, diventando in breve “uno dei fenomeni di divismo più importanti dell’intero cinema italiano. La sua presenza in un film garantiva al produttore la fedeltà di una schiera di fans sufficienti a fare del film un successo. Ma Totò (abbastanza trascurato dagli uomini di cultura e dai critici durante la sua vita) è divenuto nel corso degli ultimi anni anche un ‘caso’  per saggisti e storici del cinema” (Bendazzi).

Dopo il suicidio dell’attrice Liliana Castagnola (1930), che si toglie la vita perché da lui respinta e la separazione dalla moglie Diana Bandini Rogliani (da cui avrà una figlia che chiamerà Liliana, presidente dell’Associazione “Antonio De Curtis”), incontra un’altra giovanissima attrice, Franca Faldini, che diverrà la sua compagna (senza mai sposarlo) fino alla prematura morte. E sarà proprio la Faldini che, in qualche modo, farà da ulteriore battistrada alla “riscoperta” critica di Totò, iniziata già all’indomani della sua morte, scrivendo con Goffredo Fofi un saggio fondamentale sulla vita e l’arte dell’impareggiabile partenopeo, Totò, l’uomo e la maschera (Feltrinelli, 1977), uno dei tanti scritti della “rinascita” post mortem apparsi in questi ultimi cinquant’anni, dopo un lungo periodo di indifferenza o addirittura disprezzo da parte della critica in genere, non necessariamente militante.

Nel dopoguerra dunque, dopo aver abbandonato l’avanspettacolo e il teatro di  rivista, al quale tornerà fatalmente nel 1956 con A prescindere (contraendo purtroppo una malattia lo porterà alla quasi totale cecità), inizia a interpretare quella gragnola di film (se ne contano 97, molti dei quali di pessima fattura, frettolosi e banali) che, tuttavia, centreranno in gran parte trionfali successi commerciali (I due orfanelli, 1947; Totò al giro d’Italia, 1948; Totò cerca casa, 1949, ecc…). La parodia diventa uno dei suoi punti di forza (Fifa e arena, 1948; Totò sceicco, Totò Tarzan, 1950; Totò terzo uomo, 1951 fino a Che fine ha fatto Totò baby,1964).

con Mario Castellani

Altra celeberrima parodia, dell’altrettanto celeberrimo Pepè le mokò, è il film Totò le mokò (1949) di Carlo Ludovico Bragaglia, dove lo ritroviamo affiancato dalla più celebre delle sue “spalle” Mario Castellani (nei panni di Za la Mortadelle) e che resta una delle più riuscite  “con un Totò – come scrive Mereghetti – in gran forma che lancia divagazioni linguistiche in algerino napoletanizzato…”.Dalle commedie di Eduardo Scarpetta interpreta un’esilarante Miseria e nobiltà, 1954, regia di Mario Mattoli, già trasposto in versione cinematografica nel 1941 per la regia di Corrado D’Errico, classica farsa napoletana in cui appare nei panni dell’indigente scrivano Felice Sciosciammocca, accanto a Sophia Loren, Dolores Palumbo, Carlo Croccolo, Valeria Moriconi ed Enzo Turco e nel quale una particina è riservata anche a Franca Faldini.

Con Eduardo De Filippo, cantore di un’umanità dolente e senza speranza, appare nell’amaro Napoli milionaria, (1950, assolutamente eccezionale il ruolo del finto morto),  ma quando grandi registi (raramente) si impadroniscono della sua maschera, paradossalmente, la recitazione misurata, controllata, a volte sembra comprimerlo “sottraendogli la vena surreale e macchiettistica” (Di Giammatteo). E tuttavia indimenticabili restano anche questi personaggi sbozzati, per così dire, “sottotono” (l’umanissimo, irresistibile, ladro di Guardie e ladri, 1951, di Steno e Monicelli; l’apparentemente burbero questurino di Totò e Carolina, 1953 di Mario Monicelli, che scatenò le ire dell’allora ministro Scelba;   il sofferto e perdente uomo comune di Dov’è la di Napoli libertà, 1954, di Roberto Rossellini; l’umiliato e poi riscattato “pazzariello” dell’episodio Il guappo, da L’oro di Napoli, 1954 di Vittorio De Sica, tratto dai racconti di Marotta; l’inappuntabile iettatore dell’episodio La patente, da Pirandello, regia di Luigi Zampa, dal film Questa è la vita, 1954; lo straordinario scassinatore in “pensione” Dante de I soliti ignoti, 1958, di Monicelli, dove – come nota Enrico Giacovelli – “sarà proprio Totò, docente di scasso e di arti truffaldine varie, a passare il testimone ai futuri re della commedia, per ora rappresentati da Gasmann e Mastroianni; il responsabile pater familias di Arrangiatevi, 1960, di Mauro Bolognini; il coraggioso ufficiale de I due colonnelli, 1962, di Steno, che contiene alcune memorabili battute.

Letteralmente inzeppato di battute, tracimante e devastante come la piena di un fiume, Totò a colori (1952) di Steno, ovvero Stefano Vanzina, è il primo film italiano a colori e propone una piccola summa degli sketchs teatrali più noti e riusciti del suo sconfinato repertorio. Indimenticabile, effervescente, da godere dalla prima all’ultima battuta, tutto il lunghissimo duello verbale della scena del wagon lit, dove egli spinge sadicamente, fin quasi alla crudeltà, l’affondo micidiale contro la vittima di turno, ancora Carlo Castellani nei panni dell’onorevole Trombetta (“Chi non conosce quel trombone di suo padre”). Ma che contiene anche quello sbalorditivo numero marionettistico del Pinocchio, un “Pinocchio disarticolato che s’affloscia infine, lasciate le corde, in un mucchio angosciante di legni senz’anima, capolavoro di un Totò robot e metafisico e il gran finale del direttore d’orchestra fuoco d’artificio, furia pluriorgiastica di esplosioni a girandola a schizzo e a von-braun e di continue interne metamorfosi” (Mereghetti).

con Nino Taranto

Autore (in collaborazione) del soggetto e della sceneggiatura di Siamo uomini o caporali ? (1955) di Camillo Mastrocinque, in cui sciorina la sua spiccia e amara filosofia piccolo-borghese della vita, dividendo gli uomini in caporali (che comandano) e uomini (che ubbidiscono), duetterà in numerosi film – da primus inter pares – con i maggiori esponenti di quella irripetuta generazione di grandi comici che hanno lasciato un vuoto incolmabile nel cinema (e nel teatro) nazionale, insieme a deliziosi, inebrianti caratteristi, categoria ormai scomparsa dal sempre più anonimo cinema italiano contemporaneo.

Si colloca perfettamente agli antipodi del personaggio misurato, tirchio, contenuto, razionale, “etico” di Peppino De Filippo, cui si contrappone “esteticamente”, a volte straripando, altre volte forse un po’ fuori parte,  girando la serie di Totò, Peppino e…; ma si accoppia perfettamente anche con il finto pacioso Aldo Fabrizi (I tartassati, 1959, di Steno, dove ormai i disonesti si sono impadroniti delle leve del potere), con lo scoppiettante, indimenticabile, Nino Taranto (come non ricordare almeno Totò truffa ’62) e perfino con l’inimitabile, insuperato Vittorio De Sica (Totò, Vittorio e la dottoressa, 1957, ecc…) o in formidabili “corali” (La banda degli onesti, 1956, di Camillo Mastrocinque, insieme a Peppino e Giacomo Furia), molti dei quali girati quando era ormai quasi cieco. Senza dimenticare il sodalizio, agli inizi della carriera, con quell’altro irripetuto fenomeno tutto italiano che porta il nome di Anna Magnani.

Memorabili rimangono le ultime interpretazioni da Il comandante (1963 di Paolo Heusch) a Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini, apologo sulla crisi della sinistra, dove epurato da facili umori ridanciani e reso irriconoscibile conquista il Nastro d’Argento come miglior attore protagonista; fino agli ultimi Le streghe (1966, episodio La terra vista dalla luna, ancora di Pasolini), Capriccio all’italiana (1968, uscito postumo, episodi Il mostro della domenica di Steno e il poetico e struggente Che cosa sono le nuvole, sempre di Pier Paolo Pasolini). Scoperta purtroppo tardiva d’un interprete troppo spesso sprecatosi in una messe di operine ridanciane, sconclusionate e banali, repertorio di lazzi funambolici, in cui un Totò (più volte, e non a torto, accusato d’essere stato il peggior manager di se stesso) riscatta l’insignificante, la banalità, l’anonima mediocrità, inventandosi svolazzi geniali che ne svelano l’inesauribile vena di ultimo grande figlio della commedia dell’arte.

A iosa, in questi ultimi trent’anni, i giudizi su di lui, unico caso di attore la cui popolarità non è affatto scemata e la cui bonaria o “cattiva”, stramba e funambolica figura, ne fanno una specie di prodotto nazionale doc, immediatamente riconoscibile e di sconvolgente effetto. “Alieno”, “marziano”, “mimo”, “distruttore della comunicazione verbale”, “sovversivo”, “con una mimica degna di Buster Keton e Charlie Chaplin e con una eversività degna di Groucho Marx e un nonsense affascinante quanto quello di Stan Laurel o Harpo (Giannalberto Bendazzi); “comico inquietante ed aggressivo, lazzaronesco e scurrile” (Vittorio Viviani); “attore dall’umanità ora beffarda ora patetica” (Giulio Cesare Castello); “palpitante polso degli umori della massa tagliata fuori dalla partecipazione sociale”, “linfa coagulante degli stati d’animo d’una platea popolare” (Alberto Castellano -Vincenzo Nucci); “l’artista comico italiano più amato, più esaltato, ma anche ignorato e perfino disprezzato” (Ettore De Marco); “fenomeno quasi inspiegabile di frenesia perfettamente controllata e di uso raffinato della mimica e del costume” (Fernaldo Di Giammatteo) e via discorrendo, quasi ad libitum.

Di lui “superbo improvvisatore” – che oggi a cinquant’anni dalla morte e quasi cento dalla nascita ci appare come una sorta di nonno plurigenerazionale da iscrivere nell’albero genealogico del patrimonio artistico nazionale – poeta degli umili e dei reietti, la più poetica, ancora attualissima, definizione, ricordando la futilità e la precarietà dell’esistenza, la lasciò forse Ennio Flaiano: “Totò ci appare come lo scolaro in castigo che, facendo cenni alle spalle del maestro tiranno, ridà una speranza di follia alla scolaresca umiliata e annoiata”.

con Aldo Fabrizi

Bibliografia essenziale

Gianmarco Bendazzi, Il cinema comico meridionale, Edizioni Dedalo, Bari,1984.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Bari, 1991.

Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del cinema, Newton, Roma, 1995.

Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese Editore, 1995.

Goffredo Fofi-Franca Faldini, Totò, l’uomo la maschera, Feltrinelli, Milano, 1977.

Franco La Magna, Auguri, nonno Totò, in Luchino Visconti, Laboratorio per l’Arte e per l’Ambiente, Troina, 1998.

Paolo Mereghetti, Dizionario dei film, Baldini e Castoldi (pubbl. annuale).

Gianni Rondolino, Dizionario del cinema italiano, Einaudi, Torino, 1969.

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