Ruben SABBADINI- “Marmellata di prugne” (racconto breve)

 

Io scrivo

 


MARMELLATA DI PRUGNE



°°°°

Marmellata di prugne, la mia preferita. La Nena me la faceva trovare in cucina, sulla tavola ogni volta che venivo quassù. Come facesse a sapere che sarei arrivato era un mistero: o all’indomani dalla mia partenza rimpiazzava il vasetto vecchio, che magari consumava lei, o i figli, o ci faceva una crostata per la colazione, con uno nuovo; o si era sintonizzata perfettamente con i ritmi della mia nostalgia. Era più poetico pensare alla seconda ipotesi, immaginarsi che il tempo dell’accudimento non fosse finito e potessi ancora contare su una vigile attenzione a partire dalle piccole cose.

Di certo sapeva di farmi piacere, che mi nutrivo di piaceri: odori, sapori dell’infanzia da un bel po’ tramontata. Erano ormai dieci anni che mia mamma non c’era più e lei si era sentita di sostituirla. Era stata a servizio da noi dall’età di sedici anni e quella casa e suoi abitanti erano la sua vita. Certo aveva avuto la sua, i suoi figli, ma l’attenzione per noi non si era mai spenta. Io ero andato lontano, prima per studiare, poi mi ero stabilito in città a vivere la mia vita. Ma tornavo spesso, meno di cento chilometri per finire arrampicato su quei tornanti che portavano al paese; per troppo tempo lontano non riuscivo a stare.

Perché poi non so. Quattro case decrepite, una chiesa vuota e umida e un parroco che lì s’era fatto vecchio e ora finiva i suoi giorni lì come i suoi più assidui fedeli. Ad ogni messa sembrava si stringessero a corte, a farsi forza l’un l’altro presagendo una fine non lontana. Ma quel rito, scaramantico più che religioso, sembrava funzionasse, perché anno dopo anno li potevi ritrovare tutti lì, o quasi tutti.

Cosa cercavo? Non saprei dire, qualcosa di impalpabile. La mia identità, direi. Appartenevo a quei luoghi e ai suoi riti, non potevo separarmene completamente. Se la vita ti portava, inevitabilmente, ad allontanarti (troppi i richiami), una vocina da dentro ti diceva «pensa a te» e l’ascoltavo sempre. Misuravo la distanza tra ciò che mi offriva la modernità e ciò che costituiva il mio vero io. Mi aggrappavo a Nena, financo a Don Luigi, mangiapreti com’ero, per non perdermi, per non assimilarmi.

Lì al paese leggevo, studiavo, mi godevo la vacanza della vita alienata, senza senso come mi era diventata. Parlare poco, cenni e gesti più che altro, ma ci si intendeva alla perfezione. I pasti consumati, alla locanda di Gino (poco più di un piatto in più al loro desco), con i giusti tempi: con gesti lenti e importanti ad ogni boccone. Ogni cosa aveva un senso lì, non che avesse necessariamente un senso per me, forse io neanche lo sapevo, aveva un senso per loro, per chi era rimasto a custodirne il fascino profondo della tradizione.

La mia casa, che con le unghie e coi denti, avevo salvato dall’abbandono, era in grado di ospitarmi anche in inverno: mura di pietra, una vecchia stufa a legna e un camino stemperavano il gelo di fuori. I libri della biblioteca di mio padre, ancora intatta, lenivano la solitudine e in poco raggiungevo uno stato di estasi che era molto vicino alla meditazione dei monaci buddisti.

Riempivo fitti fitti quei calepini di pelle nera che ricompravo identici a quelli della mia infanzia in una cartoleria in città e di cui avevo sufficiente scorta lassù. Scrivevo sempre con la stilografica del babbo che ricaricavo col vecchio inchiostro blu, della stessa marca che la mamma mi comprò per il primo giorno di scuola. Scrivevo pensieri, forse poesie, riflessioni sul mondo. Perché la mia vita era nel mondo, giù in città e lì c’era un senso per pensare alla vita. Per pensare alla vita serve di renderla vacante, di perderla per ritrovarla. Nella vita non puoi pensare alla vita. Devi estraniarti, straniarti, essere straniero per un po’.

Nena, Gino e gli altri così mi vedevano: straniero in patria, extracomunitario per la loro congrega antica. Ma tutti hanno bisogno dello straniero per delimitare il “noi”: loro e io.

Per me ogni viaggio fin lì era una preghiera, era pensare a me, rimettermi al centro quando al centro non ero mai. Al centro di me per me. E anche gli altri, inconsapevoli, ne avrebbero giovato da lunedì. E ancora non riescono a capacitarsi come faccia a non perdere mai la pazienza, ad avere un sorriso e una parola gentile per tutti, a spendermi fino allo spasimo per risolvere l’irrisolvibile. Ho il mio rifugio, scavato nella pietra, alla fine di quei tornanti, dove ci si intende a gesti e le parole sono superflue. La marmellata di prugne era un «ben arrivato, lo sapevo che tornavi, sei sempre tornato, non importa quanto sei stato lontano; oggi è un giorno di festa, sciachtate il vitello grasso, il figliol prodigo è tornato».

 

Il racconto di Ruben Sabbadini ha ispirato all’amico Charles MecCharles alcuni versi, che qui riportiamo:

Scuola
della vita primo dipinto.
Quell’allenar la mente, faticosamente
riconoscer date e nomi
e quand’anche pronomi
lette su pagine e dipinte
del sapere ch’è la fonte.
A tutti noi,
che siam com’allora,
un po’ sporchi,
bruttini
e certo cattivelli,
c’insegnarono
due verbi, chiavi della vita:
essere ed avere.
Tempi e modi,
allora, eran perfetti:
io sono tu hai.
Ma per taluni
scorrendo il tempo,
si son trasformati in
io appaio tu possiedi.
Ahimè, non abbiam compreso nulla!

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