Il mestiere del critico
LE VERITA’ DI PINOCCHO
E menzogne (vitali) di Latella -“Pinocchio” da Carlo Collodi Drammaturgia: Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi Regia: Antonio Latella con Christian La Rosa, Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani.
Piccolo Teatro Strehler Milano, fino al 12 febbraio
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Il celebre romanzo di Collodi certamente non é più letto dalle ultime generazioni con l’intensità o comunque il favore che lo accolse negli anni della prima uscita (a puntate, su un settimanale romano, dal luglio 1881 al gennaio 1883); poi ci furono, richiestissime, le prime edizioni in volume di fine Ottocento, per non parlare della fortuna che lo ha accompagnato, anche se soprattutto a livello pedagogico, nella prima metà del Novecento o poco oltre. Solo da alcuni decenni Le avventure di Pinocchio sono diventate oggetto di una diversa e ben più corposa attenzione.
Riscritture, libri paralleli, messe inscena più o meno originali, versioni cinematografiche (per la verità iniziate già all’epoca del muto), hanno testimoniato l’avvento di una vera e propria riscoperta di quello che nel frattempo era divenuto un classico, riduttivamente e ingiustamente relegato nella c. d. letteratura per l’infanzia, rivelatosi invece un labirinto di intuizioni ai più alti livelli di conoscenza dell’umano, un deposito di simbologie magari non sempre consapevoli, infine un segreto congedo del narrare dalla sempre improbabile invenzione pura, verso i lidi del gioco combinatorio, borgesianamente più creativo.
Ma c’è dell’altro: fare i conti con Pinocchio ha significato – e significa – avvicinarsi, attraverso uno dei più complessi ed intriganti romanzi di formazione, a quel crescere faticoso, a quella lunga nascita che è la vita, con il suo slargato apprendimento, il duro tirocinio alla lettura dei segni, di cui si acquista, solo gradualmente e con dolore, la chiave interpretativa. Per molti operatori culturali può significare anche un primo bilancio di una vita d’artista, se non della vita tout court, apertura al “senso dei possibili” senza il quale la creazione non si alimenta.
E’ questo anche il caso di Antonio Latella che, nel suo Pinocchio (prodotto dal Piccolo di Milano, qui in scena fino al 12 febbraio), ha messo molte delle verità esistenziali, più o meno nascoste nel capolavoro di Collodi (dette magari attraverso le bugie del suo protagonista, e non solo), ma anche tanto della sua inquietudine teatrale, del suo modo di farlo (il teatro), del travaglio confuso ed estremamente affascinante che sempre l’accompagna, appena velato da quelle menzogne vitali che sono certe sue dichiarazioni di poetica, per dir così, soprattutto le più recenti, contenute in una emblematica intervista concessa a Emanuele Tirelli (da qualche mese pubblicata da Coracò editore).
Se è vero che – come qui si dichiara – “non esiste un modo unico di affrontare un autore” (fin troppo ovvio, verrebbe da dire), tuttavia la dichiarazione – più volte adombrata – di un assoluto… relativismo interpretativo a stento nasconde la vocazione a “scardinare”, letteralmente, i testi affrontati; che è però anche esigenza di “comprendere, recuperare, trovare il metodo adatto, quindi smontarsi e confrontarsi”, in una parola “studiare per ogni spettacolo”.
La “sensazione di non essere all’altezza”, di essere “inadeguato”, la “percezione positiva e necessaria dell’errore” porta a ritenere i propri spettacoli, non momenti separati, ma semplici tappe di un percorso unico: onesta e fascinosa pedagogia teatrale, applicata a se stesso, quasi ostentazione dell’imparar facendo, che non impedisce il mascherare le inevitabili insicurezze, ma anche l’ardita, quasi arrogante consapevolezza di offrire con le proprie regie “un ponte fra il Novecento e la ricerca contemporanea”.
In questa mistura di verità e menzogne, le seconde non meno vitali e inquietanti delle prime (anche sul piano artistico, che quelle esistenziali pure affaccia, ovviamente sublimandole), l’incontro con Pinocchio era inevitabile: a ciascuno, poi, il piacere, dolce e amaro al tempo stesso, di toccare la tastiera delle possibilità ermeneutiche, di far risuonare, fin nelle nostre viscere, le corde di quella disarmonica sinfonia cui dà luogo la giovane pianta che in noi alberga, nel mistero della genesi.
Latella, nella sua complessa, per più versi davvero “scardinante” lettura del testo, ben sottolinea l’archetipo vegetale che Pinocchio (piccolo pino) rappresenta, facendo apparire fin dall’inizio del suo spettacolo, e lasciandolo sospeso a mezz’aria nell’intero suo corso, un immenso tronco di legno, che poi, in miniatura, Pinocchio porterà sempre con sé: indice di una indistruttibile materialità (istinti, tendenza alla ripetizione rassicurante dei comportamenti, ma anche gusto anarchico di libertà), ab origine resistente al pur necessario, ma troppo spesso repressivo, processo di formazione.
Del quale il regista sottolinea molti degli inciampi, nonché le continue contraddizioni, in una dimensione spesso cupa, cui tuttavia non mancheranno, nello snodarsi della nota vicenda (che qui non è il caso di ripercorrere analiticamente nella traduzione scenica delle sue tappe), usi e costumi da Arancia meccanica o brevi incursioni nella febbre del sabato sera.
Prevale comunque, nello spettacolo, l’atmosfera sospesa di un universo buio, cui fa da contrasto il bianco acceso nell’abbigliamento di quasi tutti i personaggi (e il bianco, si sa, è anche il colore della morte); una porta di metallo rimanda rumorosi riverberi a chi la percuote, nel tentativo di varcarla per un improbabile fuori, mentre su una scena beckettianamente spoglia piovono dall’alto trucioli di quel legno generatore che a tratti si infittiscono, mirando a formare polverosi cumuli di frammenti di un motore di creazione che resta imperscrutabile, anche se incombente.
La scena, all’inizio almeno, ci ha ricordato un’altra Genesi, quella evocata in un suo bellissimo spettacolo (visto anni fa all’Argentina di Roma) da Romeo Castellucci; ma quei silenzi, quella magica atmosfera che allora sembravano non dover mai aver termine, sono stati – nel Pinocchio di Latella – come trafitti dalla parola del burattino (d’altra parte in principio era il verbo!). E la parola, si sa, esprime esigenza di comunicazione; nel caso specifico, prima ancora, è richiesta di reale esistenza.
La questione della lingua, che in sede letteraria ha ben altri riscontri, anche sul piano storico e politico, nella messa inscena di Latella è sostanzialmente un fare i conti con il proprio modo di stare al mondo, vincendo proprie timidezze ma anche quelle pressioni esterne dei burattinai di ogni tempo, che vogliono Pinocchio eterno burattino, appunto.
Di qui l’uso ipertrofico che della parola il regista fa fare al suo personaggio: un Pinocchio che con la parola gioca, cita (da Dante a Shakespeare), irride (“come si fa a smettere di desiderare?”) e protesta, fino a quell’exploit, nel secondo tempo, che sembra un elogio delle “parolacce”, ed è tuttavia un turpiloquio liberatorio, infine soprattutto un grido di dolore verso una genitorialità a dir poco distratta, in particolare una paternità irrisolta che forse non è più, o soltanto, nella consapevolezza di una generazione sventurata, ma ha ascendenze più lontane, addirittura metafisiche, e per questo più inquietanti (“pa’, io non sono un burattino, guardami pa’, sono tuo figlio, il tuo fottuto figlio, di carne e di ossa…. Dimmi, perché mi hai abbandonato”).
Vanno, a questo punto, sottolineate la bellezza e l’intensità di una scrittura drammaturgica (qui firmata dallo stesso Latella con Federico Bellini e Linda Dalisi), forse un po’ prolissa ma ricca, come si è appena visto, di spunti originali, anche ad alta tensione emotiva; ben sostenuta dalla recitazione di tutti gli attori (alcuni in più ruoli), particolarmente quella dell’ottimo Christian La Rosa: un Pinocchio ipercinetico, in pantaloncini corti ma da sempre e, da tutti i punti di vista, adulto (il Pinocchio bambino, che appare in copertina nel programma di sala, è l’ennesima bugia…di Latella, una provocazione probabilmente alle aspettative dei più tradizionali lettori di questa che è per più versi una favola nera).
La platea, applaudendo calorosamente, ha capito, affollata com’era (caso più unico che raro di questi tempi) da un buon 90% di giovani, non di bambini ovviamente: lo spettacolo – con evidente ironia – era sconsigliato ai minori di 14 anni.