Marco CAMERINI – Un figlio per l’altro: la saga degli indiani Ojibwe (“LaRose” di Louise Erdrich)

 

 

Scaffale

 

 

UN FIGLIO PER L’ALTRO: LA SAGA DEGLI INDIANI OJIBWE


 

Storie di formazione, tradizioni ataviche, passioni e rivalse nel romanzo della scrittrice statunitense ambientato in una riserva del North Dakota.


In un incipit fulminante (43 righe) viene descritto il dramma da cui prende le mosse l’ultimo romanzo di Louise Erdrich, LaRose (Feltrinelli, 2016), ambientato, come i due precedenti, fra gli indiani Ojibwe del Nord Dakota: un colpo di fucile abbatte (per errore?) il piccole, vitale, fantasioso Dusty Ravich, dai capelli biondo bruciato come il maestoso cervo cui la pallottola era destinata e due famiglie precipitano nella spirale asfissiante del rancore e del rimorso.

A Landreaux Iron – cattolico osservante, ex bevitore (era ubriaco quando ha sparato? Una tragica costante nel libro l’alcolismo), fisioterapista, sciamano ojibwe – e alla moglie Emmaline – esile, bella, torbidi occhi verdi da lupa, madre affettuosa e insegnante in una scuola-convitto – non resta che adempiere all’atavica tradizione (nessuno la metterà in discussione) e cedere il proprio figlio coetaneo LaRose ai genitori di Dusty, Peter – agrimensore ossessionato dall’apocalisse di fine millennio in cui si colloca la storia… banche in default, telefoni, aerei, satelliti spariti: opportuno far riserva di coperte, fucili, farina, rhum e fonti energetiche alternative – e Nola, la sorella(stra) “pallida” di Emmaline: bionda, elusiva, occhi neri e spietati, passionale e incapace di elaborare il lutto.

Il piccolo – curioso, altruista, buffo, affascinato dagli oggetti – personaggio straordinario insieme alla cugina/sorellastra Maggie Ravich (dura e inaccessibile, subdola e selvaggia, dagli occhi obliqui “di un oro che tirava al nero quando si arrabbiava” ma capace di amare, soprattutto il nuovo fratello: sarà un caso, ma si chiama come… provate a scoprirlo, il gatto è animale totemico per i Sioux e i Comanche) possiede un nome “innocente e poderoso”, magico talismano contro l’ignoto e le energie negative dell’Universo, giunto a lui attraverso quattro generazioni del ceppo femminile indiano di Emmaline (solo in parte di Nola, figlia di un’altra donna del comune padre Billy Peace) la cui declinazione/descrizione, all’interno del romanzo, ne costituisce l’anima più profonda e riuscita.

Così se la prima LaRose, comprata da un mercante a metà dell’800 e riscattata dal futuro marito, ha imparato a piazzare trappole ed intrecciare stuoie di canna, a pescare, sparare, interpretare la voce del vento e i versi degli uccelli, a stagionare il tabacco, conciare le pelli e scuoiare un caribù nelle foreste di rosse betulle, sviluppando la facoltà di “sognare, tornare da un sogno, cambiare il sogno o restare nel sogno per salvarsi la vita”, la figlia, in un lento processo di emancipazione/integrazione, frequenta scuole in Pennsylvania contrarie alle tesi di F. Baum (che sarà stato pure l’autore del Meraviglioso mago di Oz ma, sull’”Aberdeen Saturday Pioneer” del 1888, definì i Pellerossa “un branco di cani bastardi piagnucolosi che vanno annientati secondo la giustizia della civiltà bianca”) e cresce nella lezione – solo all’apparenza più tollerante, in realtà cinicamente paternalistica – che “la salvezza consiste nell’immergere gli Indiani nella civiltà occidentale e farveli aderire sino ad uccidere l’indiano che è in ciascuno”.

Impara, certo, ad indossare un corsetto, ad infilarsi guanti e a sfilarseli dito per dito (coevi i guanti delle splendide liriche di Anna Achmatova!), a lucidare “le vene grigie dei pavimenti di marmo” e a far brillare la boiserie, a scrivere in bella grafia e a conoscere le guerre combattute dai Greci sui libri del “Soldato blu” (dolorosamente terzi gli Americani, cui i Romani hanno – ma per un’inezia – soffiato la posizione d’onore nella storia dei popoli civilizzatori…), a mandare a memoria – politicamente corretto – la Dichiarazione d’Indipendenza, spalmare correttamente il burro sul pane e ”sopportare l’odore dei bianchi”.

Ma l’indiano “avevano cominciato ad ucciderlo in lei troppo tardi”: sua madre – morta di TBC dopo una cura sperimentale del Dott. Ames, che ne esibisce i resti come un fenomeno da baraccone prima che come reperto scientifico… viso pallido pure lui – le aveva insegnato “a mettere via il suo spirito e trasmetterlo” alla terza LaRose e, infine, alla madre di Emmaline, nonna del piccolo LaRose. Anche lei maestra, in un’opera dove la scuola, come luogo di trasmissione di cultura e tradizioni prima che di saperi, svolge un ruolo strategico.

Alle vicissitudini di queste discendenti si rivolge tutta l’appassionata attenzione della Erdrich per il lento, spesso doloroso ma sempre dignitoso, processo di sopravvivenza/integrazione degli Ojibwe “resti cenciosi di un popolo con una storia complessa. Cosa c’era in quella storia? Chi erano stati? Cos’erano oggi” a cavallo del 2000? Una domanda che, ciascuno a suo modo, si pone ogni personaggio anche se quasi nessuno possiede la risposta, più o meno consapevolmente sospeso fra vecchie leggende tribali e nuove, tragiche storie i cui demoni – Saddam e G.W.Bush, McCain e Rumsfeld – si aggirano non tra foreste secolari e cime azzurre di monti innevati ma sulle macerie di Torri crollate e sabbie di deserti in guerra.

Certo è che se il processo di assimilazione appare necessario e assume i tratti dell’unico maschio adulto positivo, l’illegittimo Hollis Iron che progetta un futuro “bianco” di impegno civile nella Guardia Nazionale del Nord Dakota, il devoto attaccamento alle proprie radici è strenuamente difeso con la rievocazione, mai sterilmente nostalgica né tanto meno convenzionale e “turistica”, di oggetti e riti (gli Ojibwe stanno alla Erdrich come l’India a Jumpha Lahiri): la “capanna sudatoria”, luogo di rivelazione/profezia degli spiriti sacri e “i canti delle quattro direzioni”, il powwow (raduno per tramandare la cultura locale con musica e balli) e le pipe intagliate, penne d’aquila propiziatorie e le infinite miscele/decotti di erbe medicamentose (sinfocarpo, gaultheria, artemisia, tabacco, ortica, genziana, bergamotto…) ma, soprattutto, le conturbanti evanescenze dei sogni rivelatori, mito emblema degli indiani d’America, in cui la realtà sfuma e si confonde: alcuni protagonisti, trasfigurati o più spesso deformati, vi si incontrano spesso e lo spirito del morto, come in una lapide di Spoon River, svela al vivo la verità.

“Epica battaglia fra la luce e il buio. Ombre che passano attraverso il materiale del tempo. Mettere e rimettere insieme. Forme di esseri ignoti assorbite da ciò che è noto. I mondi si fondono, le dimensioni crollano” e Dusty continua a giocare con LaRose. Nel suo precoce bildungsgang quest’ultimo apprende miracolosamente l’arte della sopravvivenza, della difesa, della simulazione; muovendosi agilmente fra mondo visibile e invisibile (cfr. pp. 258-9) e due nuclei familiari alla fine egualmente amati, placa la furia della vendetta erigendosi a nume tutelare di due donne inconsolabili che si fonderanno nella figura di un’unica, dolente madre e, in un epilogo ad effetto un po’ ruffiano, di due padri.

Intorno a LaRose e paralleli ai risvolti storico-sociali del libro si intrecciano sentimenti forti, storie di formazione, vicende di amicizie tradite, passioni represse e meschine rivalse personali interpretate da una ricca varietà di figure collaterali: da Romeo – sgradevole, inquietante personaggio/coro – a padre Travis – prete di strada anticonformista, sensibile più al fascino femminile che a S.Paolo e personaggio decisamente scontato – sino ai numerosi caratteri femminili (la citata Maggie Ravich e le figlie dei Landreaux, oltre le due madri), sicuramente meglio definiti di quelli maschili, portavoci vitali e positive del valore essenziale/salvifico della famiglia. E proprio la dimensione più strettamente romanzesca della trama denuncia ingenuità anche vistose (benedetto padre Travis…!? Ma Dio è clemente, assai meno le lettrici più romantiche) e lungaggini, soprattutto nella seconda metà, finendo con il far decisamente perdere a LaRose – cui Sandro Veronesi ha dedicato un esaustivo articolo sulla “Lettura” del 18 dicembre 2016 –  il confronto con Il figlio di Ph. Meyer (Einaudi 2014), splendida epopea “di segno opposto” più saldamente strutturata e convincente.

Per lo stile della scrittrice, efficace, incalzante e a tratti lirico, vale quanto scritto per la lingua ojibwe che, “rispetto all’inglese, ha una parola per ogni azione e più sfumature per i rapporti familiari”.

 

Louise Erdrich

LaRose

(traduzione di V. Mantovani)

Milano, Feltrinelli, 2016, pp.453, € 20,00


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