Francesco TOZZA- Le perplessità di un moderno Donchisciotte

 

Il mestiere del critico



LE PERPLESSITA DI UN MODERNO DONCHISCOTTE

“Circus Don Chisciotte” di Ruggero Cappuccio al San Ferdinando

“Circus Don Chisciotte”.  Testo e regia di Ruggero Cappuccio – Con R. Cappuccio, Giovanni Esposito, Giulio Cancelli,  Ciro Damiano, Gea Martire, Marina Sorrenti. Napoli, Teatro San Fernando

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Sentire il bisogno di leggere un testo, dopo aver assistito alla sua messa inscena, può significare tante cose: può voler dire esigenza di meglio comprenderlo, quel testo, magari perché sono sfuggite alcune battute o certi passaggi  della vicenda cui si è assistito (è, allora, colpevole disattenzione del fruitore?). Può voler esprimere desiderio di un ritorno più appagante a quel testo, magari perché se ne vuole meglio gustare il preziosismo verbale o il fascino suasivo del discorso, che la sua frantumazione fra le voci dei vari personaggi ha, per certi versi, fatto smarrire.

Possono continuare a formularsi altre ipotesi, ma forse la natura della cosa non cambia: il teatro, e non solo nel caso specifico, non soddisfa l’occhio e l’orecchio dello spettatore, forse non del tutto nemmeno l’intelletto, pur sollecitato, perché ha prevalso il rinvio ad un oltre che la scena ha comunque fatto intravedere, invitando a cercarlo, senza tuttavia offrirne altro che una pallida traccia; in definitiva lasciando lo spettatore nel limbo dell’epoché, alla ricerca di un qualcosa che l’hic et nunc non ha saputo o voluto dare.

E’ quanto ci è successo uscendo da teatro, dopo aver assistito al Circus Don Chisciotte di Cappuccio: la bravura del protagonista (con le sue consolidate doti attoriche che vanno ormai ad aggiungersi a quelle, già sufficientemente note, del drammaturgo e del romanziere), il gruppo degli attori che gli facevano corona (e non gli erano da meno, in particolare Giovanni Esposito, che con la sua impagabile vis comica costituiva un felice controcanto alla malinconia talora greve dell’insieme) non sono riusciti a teatralizzare efficacemente lo stato delle cose, comunque il probabile, più sottile fascino della sottostante scrittura drammaturgica.

La parabola del professore Michele Cervante, erede dell’Hidalgo della Mancia, che combatte contro le nuove – che poi sono sempre vecchie – forme d’ignoranza, di disumanizzazione, nei cui confronti registra una strana, forse ormai inspiegabile arrendevolezza da parte dei suoi interlocutori, si fa parabola di un presente che è tragico e comico al tempo stesso, ingenerando amarezza, perturbamento, difficile, forse ormai impossibile progettualità; ma resta parabola, che per una più meditata riflessione rinvia al raccoglimento più intimista di una pagina scritta che non sempre ama spettacolarizzarsi e per questo non sa o non vuole riuscirci.

I libri come ultima thule, indispensabili sassi idonei a superare il pericoloso guado in cui siamo immersi, attentamente percorrendoli, senza inutili contorsioni o pericolosi schiamazzi? Sono loro il pur fragile ponte che potrà permetterci, nel buio della notte in cui siamo immersi, il difficile attraversamento per raggiungere l’altra riva? E il teatro? Non serve più?

Se non lo regge un’assoluta necessità espressiva, che infervora e seduce, offre solo la fragile panacea circense; e i suoi attori, secondo l’antica e ormai persa tradizione del genere, appaiono, appunto, artisti sotto la tenda di un circo: perplessi.

E, con loro, restano perplessi quei pochi spettatori che nell’applauso generale, dalla fatica degli attori indubbiamente meritato, non colgono certamente l’espressione di un imprescindibile disagio, il loro stesso bisogno di qualcos’altro, che il teatro ormai sempre più di rado sa dare e, in questo caso, forse, potrà dare soltanto la lettura della pagina scritta: quell’intimo raccoglimento di cui si diceva, il suo più profondo domandare, senza più risposte certe e consensi aproblematici.

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