Teresio SPALLA – Saggistica breve. Il sesto cavaliere, la calunnia/ Maccartismo e altro (seconda parte)

 

 

Saggistica breve   seconda parte

 

 

 

IL SESTO CAVALIERE E’ LA CALUNNIA

 

MACCARTISMO E CACCIA ALLE STREGHE. STORIE DI UNA STORIA INFINITA

Zero Mostel in Il Prestanome


C’erano poi in ballo i finanziamenti alla guerra che sui Pentagonpapers, documenti segreti scoperti soltanto nel ’71, dimostravano come l’industria bellica privata aveva stretto un legame inalienabile di corruzione e ricatto con tutte le amministrazioni, da Truman a Nixon, con l’appoggio dell’Fbi e poi della Cia, i cui unici presidenti che provarono a ribellarsi – per quanto possa sembrare strano Lyndon Johnson e poi Jimmy Carter – non a caso furono costretti a distruggere i propri propositi riformatori a causa di implicazione in conflitti.

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Il loro scopo, lo scopo dei giovani e rampanti esponenti dell’Huac, raggiunto pienamente nel ’53, anche con l’appoggio dei fabbricatori di armamenti, era sostituirsi alla classe dirigente roosveltiana e a quella minoranza repubblicana ancora fedele alla tradizione liberale del partito.

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Un inaspettato ma anche abilmente fomentato fatto, che allarmò e inquietò il mondo, era però destinato a dar manforte a J.P.Thomas e poi al suo successore, l’oscura e tragica figura di Joseph McCarthy.

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Già dal ’49 erano sotto osservazione dell’Fbi Ethel e Julius Rosenberg, ebrei di prima generazione, che lavoravano per un ente governativo che aveva addentellati con gli studi sull’energia atomica, i quali furono accusati di spionaggio per l’Unione Sovietica.

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Essi, sulla base delle loro simpatie giovanili per il comunismo e sulla ambigua testimonianza del fratello di lei, David Greenlass, non ebbero mai a che fare con accuse precise ma certamente con un linciaggio efficacissimo sull’opinione pubblica americana.

Nonostante che le loro colpe non sia mai state provate e che la pena di morte fosse sproporzionata alle accuse (i segreti che avrebbero rivelato erano segreti di Pulcinella per gli studiosi dell’atomo) anche se fossero state supercomprovate (cosa che non accadde mai) furono, dopo un lungo iter processuale, condannati alla sedia elettrica.

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Ben prima che la condanna fosse eseguita, nel ’53, il caso Rosenbergscatenò una vera e propria battaglia tra statunitensi innocentisti e colpevolisti.

Mentre i colpevolisti erano appoggiati dai comitati e da enti statali e federali, gli innocentisti si basavano sulla difesa dei diritti civili e sui vari comitati cresciuti credendo che l’America fosse ancora la stessa di pochi anni prima.

Per questi ultimi il punto basilare non era se essi fossero o non fossero colpevoli (anche perché ciò non fu mai accertato) ma che due persone avessero il diritto di lavorare e vivere negli Stati Uniti, anche alle dipendenze della nazione e in ruoli delicati, nonostante le loro idee politiche di sinistra.

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Contro la condanna dei Rosenberg, che pareva così assurda nel paese che aveva appena salvato la democrazia in Europa e liberato mezzo mondo da nazisti, fascisti e giapponesi bellicosi, si pronunciarono personaggi, a livello planetario, dichiaratamente di sinistra ma anche niente affatto di sinistra.

Tra gli altri chiesero una verifica dei fatti più chiara, o semplicemente clemenza, Jean Cocteau, Albert Einstein, Pablo Picasso, Bertrand Russell, Jean Paul Sarte, George Bernard Shaw, Harold Uney; De Gaulle e Churchill; i reali d’Inghilterra, Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia e Norvegia; coalizioni apposite di partiti, fuori e dentro il governo, anche in Italia; Gandhi e Albert Schweitzer; i dirigenti di Israele; innumerevoli uomini e donne di cultura e di scienza; eminenze di ogni religione, in tutto il mondo; persino Pio XII che certo non poteva dirsi un sostenitore del comunismo.

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Ma questa presa di posizione di premi nobel, re e regine, uomini politici dichiaratamente anticomunisti, finì con lo stuzzicare quel senso di inferiorità che gli americani peggiori e isolazionisti soffrivano nei confronti del mondo occidentale.

La posizione del papa, negli Usa, non fu presa nemmeno in considerazione, in nome della lotta al comunismo, dalla chiesa cattolica americana che aveva appoggiato le leghe anticomuniste fin dagli anni Trenta.

Churchill venne accusato di aver convinto Roosevelt alla guerra ben prima di Pearl Harbour (il che, in parte era vero, ma ancora secretato ai più) e De Gaulle di aver vinto la guerra solo col sostegno dei partigiani comunisti che erano ancora suoi nascosti alleati (il che non era assolutamente vero) e comunque prevalse l’idea che l’intellettualità planetaria volesse impicciarsi di una faccenda puramente americana.

Eishenower, da poco eletto presidente per i repubblicani, rifiutò la grazia.

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Si verificò così, per la prima volta a quel livello di notorietà, ciò che affermò il grande scrittore di fantascienza Isaac Asimov : “Ci fu, da allora, una specie di culto dell’ignoranza che forse c’era sempre stato ma che l’Huac aveva rinvigorito : l’anti-intellettualismo, insinuato, come una traccia costante, nella vita politica e culturale, alimentato dalla falsa convinzione che democrazia significhi che la mia ignoranza vale tanto quanto la tua conoscenza”.

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Per inciso, con l’apertura degli archivi segreti dell’Unione Sovietica, sembrarono essere usciti documenti accusatori almeno verso Julius Rosenberg, mentre la moglie sarebbe stata ignara dello spionaggio del marito.

Premesso che, dato che i due lavorarono insieme, gomito a gomito, per tutto il tempo del loro impiego, e comunque in un ruolo non così importante come fecero apparire le maggiori testate statunitensi, su queste rivelazioni sono poi scesi non pochi dubbi.

In fondo, stando a queste carte, si accusa Julius di essere stato in contatto con i sovietici quando era un comunista cioè prima di essere assunto dallo Stato federale.

Un po’ come se si volesse giustificare la condanna di Sacco e Vanzetti ammettendo che fossero effettivamente degli anarchici.

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Soffermarsi sul caso Rosenbergrichiederebbe un articolo a parte e quindi non proseguo su questa traccia.

Ma, in ogni modo, in epoca reaganiana, questo atteggiamento ambiguo (era sbagliato perseguitarli, era sbagliato ucciderli, ma in fondo erano delle spie) si riflette nel film Daniel(1983), pur diretto da Sidney Lumet, e ricavato da un romanzo di E.L.DoctorowThebook of Daniel che, nel ’71, raccontò il travagliato destino del figlio dei Rosenberg.

Non vedo Danielda allora, e non leggo da allora il libro (che uscì per Mondadori nell’80) ma ricordo che mi fece un’impressione cupa, triste e sconsolata.

E non lo rivedrò poiché quest’opera mi fece capire come anche il cinema americano più avanzato si fosse, pessimisticamente e linguisticamente, piegato al revisionismo culturale che pervadeva Hollywood e il mondo intero in quei tempi.

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Intanto, tornando a Dalton (che ovviamente si batté per i Rosenberg per quel che poté) nel ’47 è chiamato a testimoniare ed entra così nei Dieci di Hollywood, i dieci sceneggiatori e registi che rifiutarono di stabilire qualsiasi riconoscimento legale con l’Huach in nome dei propri principi costituzionali.

Gli altri nove furono : Herbert J.Biberman, Lester Cole, Edward Dmytryk, Ring Lardner Jr, John Howard Lawson, Albert Maltz, Samuel Ornitz, Adrian Scott e Alvah Bessie.

Alcuni di questi ebbero la carriera rovinata per sempre – Biberman – altri prima emigrarono e poi tradirono – Dmytryk – altri riuscirono a sopravvivere, anche con l’aiuto di Dalton, fino alla fine della lista nerasu cui non erano scritti solo i loro nomi ma quelli di circa seicento uomini e donne di cinema e cultura (per rimanere in quest’ambito) i quali, denunciati dai loro stessi colleghi, si videro congelati i propri soldi in banca oppure condannati al carcere .

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Tra i componenti della lista nera, centinaia e centinaia di nomi, non cito nessuno, tranne coloro che avranno a che fare con ciò racconto, perché, allora, di ognuno di essi si dovrebbe citare le premesse e il destino della loro vita tra chi se la cavò e chi no, chi tradì e chi pagò anche con la vita, chi s’arrangiò in un modo o nell’altro.

Molti di costoro, moltissimi, erano già allora molto popolari in Italia.

Ma oggi, tra i giovani, sono ben pochi a sapere chi fossero anche tra i più celebri.

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Il lunghissimo elenco dei sospettati e degli inquisiti, il ben poco rispetto per la loro autorevolezza, fa però capire a che punto si spinsero, fin dall’inizio, i comitati.

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Ancora prima dell’insediamento di McCarthy alcune figure importanti, non legate alla Sinistra americana ma inorriditi dalla violazione dei diritti costituzionali, si mossero contro le commissiono.

Ma, quando i cordoni si strinsero, l’opinione pubblica americana fece mancare loro il sostegno di cui godettero inizialmente, molti decisero di tacere.

Soltanto pochi, pochissimi, rischiando grosso, rimasero sulle stesse posizioni.

La maggioranza preferì non solo dichiararsi anticomunisti ma anche partecipare a film di chiaro intento maccartista per mettere ben in chiaro la loro estraneità ai “rossi di Hollywood”.

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Il film prende ad esempio soprattutto Edward G.Robinson il quale, in effetti, non era mai stato comunista né socialista, ma che aveva sostenuto le petizioni, in gran parte capitanate da Dalton Trumbo, per le cause più diverse.

Nella figura di Robinson il film raffigura tutti coloro che, pur combattendo duramente con la propria coscienza, furono costretti a denunciare amici e colleghi (magari, come nel suo caso, attingendo a liste di nomi già a conoscenza dei tribunali) e più tardi continuarono a battersi per i diritti civili.

Ma anch’essi, per molti anni, difesero pubblicamente lo “stile di vita americano”, parteciparono a film di propaganda, stettero ben attenti a non compromettersi.

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Sta di fatto che, nel ’50, Dalton Trumbo, per essersi rifiutato di rispondere adeguatamente alla commissione e fare nomi, trascorre undici mesi nel penitenziario di Asgland e, al suo ritorno, porta la famiglia in Messico da dove, entrando ed uscendo dagli Stati Uniti, prima scrive il copione di Vacanze romane(certo un film comunista !) facendo attribuire il merito allo sceneggiatore IanMcLellan Hunter che era stato sulla lista ma era riuscito miracolosamente ad uscirne.

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E’ comunque sempre dal ’50 che con  La sanguinaria– un thriller a sfondo psicologico e sociale divenuto oggi un cult ma anche un film produttivamente di serie b – che, sempre avvalendosi della copertura e della collaborazione di Hunter e Hugo Butler, entra nella King Brothers Production diffondendo, anche tra i suoi più vicini colleghi sulla lista nera, l’idea di continuare a fare cinema sotto pseudonimo per non lasciare campo libero a chi li ha denunciati e umiliati.

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Va qui detto che i fratelli King, stando alla memorialistica, non furono molto diversi da come il film ce li propone.

Uomini d’affari spregiudicati che s’erano dati al cinema di basso costo, come dice Frank King, “per i soldi e per la fica”.

Ma va anche precisato che non realizzarono solo invereconde bojate destinate alle terze visioni come essi stessi vanno reclamando anche a colpi di mazza da baseball all’inviato delle leghe anticomuniste.

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Alla loro produzione vanno accreditate una lodevole biografia del gangster John Dillinger –  Lo sterminatore – l’ottimo noir Notted’angoscia, e molti film di non poco conto sceneggiati in gran parte da Philip Yordan, uno sceneggiatore sfuggito ai comitati ma molto noto per i suoi copioni anticonformisti tra i quali va segnalato una metafora western del maccartismo – Johnny Guitar– prodotta dalla Republic nella totale ignoranza dell’approfondito senso del racconto; come fece, più liberamente per la produzione indipendente di BenedictBogeaus per la Rko, anche la compromessa Karen DeWolf con l’emblematico La campana ha suonato.

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Certamente i King non si rendevano nemmeno conto di certe strizzate d’occhio e di come l’osservazione dei comitati fosse assai meno acuta per i film dei cinema a doppio programma, le produzioni di scarso valore.

Del resto McCarthy non poteva sapere che molti di questi film, col passare del tempo, sarebbero diventati celebri ed influiranno sul cinema europeo e americano in qualche caso giustamente e in altri esageratamente.

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Sta di fatto che, con i King brothers, Dalton può realizzare un piccolo film –  La più grande corrida– che non è certo il miglior film che sia stato fatto sul mondo delle corride, però risultò vincitore di quattro oscar e un Golden globe, di cui una statuetta alla miglior sceneggiatura.

Lo sceneggiatore è un certo Robert Rich che nessuno sa chi sia, cioè Dalton Trumbo.

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E’ con questo film che Dalton può dimostrare a chi lo sa – e la voce serpeggia per Hollywood – che chi è sulla lista nera può egualmente superare le barriere giudiziarie e realizzare prodotti a vantaggio dell’industria del cinema.

Questo nel film non si dice poiché del soggiorno in Messico non si parla ma ci riferisce ad un semplice cambio di abitazione, ma “La più grande corrida” è anche il frutto dell’esperienza straniera di Dalton che – come succede a BuddBoetticher con L’amante deltorero – era rimasto affascinato e influenzato dal rito delle corride amerinde, così diverse e di autonomo folclore rispetto a quelle istituzionali di Spagna.

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Da quel momento, siamo nel ’56, le maglie si allargano e Dalton può scrivere, sebbene sempre sotto diversi pseudonimi, Sfida allacittà (’57) un forte dramma di denuncia della corruzione politica; I fratelli Ricoun classico del noir con annessi riferimenti al disagio morale della società americana; e Il terrore del Texas, un western metaforicocon Sterling Hayden, attore che s’era impegolato per un tranello ai suoi danni.

E, finalmente, nel ’59, una produzione di ancor maggiore costo e prestigio.

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Si tratta di Il prezzo del successo, film a me particolarmente caro, prodotto da un grande produttore – Hal Wallis – per una grande casa – la Paramount – e con un cast di primordine : Dean Martin, Shirley MacLaine, l’allora sulla cresta dell’onda Anthony Franciosa, e Carolyn Jones allora attrice assai stimata e in seguito la famosa Morticia Addams nella serie televisiva che ha finito con l’ingabbiarla in un solo ruolo nella memoria del pubblico.

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Tratto da un grande successo teatrale – firmato da James Lee – che aveva trionfato a Broadway con un cast diverso tranne Franciosa, è un ritratto triste ma avvincente, amaro ma trascinante, disilluso ma con un ferreo senso drammatico della speranza, di persone che amano il teatro fino a dare ad esso tutta la vita.

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Vi si tratta della tribolata amicizia tra il regista Maury (Martin) e l’attore Sam (Franciosa) i quali, innamorati del palcoscenico per cui farebbero qualsiasi cosa, tentano di fare carriera (il titolo originale è Career) ora sfruttando il legame con la stessa donna (MacLaine) e ora, appoggiati soltanto a Shirley (Jones), malinconica agente artistica tacitamente innamorata di Sam, arrivando ai peggiori compromessi mescolati ai moti d’orgoglio, alle speranze che alfine falliscono, alla stanchezza delle prospettive, alla desolata incapacità di arrendersi e lasciar perdere.

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E’ importante che, per la prima volta, in un film sceneggiato da Dalton, il maccartismo appaia chiaramente sebbene solo in un episodio della storia.

Infatti Maury e Sam, che salgono e scendono dai bassi scalini di Broadway non sempre contemporaneamente, vengono bloccati dalla lista nera.

Il primo quando riesce ad arrivare ad Hollywood e l’altro, che è anche stato richiamato in Corea e ha combattuto con valore ma senza crederci, al momento di ottenere un ruolo alla televisione.

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Lo può ben capire chi fa spettacolo : Il prezzo del successo è una lezione, amara quanto si vuole, sul dovere di continuare a lottare per mantenere, con coerenza, il proprio orgoglio professionale.

Per quanto non sia l’autore del testo teatrale il tocco del migliore Dalton Trumbo è qui presente in una uniformità creativa che raccoglie svariati elementi narrativi.

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Mentre nel testo di James Lee la figura del regista è vista come antitetica a quella dell’attore, nel film i due sono il medesimo personaggio che si scambia di ruolo secondo una lezione che lo sceneggiatore ha imparato da Cervantes e da Graham Greene in un apparentemente strano connubio di letteratura classica e moderna.

E, per mettere meglio in luce tutto ciò, il racconto si svolge attraverso un flash back, quando Sam, l’attore, giunto a quasi cinquant’anni, si guadagna da vivere alternando la ricerca di una parte all’impiego di cameriere in un ristorante di lusso.

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Qui incontra Barbara, la sua ex moglie, fidanzata fin da quando era partito dalla paese natio, che inizialmente l’aveva accompagnato a New York ma poi, non riuscendo a resistere alla vita sfortunata del marito, lo aveva lasciato e s’è risposata nel sodalizio tranquillo e provinciale che aveva sempre desiderato.

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E Barbara dice a Sam che, pur in un moto d’umiltà e albagìa, dopo aver esitato, si decide a chiedere l’ordinazione al suo tavolo :

“Ho sempre desiderato rivederti in questi anni…e chiederti scusa (…). Si, chiederti scusa per non averti capito.

Soltanto adesso vedo chiaro.

Sai, quando leggo un libro, o vedo un bel quadro, o vedo qualcosa al cinema o a teatro, che fa piangere o ridere, allora dico a me stessa : ecco dove Sam voleva arrivare.

Sam voleva dare alla gente il suo contributo, offrire qualcosa al prossimo.

E’ la sola cosa che vuoi, è la sola cosa che hai, è la tua personalità, Sam.

Sam : devi essere fiero di sapere quello che vuoi e di aver lottato per raggiungerlo.

(…) Ti conosco bene e so che non ti sei adagiato così, a fare solo il cameriere.

Capisco tutto ora. E mi sembra tutto così ovvio.

Capire, in fondo, è stato vedere in te ciò che è palese e che, allora, quando stavamo insieme, non sono stata capace di comprendere”.

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Dopo avere ascoltato la sua ex compagna Sam corre al teatrino off Broadway dove sa che troverà Maury (al quale aveva rifiutato la sua presenza poco prima di tornare al ristorante) e accetta la parte che questi gli ha offerta sempre nello stesso vecchio posto dove il loro sodalizio è cominciato, con la paga inesistente e il pranzo al furgoncino degli hot-dog.

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Ma, questa volta, lo spettacolo ha successo.

Nonostante Sam abbia ormai i capelli grigi, nonostante Maury sia ormai alcolizzato, e nonostante tra loro gli scontri e le ingiustizie reciproche siano state troppe per tornare amici, i due si rimettono insieme e realizzano il sogno della loro vita.

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Quando poi, tra gli applausi, circonfusa da un pubblico festante, la pièce si affermerà, mentre i giornali raccontano, a titoli di scatola, di un nuovo regista e un nuovo attore che stanno rimodernando il teatro contemporaneo, Sam e Shirley, presente Maury, parlano tra loro :

Sam : “Ma perché c’è voluta tanta fatica ?!

Shirley (cominciando a piangere) : “La tua è stata un’ottima interpretazione. Forse dovevi soffrire per raggiungere tanta realtà”.

Sam : “Shirley, Shirley, che ti succede ?”

Shirley (piangendo) : “Oh, è che tutto sembra essere così futile. In tutto questo non c’è nessuna ricompensa. Né vita, né famiglia, né casa. Solo esistere. E tanti sacrifici perché cosa : un nome su un manifesto……”

Sam asciuga le lacrime a Shirley con un fazzoletto mentre, intanto, suona la chiamata, e la voce dell’assistente lo richiede in scena.

Allora lei continua :

“Sam, dimmi una cosa, non ha più importanza ora che sei arrivato, ne valeva la pena ? Dimmi Sam : ne valeva la pena ?”.

Si alza il sipario e scoppia un frastornante applauso. Sam rimette il fazzoletto nel taschino, si da una sistemata ai capelli, e si avvia verso il palcoscenico rispondendo a Shirley mentre la luce della palcoscenico gli illumina il viso.

Sam : “Si. Si, ne valeva la pena”.

E Sam va in scena mentre il pubblico lo reclama.

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Mi pare, riguardo a Il prezzo del successo – che è anche l’ultimo film che Dalton firma con pseudonimo – vada notato come gli equivoci, le incomprensioni, i tradimenti, a cui Sam e Maury sottopongono la loro amicizia (prima del dialogo citato, offeso da Sam che non vuole definirlo “amico”, Maury ha un moto di avvilente dispiacere) siano lo specchio sintetico di come il maccartismo abbia fatto fallire tante affinità, abbia ucciso la fiducia gli uni negli altri di fraterni colleghi, abbia distribuito responsabilità anche nel novero delle sue vittime.

E il film lo rappresenta straordinariamente bene.

Edda Hopper

A quel punto, nel film, nonostante la persecuzione personale di Edda Hopper(la columnist più famosa d’America che ha fatto la guerra al comunismo dal primo momento) prima Kirk Douglas e poi Otto Preminger, un attore e un regista che gestivano una propria produzione indipendente, si rivolgono a Dalton e gli chiedono di sceneggiare due grandi produzioni – SpartacusExodus – che potrà firmare col proprio nome.

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Qui il film è molto preciso e rievoca i fatti con notevole pertinenza.

A questo punto non c’è più bisogno di sintetizzare.

Non c’è più bisogno di far apparire solo John Wayne e Hedda Hopper come i nemici più pesanti di Dalton; agglomerare in Edward G.Robinson il conflitto morale tra l’uomo di spettacolo e la politica; unificare il rapporto critico tra Dalton e gli altri “ribelli” nel suo rapporto d’amicizia con lo sfortunato e problematico HarlenHird, personaggio inventato che riflette Hugo Butler.

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Del resto Spartacus – pur essendo un colossal ambientato nell’antica Roma come ad Hollywood procedeva dal formidabile successo di Quo vadis nel ‘51 – grazie alla regia di un autentico autorecome Stanley Kubryck, si distacca nettamente dai prototipi hollywoodiani.

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Quo vadis, come  I dieci comandanti di De Mille sono colossal storici ma anche film sottilmente maccartisti.

In essi il contrasto tra cristiani e antichi romani é visto come il dilemma tra il “mondo libero” e quello schiavizzato dal comunismo.

Lo chiarì lo stesso De Mille in una delle sue ultime interviste.

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Ben Hur, del ’59, è invece più il racconto del rapporto tra ebrei e romani, abbondantemente conchiuso in un contrasti psicologici tra i personaggi principali, che, pur differenziandosi largamente dai suoi predecessori, non contiene ancora i valori di interpretazione moderna dell’antichità presenti in Spartacus.

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Spartacus, infatti, si propone come una lettura della lotta tra gli schiavi e l’impero quasi esclusivamente traslata dalla realtà contemporanea.

Qui, quando si parla di schiavi, non si può non ricordare che Howard Fast era stato l’autore di Mai dimenticare(sullo sterminio degli ebrei polacchi), I figli della libertà(sulla schiavitù dei neri in America), L’ultima frontiera(sulla persecuzione degli indiani Cheyenne da cui fu tratto, in parte, Il grande sentierodi John Ford nel ’64) e quindi aveva ben presente come la riduzione in schiavitù fosse un suggello delle grandi potenze.

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Lo Spartaco interpretato da Kirk Douglas non è un eroe individualista.

Spartaco è l’eroe della prima e più sconvolgente rivolta degli schiavi, un uomo che è un cuneo di libertà infilato, a nome di tutti gli uomini in catene, nel costato della struttura sociale latina.

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E, nel film, i romani – siano essi l’arguto Sempronio Gracco (Charles Laughton) sia l’assolutista Marco Licinio Crasso (Laurence Olivier) – non rappresentano mai, anche quando uno è più democratico dell’altro – un esempio di civiltà ma piuttosto di organizzazione superiore ed elitaria del potere sul popolo.

Infatti quando Crasso fa le avances omosessuali ad Antonino (Tony Curtis), in una scena tagliata da quasi tutte le prime versioni proiettate sugli schermi, non c’è alcuna complicità psicologica tra servo e padrone, ma il potere che si sente padrone anche dell’anima degli schiavi.

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Tale episodio è stato poi integrato nella versione restaurata dal British Film Institute e donata al museo d’arte moderna di New York nel complesso di tutte le parti censurate per un totale di 37 minuti che, inseriti anche nella magnifica versione in dvd, raggiungono il totale voluto da Kubrick di 184 minuti.

Si dovette, nell’edizione originale, far doppiare Olivier, morto nel frattempo, dal suo allievo prediletto Anthony Hopkins.

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Ma la censura non fu che una delle armi di cui l’America di destra si servì per danneggiare il successo di un film che incassò in tutto il mondo, alla prima uscita, cifre stratosferiche che si rigenerano ogni anno con i passaggi televisivi e le vendite in supporto digitale.

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L’uscita del film cagionò violente proteste da parte di istituzioni ed enti privati anti-comunisti, come la nationallegion of decency che fu la più attiva nell’organizzare picchetti ai cinematografi dove Spartacus era proiettato.

Edda Hopper scrisse che il film era da considerare antitetico alle aspirazioni nazionali e la presenza di Dalton Trumbo tra gli sceneggiatori (e il successivo oscar a lui attribuito insieme ad altri tre e a due nomination) incrudelì le organizzazioni di destra.

Alla questione mise una pietra sopra il presidente John Fitzgerald Kennedy, appena eletto, che si recò all’anteprima e attraversò il picchetto dichiarando ai reporter presenti il suo favore per il film.

La lista nera, la caccia alle streghe, il maccartismo, erano davvero finiti.

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Dalton, senza sperare troppo che questo fosse accettato come poi avvenne, infilò in Spartacus numerosi riferimenti alle liste nere.

Nei processi e negli interrogatori seguiti alla guerra contro la ribellione di Spartaco i giudici richiedono di “fare i nomi” come accadeva durante le sedute dei comitati.

E, quando Licinio Crasso decide di prendere il potere organizza delle “liste” che più maccartiste non potrebbero essere.

Cosicché, quando anche Gracco chiede a Crasso se il suo nome sarà inserito in tali liste e l’altro gli risponde di si, c’è un chiaro riferimento ai liberal che, per aver difeso la costituzione, si ritrovarono accumunati ai supposti comunisti nei processi farsa delle commissioni.

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Inoltre, in Spartacus, non va sottovalutato l’aspetto di denuncia della segregazione razziale ancora in atto, nel 1960, negli Stati Uniti, un punto fermo dell’ideologia di Dalton ma anche di Howard Fast.

Il personaggio di Draba (Woody Strode) rappresenta l’idea dell’uguaglianza delle etnie tenute in schiavitù.

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Simbolico è il momento (tagliato in quasi tutti gli stati del Sud) in cui sia lui che Spartaco, ridotti a gladiatori, devono affrontarsi nell’arena e il nero rifiuta di uccidere il compagno di sventura lanciando il tridente contro gli scranni dei potenti.

Tra schiavi si stabilisce quindi un’epopea di fratellanza che, durante tutta la rivolta, tieni serrati uomini di ogni razza in un’universale anelito di libertà.

E’ tragico pensare che, allora come oggi, vi siano americani che considerano Spartacus un film sovversivo proprio per questo.

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Nello stesso periodo in cui viene affidata a Dalton la sceneggiatura di Spartacus facciamo, nel film, la conoscenza con Otto Preminger, l’esule ebreo e austroungarico, presente nel cinema statunitense fin dagli anni Trenta, che, a 55 anni, era ormai divenuto uno dei registi più indipendenti di Hollywood producendo da solo i film che gli piacevano ma anche altri, di mero consumo, per rafforzare il suo potere contrattuale con le majors.

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A dir la verità Preminger, anche quando lavorò a lungo con la Fox, mantenne sempre una certa libertà dato anche il successo dei suoi film, la sua maestria nel genere noir come nella commedia, la sua capacità di coniugare la spettacolarità con problematiche che la censura riusciva a stento a tenere a bada.

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Già nel ’54, con Carmen Jonesaveva rinnovato il musical all negrodonandogli una spregiudicatezza che non avevano i film simili girati negli anni Trenta e Quaranta. Colpo che volle ripetere nel ’59 con Porgy and Bessche non ebbe lo stesso successo per molteplici ragioni.

Sta di fatto che Carmen Jones e Porgy and Bessrappresentano, per l’epoca, il punto più coraggioso di sviluppo di tematiche sociali attraverso il mondo afroamericano.

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Nel ’53, scatenando una battaglia all’interno dei suoi finanziatori, Otto Preminger aveva sfidato l’altro suo nemico naturale, il codice Hays con cui si regolamentavano e si censuravano i film statunitensi da più di trent’anni.

Lo fece dirigendo per lo schermo la commedia The moonis blue(in italiaLa vergine sotto il tetto) di Hugh Herbert, che raccontava, in un contesto satirico, di sesso adolescenziale, rapporti ambigui tra padre e figlia, questioni sessuali tra un altro uomo fatto e una ragazzina spregiudicata.

Tutto ciò lasciava aperta la porta ad un linguaggio piccante e smaliziato, inaudito per il puritanesimo dell’età di Eisenhower.

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La versione restaurata di La vergine sotto il tetto, proposta anche in Italia dalla tv satellitare nel 2005 dopo anni di sigilli alla versione ampiamente censurata all’uscita, oggi dice poco o niente.

Ed è persino difficile per un esperto di storia del cinema comprendere come un testo del genere – per la presenza, nei dialoghi, di parole come “vergine”, “incinta”, “rapporto sessuale”, abbia potuto scatenare proteste, picchetti, censure, ostacoli di ogni sorta.

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Eppure La vergine sotto il tetto non ottenne il bollo Mppa che le più importanti società hollywoodiane , autocensurandosi secondo il codice Hays, imponevano ai loro film che, senza il bollo, non potevano essere distribuiti se non nelle sale destinate alla programmazione pornografica.

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La United Artists decise però di farlo uscire nei cinema di sua proprietà pagando una cospicua multa di cui si rifece con gli incassi.

Ma il film fu immediatamente vietato dai governatori di Maryland, Ohio e Kansas, scartato nelle sale destinate ai film pornografici in più di cento contee; e fu indicata come “inadatta al sano pubblico familiare americano” dalla nationallegion of decency.

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Ciò nonostante La vergine sotto il tetto fu candidato a diversi oscar e la protagonista – Maggie MacNamara– ricevette la nomination come miglior attrice esordiente; il premio Bafta (l’oscar inglese) come miglior attrice.

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Forse ne il film ne Maggie MacNamara meritavano questi riconoscimenti ma tutto ciò fece in modo che, nel giro di un paio d’anni, i fatidici letti separati, obbligatori in qualsiasi camera da letto vista al cinema, diventarono dei normali letti matrimoniali.

Il linguaggio dei dialoghi divenne più esplicito e meno ricercato sugli schermi e sui palcoscenici, introducendo un realismo che non s’era mai sentito.

Anche il codice Hays s’avviava ad un’inesorabile tramonto.

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Otto Preminger

Otto Preminger, pur non essendo stato implicato nella caccia alle streghe, aspirava ad un cinema libero da ogni costrizione.

Europeo indelebile per vocazione e gusti, concepiva la figura del regista completamente sbloccata da ogni censura, per quanto poi fosse assai sensibile al bollettino degli incassi.

Ma fu soprattutto per il suo amore per la libertà che, recandosi a trovare Dalton Trumbo a proporgli di sceneggiare il romanzo Exodus di Leon Uris, egli gli dichiarò immediatamente come il suo vero nome sarebbe figurato nei titoli di testa.

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Ma non fu solo per questo.

Preminger sapeva benissimo che il paese era stanco del maccartismo e dei comunisti nascosti dietro ad ogni porta, pronti a spiare segreti scottanti in qualsiasi ufficio federale.

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La triste fine di McCarthy, avvenuta nel ’57 quando l’inquisitore aveva 58 anni, e la vergogna in cui era caduto insieme a tanti suoi collaboratori, lo aveva convinto che, se non si poteva forse più controvaccinare l’America dall’anticomunismo, era però possibile tentare somministrare altre medicine.

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Joseph McCarthy, il capo indiscutibile dell’Huace di tutte le organizzazioni pubbliche e private adibite alla caccia al comunista, era stato, già dal ’52 era sotto inchiesta dall’Fbi per verificare che le sue rivelazioni sulla presenza di sovversivi nelle strutture statali e federali fossero autentiche e, nel ’53, lo stesso Edgar Hoover, che lo ricattava essendo al corrente della sua passione per i ragazzini (coperta da un matrimonio che sembrò agli americani più importante dell’incoronazione della regina Elisabetta) e per la bottiglia (era alcolizzato cronico, forse a causa dei sensi di colpa che rivelava tra le mura domestiche illudendosi che non vi fossero radiospie, lui che le aveva fatte inserire a casa di chiunque) decise di rivelare tutta la documentazione al presidente Eishenower, il quale, come è emerso recentemente da alcune carte desecretate, non lo poteva soffrire anche se, in pubblico, non disse mai una parola su di lui finché fu in vita.

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Fu allora che il giornalista televisivo Edward R.Murrow, nel suo special Seeitnow , il 9 marzo 1954, in relazione ad alcune “rivelazioni” sull’infiltrazione comunista nell’aviazione che s’erano rivelate delle frottole inaudite ma avevano fatto cacciare dal lavoro più di trenta fidati funzionari civili e militari, pronunciò in tv la frase : “Lei non conosce la parola ‘vergogna’ senatore McCarthy?”.

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Murrow – che era uno degli anchormen più seguiti e rispettati degli Usa ed interpretava non il desiderio di ristabilire i diritti civili ma lo sfinimento degli statunitensi per il clima creato dal senatore nell’America degli anni Cinquanta, così apparentemente tranquilla e sicura – espose così il suo discorso nel corso della fatale trasmissione :

“Chiunque abbia familiarità con la storia di questo Paese può negare che i comitati del Congresso siano utili.

E’ necessario indagare prima di legiferare.

Ma la linea di demarcazione tra un’indagine una persecuzione è molto sottile e il senatore McCarthy del Wisconsin ha superato questa linea ripetutamente.

La sua affermazione personale è stata nel confondere l’opinione pubblica inducendola a scambiare le minacce esterne del comunismo per minacce interne.

A questo punto non dobbiamo mescolare il dissenso con la slealtà.

Dobbiamo ricordare sempre che l’accusa non è una prova e che una colpevolezza senza ragionevole dubbio dipende da prove e procedure previste dalla magistratura le cui funzioni sono separate da quelle della politica.

Non dobbiamo più muoverci nella paura, nella paura gli uni degli altri.

Non dobbiamo più vivere in un’epoca di irragionevolezza determinata dalla paura e, se scaviamo nella nostra storia e nel nostro ideale di vita, dobbiamo ricordare che non discendiamo da uomini i quali, come oggi accade a molti, temevano di scrivere, di parlare, di associarsi tra loro, di difendere cause che ritenevano impopolari.

Non è più il momento, per gli uomini che si oppongono ai metodi del senatore McCarthy, di tacere.

Non è più il momento di tacere nemmeno per coloro che li hanno approvati.

Non c’è modo, per un libero cittadino di una libera repubblica, di abdicare alle proprie responsabilità in momenti come questo.

Noi proclamiamo noi stessi, come in effetti siamo, difensori della libertà.

Noi difendiamo la libertà, ovunque essa continui ad esistere nel mondo.

Ma allora non siamo in grado di difendere la libertà all’estero se non siamo in grado di difendere la libertà nelle nostre case.

Le azioni del senatore del Wisconsin hanno causato allarme e sgomento tra i nostri stessi alleati all’estero e fatto un notevole favore ai nostri nemici.

E di chi è la colpa ?

Non proprio la sua.

Egli, il senatore McCarthy, non ha creato questa situazione di paura. Ha semplicemente sfruttato la paura che era in noi e noi abbiamo lasciato che ci dominasse.

Cassio aveva ragione: ‘La colpa, caro Bruto, non è da cercare nelle stelle, ma in noi stessi.’

Quando, senatore McCarthy, prenderà la propria colpa nell’avere acceso la paura e la colpa in ogni americano ?”.

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Le posizioni di Murrow – troppo moderate per piacere a Dalton Trumbo – furono riprese in alcuni giornali di non grande importanza federale ma molto influenti sull’opinione pubblica locale.

Iniziarono ad indirsi delle petizioni perché McCarthy fosse estromesso dalla carica e i comitati fossero sciolti.

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In queste prese di posizione non si chiede mai che sia abolita la lista nera e la caccia alle streghe ma, prendendo McCarthy come bersaglio, se ne chiede praticamente la fine poiché, a differenza di J.Parnell Thomas, aveva talmente identificato il suo potere con la lotta al comunismo, infiltrato nello stato federale e nei singoli governatorati, da essere identificato con esso.

E proprio questo potere, ritenuto pericoloso dai suoi stessi amici o ex amici, fu la causa, insieme alla sua straordinaria capacità di mentire e di non affermare mai di avere torto anche quando la legge gli imponeva di dichiararlo (era, in effetti, un oratore di primordine) che lo condusse alla rovina.

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Hoover, autorizzato da Eisenhower, fece girare le trascrizioni più compromettenti dei nastri registrati in casa sua e nel suo ufficio privato di Washington.

Immediatamente il senatore del Vermont Joseph E.Flanders, un repubblicano che probabilmente lo invidiava da tempo, iniziò una serie di discorsi parlamentari contro di lui.

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Il Congresso istituì il comitato Watkinsche, dopo circa un anno, iniziò una serie di censure molto pesanti sul suo operato finché, il 2 dicembre 1954, con 67 voti contro 22, Joseph Mc Carthy fu dichiaro “colpevole di menzogne e frodi”.

Joseph McCarthy era finito per sempre.

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Le cause della sua morte, nel ’57, quando ormai era divenuto una ridicola parodia di se stesso, furono addebitate a epatite causata dall’alcool ma, da carte dell’Fbi, rivelate da Hoover ad Esinehower ma mai rese pubbliche, risultò, come scrissero alcune pubblicazioni scandalistiche venutane in possesso, il senatore puritano fu trovato morto, forse sucida, dopo avere subito un rapporto sessuale anale in stato di ubriachezza.

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Eppure, ancora in quell’anno, un sondaggio Gallup gli attribuiva 75 punti di gradimento da parte del popolo americano.

Solo undici in meno rispetto a quelli del suo periodo di potere e strapotere.

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Del resto il personaggio si prestava alla satira personalistica.

Nei fumetti di Walt Kelly Pogo (una delle colonne del nostro Linus degli anni migliori) già nel ’50 venne introdotto il personaggio del senatore J.Malarkey, un gatto selvatico dalla spiccata somiglianza con lui.

McCarthy cercò di far cancellare Pogo dai giornali che lo pubblicavano.

Ma questa interferenza sulla stampa (riguardante anche quotidiani che lo sostenevano ma tenevano al fumetto perché era di grande successo) riuscì solo ad ottenere dei rimproveri bonari a Kelly il quale, da allora, disegnò Malarkey con un sacchetto in testa.

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Mentre la sua fama cresceva, e tante vite distruggeva in tv e alla radio, nel mondo della canzone McCarthy divenne, contraddittoriamente, protagonista di parodie anche piuttosto pesanti. (segue)

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