L’ASTRATTISMO DI MARIA CASCIOLI TRA SCRITTURA E CONOSCENZA
Roma, Lettere Caffè, fino al 19 aprile
La natura non è che un dizionario per l’artista,
il quale non si adegua mai al modello, accettandolo,
ma cerca di renderne la ricca e bella primitività.
Luciano Anceschi
Nell’ormai lontano inverno tra il ’73 e il ’74, a Roma, il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese ospitava “Contemporanea”, storica rassegna dedicata alle nuovissime tendenze dell’arte. In contrasto con il trionfale paesaggio in superficie, tra i vertiginosi pini di Villa Borghese, le Mura Aureliane in cima al Muro Torto e l’inizio di Via Veneto, era sufficiente scendere la ripida scalea per trovarsi nei lunghi e poco illuminati corridoi di linoleum lungo i quali si aprivano sale di esposizione e luoghi di convegni. Accadeva di incrociare Jannis Kounellis e Vettor Pisani, esponenti di punta della schiera di artisti esposti, di sentirsi chiedere da uno sperduto Alberto Moravia quale fosse la strada da prendere, di entrare per caso nel mezzo di un’estemporanea tavola rotonda mentre Italo Moscati poneva con nonchalance il “problema della formalizzazione”.
All’epoca, gli strumenti offerti dalle discipline linguistiche e semiologiche apparivano quanto mai adatti a esplorare le tendenze di un’arte apparentemente refrattaria ai parametri “classici” della critica: a patto, ovviamente, di saperli adoperare con criterio. In quegli anni, il compianto critico d’arte Filiberto Menna scriveva: «L’impostazione analitica dell’arte moderna rientra in un più vasto complesso culturale ed è attraversata dall’avventura strutturalista del XX secolo». Astrattismo, arte povera, informale, body-art, installazioni, happening, sembravano assegnare a studiosi e critici il compito di impadronirsi di «un vocabolario tecnico perfetto», continuava Menna, «di spostare l’uso dei termini dal loro senso corrente al loro gergo scientifico».
Menna fu uno dei primi in Italia ad applicare con successo gli strumenti della semiotica in tale campo, senza dimenticare la loro diretta filiazione dalla casa-madre dello strutturalismo. Le sue parole sono state evocate pochi giorni fa in un caffè letterario nel cuore di Trastevere, durante il vernissage di “Rinascita”, mostra dell’artista Maria Cascioli. I suoi olii su tela, acrilici, tempere, collage polimaterici, esposti nei locali di Lettere Caffè, hanno suscitato interpretazioni in grado di richiamare l’epoca in cui i giovani degli anni ’70 (attraversati anche dalle suggestioni marxiane e freudiane) passavano dalle idee all’azione critica: anche oggi, dinanzi alle opere di Maria Cascioli, è necessario «comprendere quanto le figure, i colori, le prospettive, le modalità esecutive di un dipinto, nell’essere significanti di qualcosa, siano ovunque significante in aggiunta di significato».
Lo ha sostenuto, nel corso della presentazione, la giornalista e critico letterario Cinzia Baldazzi, secondo cui le parole di Umberto Eco sul significante identificato come «area genitrice di senso», perfettamente rendono l’idea di una zona fertile, feconda, come quella dei quadri della Cascioli, «riempita di cumuli dovuti al denotare e al connotare, in virtù di una serie di norme e di lessico a stabilirne le relative corrispondenze».
Maria Cascioli, cinquantaseienne, nata a Roma dove vive e lavora, dopo l’Istituto Statale d’Arte “Silvio D’Amico” ha svolto attività nel campo del restauro (decorazioni, bassorilievi e statue della Torre Peduzzi al Musée d’Orsay di Parigi) e della scenografia. Ha iniziato a esporre nel 1990 con numerose collettive e personali.
La culla della civiltà
«Nell’incontro tra le diverse zone, tra i piani prospettici», ha scritto Lidia Reghini di Pontremoli, «si aprono galassie complesse, dislocazioni geometriche formate da assonanze cosmiche e misteriche che divengono metafora di un primigenio ordine naturale strutturato attorno al riferimento totemico dell’obelisco della vita». Il riferimento è a quella “famiglia” di opere che la Cascioli ha voluto dedicare all’evoluzione del mondo umano antichissimo, concentrato attorno a due opere in particolare.
In Culla della civiltà, spiega la giornalista, intorno alla radice di un albero formalizzata in un semicerchio «si muovono le silohuette scure della civiltà archetipica, custode del culto dell’albero delle origini, mentre al centro è rappresentata la successiva fase di autocoscienza, allorché si sale tra i rami per goderne i frutti».
Il pozzo della conoscenza
Il pozzo della conoscenza indica un evolversi: «Il progresso avanza: il dominio sull’ambiente è ormai completo», prosegue la Baldazzi: «L’albero è svuotato dei suoi doni, condotti in trionfo dagli uomini emancipati: le particelle tonde, gli atomi democritei, sono nutrimento per il corpo, cibo per la mente. Della pianta, però, rimane salda e solitaria la radice, una falce di luna composta da un intarsio ligneo di rombi e losanghe».
Donatella Calì, poetessa e pittrice, ha sottolineato l’aspetto “umanistico” della pittura della Cascioli nel rilevare «una figura umana moltiplicata all’infinito e nascosta in simboli», e nel ricondurre l’attenzione sulle unità minime, «un esercito di particelle guerriere in lotta anche senza braccia, in una realtà illusoria non finita».
Frutto della conoscenza
Un altro gruppo di opere esposte si raccoglie intorno a figure organiche, familiari e inquietanti al tempo stesso. Nel Frutto della conoscenza campeggia il profilo di un reticolo geometrico del muscolo cardiaco, una sorta di alveare con cellette a cubo e non esagonali. Dall’alto cola una specie di liquido coincidente con piccole sfere di varie tonalità di azzurro, dal celeste al blu: nel riferimento agli atomi del vecchio Democrito, anch’essi, spiega Cinzia Baldazzi, «sono “piccole sfere”, segnali dell’“essere”, ma anche di “vuoto”, cioè di “non essere”».
E prosegue: «Nella Cascioli, il simbolo della vita è ritratto in una natura restaurata, non utopica né fantasiosa. Ecco il cuore, il miocardio, vivere al posto nostro». Maurizio Pochesci lo giudica «dipinto di onirica bellezza», per la sua «realtà astratta tra allusioni esistenziali e simbologie», e ne mette in evidenza «l’esaltazione del ritmo lirico di libere forme geometriche che si evolvono in fluidità e trasparenze nell’alchimia coloristica», dove però «ogni colore è l’espressione dell’intima emozionalità».
Fiore della ragione in rosso
Nel Fiore della ragione in rosso, i richiami sono molteplici: la struttura legnosa della pigna, i moduli esagonali dell’alveare, il vermiglio acceso del cuore. La figura è sormontata da un ingranaggio del medesimo colore, una ruota dentata, una sorta di giunto meccanico di sezione anch’essa ad esagoni. «È un emblema esplicito, mutuato dal linguaggio e dall’uso della tecnica», continua la giornalista: «L’unione permette a ulteriori elementi di muoversi, trasmette la dinamicità, collega i pezzi all’interno di una serie continua e ne garantisce il funzionamento. Il quadro può essere denotato addirittura con le parole con le quali il giunto è definito nei dizionari di ingegneria: “organo di accoppiamento». Maria Cascioli vi raffigura all’interno una sagoma stilizzata: per lei, la mente in realtà esiste solo in un corpo fragile, limitato. È una particella vitale, precaria, aggrappata al contesto dell’immenso e misterioso cosmo.
Ex Voto II
Ex Voto II rinvia a uno schema di sembianze uterine: un profilo non regolare, gonfio, turgido, sebbene costituito da filamenti metallici dentati, a copertura di un fondo materiale grigio e magmatico. La scritta “ex-voto”, in alto, fa colare giù inquietanti rivoli di vernice. «Sagome di pensieri in ogni direzione, fuori e dentro le nostre paure», scrive Donatella Calì. L’apparente freddezza di questo organo rigido e ferroso fa dire alla Calì che «in un attimo l’ossigeno potrebbe scomparire dal cervello, in un attimo tutto potrebbe accadere». Ma la forza della vita non è spenta: «C’è del fuoco», prosegue la Calì, «dentro le pennellate in apparenza chiuse dentro forme geometriche che s’intersecano, si aggrovigliano, per poi sciogliersi in cascate di luce».
Percorsi di una mente incatenata
Vera e propria summa dell’arte di Maria Cascioli, Percorsi di una mente incatenata raggiunge un profilarsi standard dei simboli. Ne comprime il numero, mentre li arricchisce di valori cromatici, lineari, armonici, in un procedere delimitato dal quadrante di un orologio, o dalle corsie interne ed esterne di un raccordo stradale.
La Baldazzi ne ha spiegato il riferimento storico-mitico, ricordando la misteriosa svolta subìta dal rapporto segno-disegno nell’area mesopotamica nel 1500 a.C. Il passaggio della mano dello scriba sulla tavoletta di argilla ancora fresca, che avveniva da destra verso sinistra, a un certo punto mutò direzione: si cominciò a scrivere da sinistra a destra, dal senso antiorario a quello orario. Cambiò l’uso già codificato, sia pure non a livello sociale ma del singolo, e l’individuo lo comunicò prima a se stesso, poi agli altri.
In Percorsi di una mente incatenata, spiega ancora la giornalista, «una marea di sfere candide e azzurre, favorite dal fato, sono potute entrare nella circolarità della vita e della morte, là dove il rosso è pennello del sangue». Similmente all’interesse mostrato da Baudelaire verso Eugène Delacroix, e al suo “disagio” nei confronti del colore, anche nella Cascioli è proprio nel colore che si risolve la questione del dipingere. «Nei quadri di Maria Cascioli, il colore si fa strumento dell’immaginario», conclude la giornalista e critico letterario Cinzia Baldazzi, e «nello stile di una parola alta, allegorica, quasi un organo trascendente, rivela l’esistenza di una realtà più profonda e insieme ulteriore alla natura».