Francesco TOZZA- Declinazioni del desiderio (due spettacoli di Saverio La Ruina)

 

Il mestiere del critico



DECLINAZIONI DEL DESIDERIO

FRA LE PAROLE CHE UCCIDONO

Polvere di Saverio La Ruina (nella foto, in alto)   Con Saverio La Ruina e Cecilia Foti  Hypokritès Teatro Studio, Solofra (Av)– Masculu e fìammina di e con Saverio La Ruina Sala  Pasolini, Salerno

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Non si ascolta mai, per una volta sola, un brano musicale (non importa di che tipo di musica si tratti); si ritorna volentieri ai versi di una poesia, assai di meno, per non dire di nuovo mai, alle pagine di un romanzo; si rivede talvolta qualche film, ma è davvero difficile che si torni a teatro per lo stesso spettacolo, anche per quelli di più breve durata e di ridotte dimensioni, che sempre più spesso ormai caratterizzano il c. d. teatro di parola, offerto magari da un solo attore.

Ebbene, nel caso di Saverio La Ruina potrebbe capitare (forse dovrebbe….!); a noi, comunque, è capitato, non certo per motivi professionali (i critici ne hanno fin troppo delle ‘prime’ cui, magari svogliatamente, assistono; figuriamoci se si mettono a seguire anche le repliche!). E’ capitato, nel caso specifico, per le scritture drammaturgiche di questo straordinario autore-attore, sempre intense, profonde, a volte struggenti, altre volte con qualche guizzo d’ironia, a loro modo comunque perfettamente compiute, come partiture musicali, appunto. E, come queste, più godibili all’ascolto che alla lettura, anche quando a connotarle non sono più le sonorità, aspre e dolci al tempo stesso, di una lingua ormai perduta, ma le inflessioni, i toni di una voce suadente, apparentemente dimessa, propria ad un lessico familiare, tuttavia ugualmente inquietante.

Che è poi quanto avviene in  Polvere (rivisto, a due anni dalle prime recite del 2015, questa volta in uno spazio teatrale di una cittadina irpina, Solofra): qui il drammaturgo calabrese, abbandonati i sentieri del racconto popolare, la particolare delicatezza con cui incarnava personaggi femminili (Dissonorata e La Borto) di un meridione infelice e rassegnato, musicalissimo nella sua lingua, quasi scolpito nella sua irripetibile gestualità (perduta ormai anch’essa), volge il suo sguardo – si direbbe quasi da entomologo – su differenti dinamiche dell’agire umano, quella in particolare del rapporto di coppia più tradizionale (per questo non è più solo in scena, ma con un’attrice, l’altrettanto brava Cecilia Foti).

Si snoda così la relazione fra un lui e una lei, sin dai primi momenti, quando si innesca quella determinazione di esercitare il potere del maschio sulla femmina, che si realizza con sottili forme di controllo, con l’ossessione di conoscere ogni istante della vita dell’altra, sempre dietro ricatti affettivi e un’evidente fobia anche per le menzogne vitali. Le modalità con cui La Ruina dipana l’ingranaggio del rapporto hanno del sorprendente; interessante, soprattutto, l’operazione sul linguaggio, cui poco sopra si accennava: non più la magmaticità del lessico, propria ai due già citati lavori, ma un italiano corrente, monocorde, piatto, pieno di frasi fatte e luoghi comuni, sottilmente rilevati. Lo accompagna una recitazione a mezza voce, leggermente e progressivamente insinuante, comunque inquisitoria, che comunica un senso di oppressione alla vittima e, in certo qual modo, anche agli spettatori, che si rendono conto di quanto violenta possa essere l’aggressività psicologica e verbale, non meno di quella fisica.

Pochi giorni dopo – questa volta nella sala Pasolini di Salerno – abbiamo visto il nuovo lavoro dell’autore-attore, Masculu e fìammina (a quando, da queste parti, una auspicabile integrale dei suoi lavori? Una personale – magari al Teatro d’Ateneo – di questo che s’avvia ad essere “un classico contemporaneo”?). Ed é stato non solo interessante, ma direi anche utile, per apprezzare le notevoli capacità, drammaturgiche e attoriche, di La Ruina: grande nel descrivere – e interpretare scenicamente – il carattere subdolo del maschio, nel rapporto di forza che troppo spesso ancora lo contraddistingue, all’interno della coppia, con il partner dell’altro sesso; e ugualmente intenso nel rappresentare una personalità assai diversa dalla precedente, con un’identità più complessa: un uomo che non si sente donna e tuttavia ama stare con altri uomini (“nu masculu ch’i piacinu i masculi”). Problema difficile, scivoloso, più inquietante di quanto appaia di primo acchito o in una più banale sociologia della diversità, qui  comunque affrontato nei suoi risvolti esistenziali, magari non circoscrivibili soltanto in situazioni storico-geografiche determinate, chissà fino a che punto effettivamente superabili nella società dei matrimoni gay!

Torna il dialetto, con le sue asperità, ma anche infinite dolcezze, con quell’alone di mistero offerto da una parziale ma ancor più intrigante incomprensibilità, quasi un riparo ad una narrazione semplice e aperta, ad un pudore che non diventa mai aggressiva denuncia, al massimo disappunto per le parole che uccidono (“diversu”, “ricchiunu”, “omosessuale”), e comunque si snoda – non a caso – come dialogo con i morti (echi pirandelliani): nello specifico, un racconto catartico sulla tomba di una madre cui finalmente si ha il coraggio di comunicare la propria condizione, ma che forse ha sempre saputo, o magari intuito, tacendo per “rispetto”.

Quel rispetto che, a volte, è più presente nella dolorosa riservatezza del silenzio che nella ostentata solidarietà del falso riconoscimento.

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