Roberto BERTONI*- Nostalgia canaglia. La televisione celebra se stessa (ai tempi di “Studio Uno”)

Nostaligia canaglia*


 

C’ERA UNA VOLTA “STUDIO UNO”

La televisione celebra se stessa in una fiction di Riccardo Donna

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Era “Studio Uno”, erano gli anni Sessanta, era il talento di Mina, erano le intuizioni di Antonello Falqui e Guido Sacerdote, era il fascino e la conturbante bellezza delle gemelle Kessler, era la RAI di Ettore Bernabei, servizio pubblico allo stato puro, capace di contribuire con le proprie trasmissioni alla piena alfabetizzazione del Paese e, soprattutto, alla sua unificazione culturale, dopo quella politica, la riconquista della libertà e la stesura e l’approvazione della Costituzione.

Erano gli anni del boom economico, gli anni in cui i ragazzi correvano a bordo della Vespa o della Lambretta con i capelli al vento, gli anni di “Carosello”, gli anni delle prime vacanze al mare, della rinascita vera e propria, dell’accantonamento dei problemi e delle paure del passato, gli anni della gioia di vivere, dell’incremento dei salari, del maestro Manzi e della concreta speranza di assicurare un avvenire migliore alle future generazioni.

E quegli anni, quello spirito festoso, quella voglia di cambiamento, quell’allegria collettiva e sconfinata sono andati in onda su Raiuno grazie sulla bella fiction diretta da Riccardo Donna, intitolata “C’era una volta Studio Uno” e in grado di restituirci atmosfere, sogni e speranze dell’ultima Italia veramente serena, quando ancora sembrava che tutto fosse possibile e la prima serata della televisione si attrezzava per venire incontro ai nuovi gusti di un pubblico che non badava più all’essenziale ma voleva volare, guardare avanti, sentirsi finalmente libero, come le note di Mina, come lo slancio delle gemelle Kessler, come le coreografie di Don Lurio, come il fascino di una stagione irripetibile non solo per la sua magia ma anche per le aspettative, purtroppo poi in gran parte tradite, che seppe suscitare.

Una televisione garbata, elegante, ispirata ai musical americani e alla grande commedia all’italiana, capace di mescolare sapientemente generi diversi, di entrare nelle case degli italiani in punta di piedi e di indurli a credere in se stessi, assecondando ulteriormente il loro desiderio di affrancarsi dalla miseria e dalla sofferenza per lanciarsi verso un avvenire tanto ignoto quanto colmo, almeno nell’immaginario di milioni di persone, di prospettive e conquiste un tempo impensabili.

Un’Italia scanzonata, dunque, ben incarnata dai volti acqua e sapone di Giusy Buscemi, Diana Del Bufalo e Alessandra Mastronardi, entrate nelle nostre case con la stessa sofisticata levità con cui vi entravano all’epoca Mina o il Quartetto Cetra, consentendoci di rivivere quelle atmosfere anni Sessanta delle quali persino chi non le ha mai vissute avverte una certa nostalgia. Perché, come scriveva Enzo Biagi, quel Paese del piccolo schermo era davvero felice: felice di una felicità autentica, vitale, inarrivabile in questa stagione cupa e colma di tristezza, in cui abbiamo smarrito la passione per la vita stessa e la capacità di identificarci con una tv che ha perso, da par suo, ogni genuinità, ogni leggerezza, ogni capacità di lanciarsi in avanti, di sperimentare, di crescere insieme al suo pubblico, facendo sì che esso conquisti, al contempo, una piena cittadinanza.

Com’era bella quell’Italia imperfetta, semplice, inverosimile, persino solidale in grado di volersi bene e di. E quel varietà ne era lo specchio: l’emblema di un decennio che ne preparava (per incubazione)  di ben diversi. Ma l’analisi dovrebbe, a questo punto, ampliarsi ai ‘come e perchè’. (*Articolo21.org)

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