Francesco TOZZA- La danza di Elettra….(Strauss al San Carlo di Napoli)

 

Il mestiere del critico

 

 

LA DANZA DI ELETTRA

FRA LE MACERIE DELL’ARMONIA

di Richard Strauss

Libretto di Hugo von Hofmannsthal  Direttore: Juraj Valčuha con: Sabine Hogrefe (Elettra); Renée Morloc   (Clitennestra); Manuela Uhl (Crisotemide);  Michael Laurenz  (Egisto);Robert Bork (Oreste).

Regia: Klaus Michael Grüber (ripresa da Ellen Hammer)  Scene e costumi: Anselm Kiefer

Produzione del Teatro di San Carlo – Napoli

(ripresa dell’allestimento 2003)

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Non fu difficile da parte nostra, benché non facili … ai complimenti, definire (su primafila n. 103) l’inaugurazione della stagione lirica al San Carlo, nell’ormai lontano 2003, di gran livello: “per la scelta dell’opera, innanzi tutto, non rientrante nel più consueto e abusato repertorio ottocentesco, ma anche – o soprattutto – per la oculata e pregevole cura prestata alle varie componenti dell’allestimento”, continuandosi a registrare, allora (oh les beaux jours!), “l’intelligente politica di sposare musica e arti visive contemporanee”. Matrimonio – si diceva – che produce  “risultati forse diseguali, a volte magari discutibili” sui palcoscenici lirici internazionali, comunque “sempre di sicuro interesse artistico, con in più il merito di avvicinare nuovo pubblico ad un settore dello spettacolo che, col passare del tempo e l’inevitabile declino delle generazioni, abbisogna – forse più di ogni altro – del salutare ricambio nei suoi destinatari”.

Se non fosse per quel cenno al merito dell’avvicinamento ad un pubblico più giovane, forse sopravalutato (ma forse occorreva una maggiore costanza nel perseguirlo!), potremmo sottoscrivere in toto quanto dicemmo, ormai circa quindici anni fa, a proposito di quell’Elektra, fortunatamente ripresa in questi giorni (ne diamo atto all’attuale direzione artistica del Teatro), con diversi cantanti e un nuovo direttore d’orchestra, ma in quello stesso allestimento (Kiefer/Gruber), ormai divenuto storico perché di incomparabile bellezza.

Certamente di suo l’opera di Richard Strauss ha un fascino irresistibile (e gli applausi con cui è stata accolta  ne sono conferma inequivocabile), oltre ad un’emblematica importanza, sicché meraviglia che il San Carlo, a prescindere dall’attuale ripresa dell’edizione 2003, l’abbia presentata solo nel 1956, pur avendo ricevuto il suo battesimo nel ben più lontano 1909, a Dresda: mistero dei nostri troppo abitudinari o eccessivamente prudenti (e quindi assai poco formativi) cartelloni lirici! O, più esplicitamente, permanente sospetto nei confronti di quella che, nel fatidico ventennio, si definiva l’arte brutale e cinicamente perversa dei modernisti?!

E’ pur vero che anche a Strauss è stato rimproverato “un cammino a ritroso verso la restaurazione”, dopo aver genialmente presentito l’espressionismo, o comunque aver condotto lo sviluppo del discorso musicale ai limiti della rottura con l’armonia tradizionale. Ma il ritorno indietro del compositore monacense non fu certo dovuto a rifiuto precostituito del nuovo, ad assoluta mancanza di sperimentalismo sonoro (figuriamoci, con quel corrosivo magma musicale, condotto all’estremo tollerato dalle orecchie del tempo!), o – come pure è stato detto – ad una fatua “vita d’eroe”, combattuta entro l’ordine costituito e non contro di esso!

Molto più semplicemente, ci fu soltanto la volontà di non compiere il salto oltre i limiti di una politonalità esasperata, il bisogno di non rinunciare definitivamente alle oasi di beatitudine tonale, alle melodie sinuose, carezzevoli di una residuale viennesità, pur fra le rovine dell’armonia perduta; in poche parole, il beneficio del dubbio o il diritto di non scegliere drasticamente, e una volta per tutte, fra l’antico e il moderno. “Se scegli l’uno, tu perdi l’altro! Ché sempre si perde quando s’acquista” – dirà icasticamente Madeleine nel sintomatico, ultimo Capriccio del compositore.   Nessuna chiusura, dunque, in una tradizione caparbiamente e aprioristicamente difesa, bensì la difficoltà di scegliere in modo univoco; la consapevolezza della banalità di ogni definitivo scioglimento (per dirla ancora con la protagonista dell’ultimo capolavoro).

Ed è qui il fascino segreto, la perdurante attualità del teatro musicale di Richard Strauss, a partire proprio da questa incandescente Elektra, novella Salomè dall’erotismo,  però più sottile e ambiguo, perché represso e mascherato, di fronte alle cui sconvolgenti passioni è d’uopo “tacere e danzare”, prima che giunga a governarle – ma non a spegnerle del tutto – la più composta e neoilluministica saggezza della Marescialla nel Rosenkavalier o l’autoironico disincanto della Contessa nel già citato Capriccio; verrà, allora, l’irreversibile, malinconico crepuscolo, la nostalgia infinita, anche se sorridente.

Per il momento – complice un libretto fra i più belli nella storia della musica, inizio peraltro della ventennale collaborazione fra il musicista e il grande Hofmannsthal – vanamente si mettono alla catena gli istinti primordiali, che invece divampano in una tesissima partitura dove, fra grida isteriche ed espressioni di canto spianato, il gigantismo orchestrale concede rari paradisi melodici.

Una drammaturgia piuttosto lontana dalle “ingessate” traduzioni o elaborazioni del mito greco, tanto care ai vari classicismi, attraversata ormai dai più moderni dubbi shakespeariani e dalle ossessioni metafisiche calderoniane, imbevuta giocoforza di scandagli psicologici prodotti dalla neonata psicoanalisi, si traduce immediatamente in musica, impedendo alla parola del poeta – in preda ad una crisi d’insufficienza nell’esprimere l’essenza delle cose – di chiudersi nel fatale silenzio paventato dalla Lettera di Lord Chandos. Solo la musica, di fatto, riesce ad esprimere il tormento non dicibile di Elettra, la ‘vergine priva di letto nuziale’ (da alektros, secondo una non troppo fantasiosa etimologia), erinni domestica, frenetica eroina morale, che canta le sue orrende nozze con l’odio, non potendo celebrare quelle con l’amore (per il padre, il fratello, la sorella stessa?): “l’Amore uccide, ma nessuno può morire se non conobbe prima l’Amore” – grida infine disperata.

E l’invito all’azione, in precedenza reiterato (“Beato chi può fare”), tradisce una sostanziale incapacità di agire (non a caso dimentica di porgere l’ascia, a lungo conservata, al silenzioso vendicatore). Resta, allora, l’orgasmo del puro immaginare (forse solo un’onirica proiezione la morte di Clitennestra ed Egisto, ovviamente fuori scena), in una Grecia ebbra e notturna, che non appartiene più a nessuna geografia, che ormai è soprattutto il regno sotterraneo dell’io, torre carceraria fatta di mura senza finestre: solo porte, sempre aperte a tutti i venti delle passioni, cavità uterine della psiche, rovine di un cantiere o di una città morta, che le fiaccole impazzite di una residua ragione inutilmente tentano ogni tanto di illuminare.

Era questa, manco a dirlo, quasi suggerita da parole e musica della partitura, la scena approntata per l’allestimento sancarliano da Anselmo Kiefer, grande protagonista dell’arte contemporanea, al suo esordio nel teatro d’opera proprio con questa Elektra; e intonatissimi anche i costumi – fuori di ogni tempo storico – da lui stesso ideati, sull’onda del ricordo di una sua mostra, tenuta sempre qui a Napoli, nella galleria di Lia Rumma (Le donne dell’Antichità). Essenziale, priva di artifici o inutili interventismi, la regia dell’ormai scomparso Grüber (ora ripresa da Ellen Hammer): lancinante, nella scena finale, in luogo della più ovvia, realistica danza prevista dal libretto, quel far percorrere lo spazio, funnambolicamente, alla protagonista, con una gestualità inquieta, tesa su un impossibile, non trovato equilibrio.

Juraj Valčuha ha rivelato doti di interprete audace e al tempo stesso raffinato nel non facile repertorio tardo-romantico: l’orchestra del San Carlo, con questo suo nuovo direttore musicale, continuerà a raggiungere i ragguardevoli risultati cui perviene saltuariamente nel suo percorso artistico, quando a dirigerla è una più stabile e autorevole bacchetta. Alto, infine, il livello degli interpreti vocali, e di rilievo, nel complesso, la loro resa scenica: una menzione particolare per Manuela Uhl, perfetta nei panni di Crisotemide, anche per le physique du rôle, che in opere del genere diviene quasi una necessità.

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