Teresio SPALLA- Saggistica breve. Il sesto cavaliere, la calunnia/ Maccartismo e altro

 

Molti lettori ci chiedono di riproporre, in modo consecutivo, le tre parti di un recente, apprezzato saggio di Teresio Spalla. Detto e fatto…buona lettura

 

Saggistica breve   prima parte

 

IL SESTO CAVALIERE E’ LA CALUNNIA

Zero Mostel

 

MACCARTISMO E CACCIA ALLE STREGHE. STORIE DI UNA STORIA INFINITA

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Il film Trumbo. L’ultima parola, uscito in Italia ormai circa un anno fa senza grande successo nonostante la candidatura all’oscar e ad altri diciotto premi internazionali, avrebbe potuto suscitare un nuovo interesse riguardo agli anni del maccartismo e della caccia alle streghe nell’America degli anni tra il ’47 e il ’57.

Ovviamente ciò non è successo nel nostro Paese mentre, prima in Usa e poi in tutto il mondo, il film ha generato discussioni, anche accese, che procedono tutt’ora.

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Non è successo perché, in Italia, il settore del cinema in particolare e quello dello Spettacolo in generale, per quel poco che ancora esistono, sono schiacciati, ormai da anni, da un nuovo tipo di maccartismoche, pur con moduli diversi e in situazione storica e ambientale diversa, non può non ricordare quello americano.

E quindi si ritiene meglio che ciò non sia detto, non sia dichiarato, in nessuna forma.

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Non perché vi siano esclusioni di persone per ragioni meramente ideologiche; non perché vi siano istituzioni statali e gruppi privati (che spesso contano più di quelli pubblici) che si sono appropriate del diritto di giudicare le opinioni di ciascun facente parte dell’ambiente.

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Ma perché…..

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E ciò lo si è visto, per esempio, quando una scelta di personaggi “di prestigio” si sono schierati apertamente con il ministro Franceschini e i suoi selettivi provvedimenti legislativi in materia di finanziamenti al cinema e, contemporaneamente, un numero ben più cospicuo di cinematografari d’ogni tipo, pur essendo contrario, ha preferito tacere e accettare queste “nuove” regole.

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Ma ancor di più lo si è visto quando un numero ingente di persone di spettacolo “d’alto rango” , e di medio rango o nessun rango, si è schierata apertamente per il “si” al referendum del 4 dicembre, salvo poi, quando il NO ha prevalso, chiedere di essere subitaneamente estromessi dalle liste formate con le loro firme.

E lo si è visto quando, in questa occasione referendaria, un nucleo corposo di persone di spettacolo, che pur propendeva per il NO, ha preferito tacere anche dopo il risultato positivo del voto.

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Questo è stato il silenzio più gelido e intimidito.

Il silenzio atterrito di chi teme, manifestando le proprie convinzioni, di perdere un lavoro già precario non esprimendo solidarietà con le élite di privilegiati che lavorano sempre e comunque al cinema, in tv, in teatro, con qualunque governo o assetto parlamentare.

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Eppure mai come oggi gli interessi dei comuni lavoratori dello Spettacolo, non solo economicamente, sono contrastanti con quelli non soltanto dei divi (della recitazione, della regia ecc) ma di coloro, figure parassite e meschine, che della mafia divistica fanno parte.

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Esprimere le proprie idee è diventato sempre più pericoloso nella lotta di queste élite e queste mafie al potere e in lotta per il potere in quel che rimane della disastrata celluloide nostrana, del nostro palcoscenico, dentro il palinsesto spastico e deforme della tv pubblica e privata.

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Addentrarsi in altri esempi e illustrare casi particolari, in ambienti particolari o generici in un quadro generale e approfondito, è mia intenzione farlo, e raccontarlo con dovizia, quando sarà più chiaro dove andrà a finire quell’iter di decomposizione delle idee iniziato fin dalla fine degli anni Settanta ma che oggi ha superato ogni peggiore aspettativa.

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Ciò nondimeno parlo del film Trumbo ben sapendo che quest’opera non è stata assimilata, ne digerita. Non è stata ne discussa ne confutata, nemmeno da quella critica che ben potrebbe farlo sapendo bene di non contare più nulla o quasi, di non influenzare più nessuno o quasi, ma che al conformismo imperante s’accoda negando una tradizione che pur ebbe momenti di importante sollecitazione e sprone.

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Ne parlo perché, a mio parere, Trumbo è, dai tempi di Il prestanome(’76), a quarant’anni esatti di distanza, il miglior film sulla caccia alle streghe e la lista nera che sia stato realizzato da allora ad oggi.

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Il film è apparso tratto da un libro di successo negli Usa – L’ultima parola . La vera storia di Dalton Trumbo– Milano, Rizzoli, 2016, pp.409 – di Bruce Cook) e con risultati passabili nelle nostre librerie.

In realtà il volume di Cook non è una romanzo ma una ricostruzione dettagliato della vita di Trumbo, corredata di interviste e documentazioni, raccolte negli anni dall’autore, sia al protagonista che alla sua famiglia, i suoi colleghi solidali o a lui avversi in talune situazioni anche recenti.

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Ci troviamo quindi di fronte a un film di finzione che è ricavato – fatto più unico che raro – da una biografia saggististico-storica molto interessante anche perché non è un monumento letterario eretto a Dalton Trumbo e non si astiene affatto dal mostrane le discutibili caratteristiche comportamentali, i momenti bui, le opinioni sul maccartismo che hanno causato disaccordi tra le vittime della caccia alle streghe.

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Pur avendo dovuto necessariamente sintetizzare o assemblare personaggi, vicende particolari, fatti pubblici e privati, il pregio del lavoro dello sceneggiatore John MacNamara e del regista Jay Roach è di avere usato sapientemente ora l’ironia e ora il disagio drammatico nell’illustrazione della vita di Trumbo la quale appare, in questo film, un insegnamento, un grande monito sulla resistenza umana e artistica ai nemici del pensiero libero, progressista e libertario.

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Leggo da un trafiletto illustrativo di “La Stampa” : “ ‘Trumbo’ film sulla vita dello sceneggiatore comunista Dalton Trumbo….”

Si fa presto a dire che Dalton Trumbo fu un comunista.

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E’ vero che egli (nato nel 1905) fin dagli anni trenta s’era iscritto al partito comunista americano.

Nominalmente lo era e si considerava tale.

Ma, come molti intellettuali dell’epoca non si può dire che il suo attivismo andasse oltre una sincera partecipazione ai diritti dei lavoratori, l’impegno contro tutte le guerre e l’imperialismo americano.

Quindi la sua era una forma di socialismo radicale accentuata, a parole, quanto si vuole, da un uomo a cui l’eloquenza verbale piaceva quasi quanto lo scrivere.

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Ma con il concetto di dittatura del proletariato Dalton, che fu anche uno schietto nemico di ogni prevaricazione nel mondo del lavoro americano e in quello dello Spettacolo, non ebbe mai a che fare.

I suoi legami con il mondo comunista russo ed europeo furono praticamente inesistenti nonostante i suoi avversari affermassero il contrario.

Per quanto siano rimasti famosi i suoi comizi durante gli scioperi delle maestranze nell’Hollywood dei primi anni Trenta, la sua posizione fu, in tali situazioni, più quella di un fervente sindacalista laburista che di un acceso bolscevico.

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Nell’Unione Sovietica di Stalin uno come lui sarebbe presto scomparso nei ghiacci siberiani, se non fucilato sull’istante.

Nel Pci di Togliatti non sarebbe stato nemmeno preso in considerazione come militante, ma come sostenitore certamente sì per la sua notorietà, non per altro, come si fece con Visconti ed altri.

Il suo pensiero, più che comunista nella misura di un partito organizzato chiesasticamente, era marxista nel senso più umanitario e democratico del termine.

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Certamente, pur comprendendo di adeguarsi ad una moda passeggera dell’ambiente intellettuale, egli si mise molto in mostra cercando di trasformare questa voga in un movimento concreto, molto più vicino ai bisogni degli umili di quanto mai sia stato.

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Nato a Montrose, in Colorado, nel 1905, s’era trasferito a Grand Juncton, poco lontano dalla Mesa Grande, dove, già dal ’29 la sua famiglia fu colpita e poi distrutta dalla “grande depressione”.

Quando aveva sedici anni iniziò a collaborare come giornalista di cronaca al GrandJuctondailysentinel dedicandosi soprattutto agli annunci mortuari ma con già una forte inclinazione verso il dibattito sociale che si svolgeva in città.

Il padre riuscì a mantenerlo solo due anni all’università ma ciò non impedì di divenire il principale redattore del giornale del campus.

Dopo la morte prematura del genitore si dedicò ad ogni lavoro.

Ricordava soprattutto quello in una panetteria che, svolgendosi prevalentemente di notte, gli permetteva di trascorrere parte della giornata a leggere libri di ogni genere.

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Nella tradizione di tutti i maggiori sceneggiatori e scrittori statunitensi cominciò cronista a GrandJuction ma continuò come reporter sui giornali di Denver, la capitale dello stato.

E, nella tradizione di tutti i maggiori sceneggiatori statunitensi, cominciò a cercare di emergere quale scrittore di racconti e romanzi, come drammaturgo.

Di tutto il suo lavoro di allora (ottantasette racconti, sei romanzi, tre commedie) tutto fu bocciato dalle centinaia di case editrici e imprese teatrali a cui li mandò.

Molti di questi, quasi tutti, sono andati perduti.

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Dalton Trumbo


Si può dire comunque che egli continuò ufficialmente la sua carriera di scrittore solo quando arrivò ai seguitissimi Saturdayeveningpost, a Vanity Fair e all’ Hollywood specator dove, nel ’34, fu assunto come redattore.

Si trasferì allora ad Hollywood e divenne in breve editor dei copioni, considerati minori, della Warner Bros.

La sua vicenda professionale era iniziata.

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Dell’epoca in cui aveva cominciato a scrivere ci rimane soltanto il romanzo Eclipse (’35) – scritto a ventisei anni e pubblicato quando ne aveva una trentina – che solo nel 2005 ha avuto una ristampa accurata, rivista dalle figlie Niki e Mitzi con l’appoggio di enti locali.

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Eclipse, per quanto si sia detto ispirata alla scrittura del realismo socialista (giudizio assolutamente semplicistico e fallace) è un’opera autobiografica, basta sulle vicissitudini della sua famiglia durante la “depressione” e, pur non intendendo essere il “grande romanzo sulla depressione” (come sarà Furoredi John Steinbeck, nel ’39) si avvicina invece molto ai quadri nostalgici e ruvidi dell’ Antologia di Spoon River(‘15) di Edgar Lee Masters che – come la prima raccolta di racconti di William Saroyan (’34) e i romanzi rurali di Steinbeck (I pascoli del cielo e Al dio sconosciutodel ’32 e ’33) – Trumbo lesse, a puntate, sul Denver Post essendone assai influenzato.

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In Eclipse c’è forte e accurata la descrizione di un mondo campestre che si trasforma in un luogo di disperazione e dolore, ma c’è anche un’atmosfera lirica rispetto alla durissima accensione di sforzi che la sinistra americana compiva in quel periodo.

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In Eclipsec’è quel richiamo elegiaco che sarà una caratteristica di alcuni suoi copioni per il cinema come Eravamo tanto felici o Ilsole splende domaniSolo sotto le stelle.

E’ un romanzo sulla depressione ma anche sulla mancanza di un’infanzia perduta per sempre, di una giovinezza umiliata, di una famiglia dispersa nella scia che troveremo poi in Piccola cittàdi Thornton Wilder.

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Nel ‘36 cominciò come ghostwriterin modesti film gangsterici, gialli, piccoli drammi sentimentali, musical, avventure marinaresche.

Ma il suo nome è accreditato nei titoli abbastanza presto, dopo solo due anni, quando, nel ’38, firma Fuggitivi per una notte.

E già nel ’39 è in grado di influenzare la trama di un film.

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Si tratta di La tragedia del Silver Queendove si racconta di un naufragio aereo da cui emergono, nel ritratto dei sopravvissuti in un luogo selvaggio dell’Amazzonia, le raffigurazioni di alcune tipologie fondamentali dell’America del tempo.

C’è il ricco e l’arrivista, la prostituta disperata e la ricca ritrosa, il mafioso e l’impiegato di concetto, il poliziotto spietato e l’anarchico incolpato di aver ucciso un dittatore sudamericano.

Tra questi la migliore figura la fanno una coppia di anziani studiosi e l’anarchico stesso i quali si sacrificheranno perché il veicolo, aggiustato alla meno peggio, per alzarsi in volo potrà portare solo alcuni dei rimasti. Ed altri dovranno rimanere.

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Il regista John Farrow rimarrà tanto legato a questo suo ragguardevole successo degli anni Trenta che, nel ’56, ne farà un adattamento – Ritorno dall’eternità– per il pubblico dell’epoca di Eishenower, in cui però la trama e i personaggi rimangono gli stessi se non incrudeliti, segno che in America, da un certo punto di vista, era cambiato tutto e non era cambiato niente nei diciotto anni trascorsi, specie negli undici dopo la fine della guerra mondiale.

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E l’anarchico, che qui è un comunista (anche se non si dice ne una cosa ne l’altra), impersonato da un Rod Steiger diviso tra i propri conflitti interiori e la pietà per gli innocenti cascati in mezzo alla giungla, non è una figura negativa, come non lo era nel primo film il rustico Joseph Calleja, amico di Orson Welles e specializzato anch’egli in ruoli combattuti, rusticani, contorti.

Il sovversivo, sia in uno che nell’altro film, è un uomo orgoglioso delle proprie idee, convinto della sua azione individuale, ma anche capace di “espiare” il male di cui si è reso involontariamente colpevole secondo la mentalità cattolica di Farrow che, dopo il ritiro dalla carriera cinematografica, divenne uno studioso di testi sacri.

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Trumbo – che nel remake partecipa solo come consulente non accreditato dello sceneggiatore Joanathan Latimer – impara già, da La tragedia del Silver Queen, a rispettare la figura del regista, l’autore incontrastato e finale del film per quanto, a Hollywood, questo concetto sia stato quasi sempre teoria almeno sino a che resistette lo studio system con i suoi mogul ed i loro produttori associati che mantenevano quasi sempre il diritto sul montaggio finale e sull’epilogo definitivo delle storie.

E questa è una caratteristica che gli farà firmare un numero consistente di pellicole in cui la sua tanto temuta personalità comunista avrà ben poco da affiorare.

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Se c’è una ragione per cui Dalton Trumbo è stato molto noto in Italia, anche quando i nomi degli sceneggiatori conosciuti erano ben pochi, è stata la persecuzione da lui subita.

Ciò, talvolta, ha condotto a giudizi generosi su molti film da lui firmati.

Ma egli stesso avrebbe smentito questa indulgenza.

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Il suo primo altissimo risultato al botteghino è Kitty Foyle ragazza innamorata (Rko, 1940) con Ginger Rogers e diretto da Sam Wood, una personalità di estrema destra che lo sceneggiatore si ritroverà e sopporterà pazientemente anche quando andrà sul set a correggere i dialoghi.

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Kitty Foyle è tratto dall’omonimo romanzo di Christopher Morley, uscito l’anno prima in Usa riscuotendo un enorme successo che il film moltiplicò, e riproduce in parte il mondo di uno scrittore (una volta assai celebre anche in Italia) molto variabile e poco inquadrabile in un’epoca e in uno stile.

Ma il romanzo rappresenta, al passo con i tempi, un quadro angosciato e nel contempo orgoglioso, di una ragazza di umili origini che sogna il principe azzurro e lo trova in un giovane riccone per esserne poi cacciata dalla famiglia sebbene sia rimasta incinta di lui.

Incontra un modesto medico e vi si lega. Non lo ama quanto l’altro ma lo accetta come lui accetta il bambino che deve nascere.

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La storia di Kitty Foyle è molto semplice – depurata obbligatoriamente dai numerosi aspetti sessuali del romanzo dallo sceneggiatore Donald Odgen Stewart che aveva lavorato alla prima stesura poi cambiata non del tutto da Dalton – ma possiede un fascino tutto particolare.

Questo si deve, quasi totalmente, all’incantevole interpretazione che ne fece Ginger Rogers seguendo pari passo il copione che Dalton Trumbo gli aggiustava sul set, in ottima sintonia artistica, riuscendo a rendere i suoi dialoghi sempre più naturali, identificabili dalle giovani americane dell’epoca.

Dialoghi che, ancor oggi, superano con la sensibilità la censura, e si fanno strazianti, apparentemente divertiti ma amari nell’evidente naturalezza, soprattutto nei dialoghi tra Kitty e il padre che, non casualmente, ricorda quello del protagonista di Eclipse.

Prima che il genitore descritto da Christopher Morley, il signor Tom Foyle divenne una creatura molto familiare a Dalton Trumbo, interpretato dall’eccellente teatrante Ernest Crossart, anziano attore inglese trasferito in Usa fin dal 1908 dove divenne una colonna di Broadway.

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Ritornando a KittyFoyle, non fu un caso se fu candidato all’oscar come miglior film e Dalton come miglior sceneggiatore di testo non originale e Ginger Rogers lo vinse come miglior attrice protagonistamentre fioccarono, nel ’41, molti premi internazionali che promossero Dalton Trumbo come lo sceneggiatore più pagato di Hollywood.

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Poi, come è accaduto spesso per tanti film pregevoli, il successo del film, portò ad una sua edulcorazione indiretta.

Si creò una moda, che si chiamò Kitty Foyle’s style, tra le giovani americane, ispirata agli abiti indossati da Ginger Rogers (disegnati da Renié, prevalentemente sul bianco, un po’ anticonformisti, a sottolineare la personalità particolare della protagonista) e fece andare a ruba tailleur, gonne, scarpe e cappellini, di colei che, nella storia, era solo una commessa di un grande negozio di vestiario newyorkese.

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Il KittyFoyle’style divenne una simbologia gradualmente estranea alla protagonista del film.

E Kitty Foyle divenne, in mano ad altri autori, una delle prime soap opera radiofoniche dalla durata infinita dove, in pochi mesi, la signorina Foyle diventò una creatura benpensante, adeguata a una borghesia da cui era stata rifiutata nella vicenda originaria.

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Nel corso dello stesso ’40 Dalton firma un contratto con la Metro Goldwyn Mayer e si lega così alla più istituzionale e convenzionale casa di Hollywood il cui capo, Louis B.Mayer, che nascondeva le sue origini ebraiche come una vergogna, era l’unico, tra i tycoon del cinema, ad essersi impegnato di persona nella carriera politica.

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Mayer era stato presidente del partito repubblicano della California, ministro del commercio interno con il presidente Hoover (quello dell’incentivo al proibizionismo che aveva causato l’incremento della delinquenza e del potere dei gangster in tante metropoli) di cui era stato un diretto sostenitore anche nel secondo mandato.

Hebert Hoover fu Il presidente che aveva promesso benessere per tutti e invece condusse gli americani nel venerdì nero (29 ottobre) della depressionedel ’29, rifiutandosi sempre di richiedere leggi e sovvenzioni a favore dei lavoratori e dei disoccupati, della classe media rovinata.

Quando ormai era diventato l’uomo più impopolare dell’Unione, anche a causa della follia del proibizionismo, Hoover lasciò che le milizie territoriali massacrassero gli operai in sciopero e calmassero col manganello i milioni di contadini che erano rimasti senza terra, costretti dalle banche a lasciare i luoghi dove la loro famiglia era installata da un secolo.

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Mayer era però anche uno straordinario uomo d’affari, non privo di intuito artistico e seppe circondarsi di collaboratori di valore e sensibilità.

Durante il muto distrusse le carriere di autori anticonformisti dalla personalità gigantesca ma produsse film di notevole importanza.

In seguito, fu il produttore della serie di Lassie, dei film lacrimosi con la giovane Elizabeth Taylor e Mickey Rooney che spostò poi a sostenere Judy Garland, eterna fanciulla dallo spietato destino.

Dalla fine degli anni Trenta, fu il tycoon dei grandi musical a colori che, a tutt’oggi, sono il risultato artistico più alto che ha dato la Metro Goldwyn Mayer, coronandola dei più grandi successi, estetici e popolari, di Gene Kelly e tutti i suoi registi e coregisti.

A questo proposito basta citare  Un americano a ParigiCantando sotto la pioggia.

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Anche Gene Kelly, un sincero democratico di tendenze radicali, cadde, fin dal ’46, sotto l’osservazione della Fbi e dei primi comitati per “l’eliminazione del comunismo da Hollywood”, sospettato di essere un sovversivo e una spia.

Ma, in quella occasione, Mayer, come poi farà anche per altri attori e attrici sotto contratto, li difenderà come patrimonio della sua ditta.

Almeno in un primo tempo, pur non approvandoli, li mise al riparo dalle persecuzioni e si assicurò che potessero continuare a lavorare con lui e proseguire a far incassare miliardi alla Metro.

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Che cosa poteva nascere dall’incontro tra Dalton Trumbo, che ormai tutti conoscevano come comunista dopo che aveva sostenuto apertamente lo sciopero delle maestranze che aveva tenuto bloccata Hollywood per mesi e dichiarava la sua iscrizione al partito dei “bolscevici americani” ?

Un’intesa che durò poco poiché – dopo il pur clamoroso successo di Noi che eravamo giovani, Incontro a Bataan, Joe il pilota – lo scoppio della guerra consigliò Dalton a mettersi sul mercato firmando lavori di propaganda bellica e sul fronte interno tra i quali primeggia il citato Eravamo tanto felici (il cui titolo originale era Tender comrade, titolo tratto da una poesia di Robert Louis Stevenson ma che, nell’edizione ispanica suona poeticamente ancora meglio come Companero de mi vida) scritto per la Rko nel ’43 e precedente al suo migliore, umanissimo, film di guerra – Missione segreta– con cui ritorna temporaneamente alla Metro.

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Eravamo tanto feliciracconta di una donna – ancora Ginger Rogers – che, dopo la partenza per la guerra del suo tender comrade, si organizza, con altre ragazze, donne e vedove di ogni età – di cui cinque andranno ad abitare insieme – per fornire sostegno alle truppe raccogliendo cibo e altri generi di conforto (libri, riviste, dischi, cibo, cioccolato e sigarette), scrivendo lettere e mantenendo una ininterrotta corrispondenza con i soldati.

Tutto ciò avviene prevalentemente in casa della protagonista – Jo Jones – e, in questa, alcune vengono a sapere di essere anch’esse rimaste vedove; altre sussultano per i coniugi e i fidanzati in Europa, in Africa, nel Pacifico.

Alcuni dei loro uomini ritorneranno e altri no.

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Dei molti film realizzati sul fronte interno – tra cui non mancano opere di grande valore – Eravamo tanto feliciè il più convinto, tenero e affettuoso, elogio della donna che lavora e contribuisce senza tregua allo sforzo bellico.

Nella nostalgia e nella disperazione per la perdita del suo  comradela protagonista impersona un profondo stato emotivo che non poté non piacere e trovare solidarietà nel pubblico non solo femminile.

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Edward Dmytryk

Eravamo tanto felici è diretto da un altro compagno di lotte sociali e politiche, Edward Dmytryk, che, in quel momento, si stava affermando come uno dei registi più significati del momento.

Dmytryk, nel ’51, tradì i suoi compagni condannandone alcuni all’esilio ed altri alla galera.

Ginger Rogers, anche su incoraggiamento di sua madre – notissima agente – fu una delle prime star a schierarsi apertamente con le precauzioni più infami nei confronti di Dalton Trumbo e dei presunti “rossi di Hollywood”.

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L’ ultimo film che Dalton Trumbo riesce a firmare, a guerra finita, nel ’44, è  Il sole spunta domani.

Un film piuttosto tenero e ottimistico in cui un contadino di origine norvegese intesse un legame di affetto con la giovane figlia adolescente in una fattoria del Wisconsin.

Poi iniziò la persecuzione.

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Intanto, già dal ’39, ha pubblicato un romanzo –  E Johnny prese il fucile– che introduce un suo atteggiamento ostile verso la guerra (ma si tratta della prima guerra mondiale) raccontando di un soldato che, pur essendo rimasto cosciente, ha perso braccia, gambe, non riesce ad esprimersi se non, col tempo, attraverso una sua forma di alfabeto morse.

Ma, nella testa e nel cuore, è rimasto un uomo integro.

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Questo libro, che tanto contribuì a fare di Trumbo un colpevole a priori nella caccia al comunista, è un romanzo contro la guerra come evento insensato e crudele. Ed è’ perfettamente inseribile nella tradizione di All’ovest niente di nuovo o Orizzonti di gloria.

Eppure, per la vocazione “comunista” del suo autore fu visto come un libro contro il conflitto che si profilava contro il nazismo e quindi favorevole all’Unione Sovietica, allora impegnata nel patto Molotov-Ribbentrop che invece suscitò in Dalton molto da riflettere.

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Ciò nonostante E Johnny prese il fucile – non essendo affatto filofilostaliniano – ricevette il National book awardche era allora il più prestigioso premio di narrativa americano.

Ciò non gli portò alcuna convenienza nel partito comunista statunitense ma enormi vantaggi come letterato impegnato nella sceneggiatura cinematografica.

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Per chi non l’ha letto voglio consigliarlo poiché, come tutte le opere completamente accreditabili a Trumbo, siano esse letterarie o cinematografiche, è un testo atroce e feroce ma anche pieno di pietà, di affezione, bene, calore umano.

Lo ha recentemente ripubblicato Il Corriere della sera nella vasta collana Narrativa della grande guerra (pp.130 . €.8.00) che riprende la prima traduzione di Bompiani negli anni Sessanta.

Vi troverete dei brani, specialmente quelli in cui Johnny riesce a comunicare con l’infermiera che inizia a comprenderne i bisogni anche erotici, di una sconfinata bellezza narrativa, di una straordinaria sensibilità e accurata, squisita, partecipazione morale la cui intensità lo colloca tra i più notevoli esempi della narrativa americana del Novecento.

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Il successo di  E Johnny prese il fucile fu tale che Dalton stesso accettò di realizzarne un’edizione a puntate per la radio il cui lettore fu niente di meno di James Cagney.

Ma i “nemici del comunismo”, che cominciarono a sentirsi forti non appena morì Roosevelt (12 aprile 1945) e gli Usa erano ancora alleati all’Unione Sovietica, iniziarono ad utilizzare il libro per denunciare, a parole per ora, Dalton Trumbo come pacifista filosovietico, sostenitore di Stalin, nemico degli Stati Uniti anche dopo Pearl Harbour.

Ciò non rispondeva ad alcuna verità.

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Dalton, pur ritenendosi sempre un comunista, s’era schierato, con tanti altri uomini di cultura, a sostegno del presidente Roosevelt e del suo ministro Henry Wallace col quale collaborò, scrivendo sul suo giornale  The new republic, quando questi si staccò da Truman a causa del suo anticomunismo viscerale e della discussione sull’opportunità di lanciare la bomba atomica.

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Egli approvava di Roosevelt la politica radicale contro la povertà, stimava il coraggio personale dell’uomo, era in ottimi rapporti con la moglie Eleanor notoriamente impegnata socialmente ancor più del marito.

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Fu proprio grazie ad Eleanor che ebbe l’occasione, dato che al presidente, soggetto a paralisi incurabile, era molto piaciuto E Johnny prese il fucile, di incontrarlo ed esporgli le sue critiche circa il partito democratico del Sud che, profittando del suo incontrastato potere in parecchi stati, accettava e fomentava il segregazionismo degli uomini di colore, spesso violando leggi federali e verdetti della corte suprema.

Il colloquio sfociò in una conversazione importante di cui, purtroppo, ha riferito solo Eleanor (ma lo si può trovare in alcune delle sue biografie, tutte inedite in Italia) e non sono rimaste altre documentazioni scritte.

In essa Delano Roosevelt confessava come, data la forza dell’opposizione repubblicana e dei grandi potentati economici a sostenerla, aveva bisogno del voto dei democratici razzisti ad ogni votazione del Congresso.

E ne ebbe bisogno anche quando si stabilirono gli aiuti all’Inghilterra assediata, prima del bombardamento di Pearl Harbour e dell’entrata in guerra.

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Dalton, incapace di mentire e preso dalla sua naturale foga retorica, gli disse che, se dopo la guerra i democratici non avessero interrotto i rapporti con i loro rappresentati sudisti sarebbe facilmente venuto meno il sostegno che tutta l’America progressista, tutto il popolo (compresi gli afroamericani che vivevano sotto la linea Mason-Dixon) sarebbe finito e, con tutta probabilità, si sarebbe creato un terzo partito progressista-socialista che avrebbe raccolto il voto consapevole e folto dei neri.

Ciò non stupì il presidente che affermò di possedere un piano di riforma sociale che, non appena terminato il conflitto, avrebbe messo in atto e come, se il suo stesso partito si fosse schierato contro per motivi razziali, prima avrebbe tentato l’espulsione e poi la creazione di un’altra forza politica per quanto esistessero già i precedenti dei partiti socialisti di Robert La Folettte jr e del partito progressista dello zio di sua moglie, Theodore Roosevelt, e tutti erano stati sconfitti.

Ma Delano Roosevelt si portava dietro la vittoria sulla depressione, la piena occupazione conquistata fin dal ’40, la vittoria nella guerra mondiale, quindi le possibilità di farcela le aveva.

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Di tutto ciò, nel film, è rimasto – ma in modo forte, commovente ed esplicativo – l’esemplare dialogo tra l’ancor giovanissima figlia Niki, e Dalton, il padre, che le spiega le contraddizioni ed i vantaggi del vivere negli Stati Uniti nonostante tutto ciò che di tremendo sta accadendo intorno a loro.

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La stima per Roosevelt spinse Dalton a rinunciare ai proventi della sua attività di sceneggiatore e si fece spedire, come corrispondente di guerra, nelle Filippine prima e poi in Cambogia, dove scrisse per il New Worker ma anche per il Washington Post che non poteva lasciarsi sfuggire una firma come la sua.

Rischiò più volte la vita, ottenne in merito un riconoscimento del Congresso, ma non chiese un dollaro per gli articoli e le corrispondenze radiofoniche.

Perciò, due anni più tardi, fu, tra le tante infamie, accusato di aver ingannato il fisco.

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Purtroppo niente accadde di tutto il previsto dal dialogo Roosevelt-Trumbo.

Il presidente morì prima di terminare il mandato e le sue proposizioni radicali in tempo di pace rimasero lettera morta (vedi Almanacco n°044/045).

Wallace, suo erede e candidato del partito democratico per le elezioni successive, fu sostituito da Truman con una congiura di palazzo.

Anche la necessità di una pace internazionale che coinvolgesse l’Unione Sovietica e la Cina per permettere agli Stati Uniti di avanzare nel progetto rooseveltiano furono immediatamente distorti e traditi.

Il segregazionismo durò, in pratica, fino al 1965.

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E la “caccia al comunista” cominciò di nuovo per effetto di speciali commissioni congressuali.


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A sette anni dallo scoppio della bomba atomica sul Giappone (che Roosevelt non intendeva usare) cominciò, nel ’52, la guerra di Corea in cui si contarono due milioni e ottocentomila tra morti, irreparabilmente feriti, dispersi, tra gli americani; e circa un milione e mezzo tra coreani e cinesi, cifra non effettiva in quanto non comunicata ufficialmente.

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Detto questo è con la politica anticomunista di Truman e l’istituzione delle rinnovate istituzioni per la “salvaguardia delle attività americane” con cui comincia il film.

Troviamo già Dalton sceneggiatore più pagato di Hollywood anche se l’incontro con Louis Mayer, che gli propone un contratto favoloso se si ritirerà dalle polemiche, è di qualche anno prima.

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Ma l’opera cinematografica mescola e postdata un po’ i fatti autentici per rendere più chiaro il nocciolo della questione. E ci riesce benissimo.

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Per esempio, nel film di Jay Roach, quando Dalton si reca su un set, diretto da Sam Wood, c’è Edward G.Robinson che sta recitando un film chiaramente gangsteristico, e allorché l’attore, dopo un ciak sbagliato, dice “proprio oggi che lo sceneggiatore è con noi” il regista esclama alla troupe “E’ con noi ma non è dei nostri” costui cronologicamente non potrebbe essere Wood.

Siamo nel ’47 e Dalton non lavorava con Wood dal ’40.

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E Edward G.Robinson lavorò, nel ’47, su copione di Dalton Trumbo, al citato  Il sole spunta domani (diretto da Roy Rowland) che non è certo un film gangsteristico, dove non compare nessun personaggio chiamato Rocco come risulta nel dialogo.

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Nello stesso anno Wood dirigerà il quartultimo dei suoi film –  Sfinge del male–  un buon noir.

Era un disciplinato ma mai troppo banale yes mandello studio system – il quale, tra gli altri, diresse, su commissione, persino un film dichiaratamente antifascista come – Per chi suona la campana – che, pur con tutti i suoi limiti rispetto al capolavoro di Hemingway, anche attraverso le molteplici riedizioni dal dopoguerra agli anni Ottanta, contribuì a spronare tante generazioni alla passione per l’epopea della guerra di Spagna.

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Però tutto ciò, nella pellicola, serve a darci un’idea di come gli appartenenti non solo al partito comunista ma in genere difensori dei diritti civili e della pace rooseveltiana fossero, già allora, nel mirino dei comitati per la difesa dal comunismo dove si ipotizzava migliaia di spie sovietiche (da quel tempo comunista e spia dell’Unione Sovietica diventarono in pratica la stessa parola) nelle istituzioni statali e nel mondo del commercio.

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Il senatore del New Jersey che capeggiò questi comitati fino al ’49, J.Parnell Thomas, era probabilmente il ciarlatano ipocrita e farisaico che ci mostra il film ma nulla toglie ai crimini che commise.

Aveva allora già cinquantacinque anni (nel film sembra più giovane, anche se l’attore James Dumont è sessantenne) tutti spesi a difendere il capitalismo americano dalla politica roosveltiana e, proprio per questo, il congresso l’aveva nominato a capo dell’ Huac (House commitee on unamericanactivies) a cui Truman – litigando con Eleanor, Wallace e il generale Marshall – aveva lasciato dar vita non appena il suo predecessore era appena sceso nella tomba.

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Tra il ’45 e il ’46 l’Huac era stato preceduto dal senatore Edward J.Hart ma è nel ’47, quando comincia il film, che, con J.Parnell Thomas al comando, inizia la persecuzione, comincia la violazione del primo e del quinto emendamento della costituzione, e soprattutto debuttano alla grande i tribunali federali (la loro attività si terrà quasi esclusivamente a Washington) che usano, con i loro imputati, metodi che sembrano ispirati ai tribunali speciali fascisti e a quelli dei processi staliniani.

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E’ molto probabile che, all’epoca e anche dopo, Thomas sapesse pochissimo di come copiare questi metodi dittatoriali.

Ma il male che c’è negli esseri umani avvinghiò, a quel tempo, non solo la sua mente ma quella di moltissimi membri del mondo politico e giuridico americano, e lo condusse a perpetrare delitti da cui gli esponenti di quelle corti non furono mai imputati legalmente.

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A J.P.Thomas andò un po’ peggio poiché, scoperta una vasta rete di corruzione che a lui faceva capo, per cui era da tempo controllato dalla Fbi, fu arrestato dagli agenti del dipartimento fiscale nel ’48.

E’ vero che, in seguito, si trovò nella stesse prigioni e incontrò sia Trumbo che Lester Cole e Ring Lardner Jr., ma, già nel ’52, quando la caccia alle streghesi avviava al suo rigurgito finale e più buio, fu graziato dallo stesso Truman per il giorno di Natale.

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In realtà, come si comprende benissimo, non c’è alcuna guerra col comunismo interno poiché il comunismo interno non esiste.

Il partito comunista americano è un’iniziativa intellettuale sganciata dalle grandi masse sindacalizzate e tuttalpiù vicine ai democratici di Sinistra e al congresso socialista americano.

A fronte delle denunce giornalistiche e di quelle tribunalizie contro infiltrati nella struttura federale se ne trovò pochissimi e si dovette poi scagionarli.

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La guerra era contro la struttura dell’Unione messa in piedi da Delano Roosevelt sin dal suo primo mandato.

La guerra era contro il welfare (e in questo non furono pochi i democratici e i repubblicani che rifiutarono, almeno all’inizio, di seguire Truman e le deliberazioni del congresso) e i diritti acquisiti dai lavoratori.

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Non si intendeva scardinarli perché ciò avrebbe probabilmente causato veramente una specie di rivoluzione in America.

Ormai la classe operaia e quella media avevano imparato ad far tesoro dei diritti che erano stati legiferati e che Delano Roosevelt aveva fatto proteggere dall’esercito federale contro le milizie territoriali.

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C’era poi il problema dei reduci e delle loro famiglie.

Chi tornava dalla guerra mondiale voleva usufruire delle facilitazioni predisposte dai segretari di stato Hull e Stettinus e dal segretario del lavoro, l’inarrivabile e integerrima Frances Perkins, una eminente studiosa di sociologia e problemi del fordismo, che fu anche la prima donna ministro in un gabinetto presidenziale.

Egualmente le famiglie dei reduci, quelle che avevano avuto i loro figli tra i caduti o irreparabilmente storpiati; le mogli che avevano perso il marito o l’avevano ritrovato stanco, deluso, menomato, ed avevano lavorato anch’esse nelle fabbriche per aiutare il paese e garantire un buon sostentamento alle loro famiglie, non avrebbero mai rinunciato al piano per il rientro dei soldati che era stato studiato dalla Perkins e da altri ministri e loro collaboratori.

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E a ciò s’aggiungeva il problema razziale.

Moltissimi afroamericani e nativi pellerossa s’erano arruolati o avevano risposto alla chiamata alle armi obbligatoria.

Ormai, come affermò Eleanor in un suo celebre discorso del ’45, questa volta (erano già stati fregati dopo la prima guerra mondiale da cui non guadagnarono nulla nonostante il loro pesante sacrificio di uomini liberamente arruolati dietro promesse mai rispettate) erano pronti a impugnare ancora le armi per difendersi dalla segregazione razziale ma soprattutto da quella sociale che li aveva coinvolti negli stati del Sud, esigevano l’uguaglianza con i bianchi che avevano combattuto e rischiato quanto loro.

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Alcuni tra i membri più accaniti e più giovani dei comitati – da Richard Nixon ai fratelli John e Bob Kennedy (si, proprio loro, non ancora propensi alla “nuova frontiera” degli anni Sessanta) preferivano servirsi dei comitati per togliersi dai piedi i democratici e i repubblicani moderati che potevano facilmente far loro concorrenza alle elezioni da venire.

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Il loro obiettivo non era che parzialmente economico ma meramente politico.

Il loro scopo era disinfettare le menti degli americani dalle idee progressiste ed impadronirsi del grande potere nei media – radio, cinema, la nascente televisione – che condizionavano gli spettatori e vendevano loro prodotti di industrie che li finanziavano personalmente in pubblico e in privato.

Ma ancora non pensavano, come accadrà soltanto con la presidenza Reagan, ad uno smantellamento totalizzante dello stato sociale e ad una violenta sterzata a destra del partito repubblicano.  (segue)

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