Cinzia BALDAZZI – Errore o colpa? La tragedia di Edipo (Sofocle secondo Mauri-Sturno al Teatro Eliseo, Roma)

 

Il mestiere del critico


ERRORE O COLPA? LA TRAGEDIA DI EDIPO.


Edipo Re ed Edipo a Colono di Sofocle nella doppia edizione di Glauco Mauri e Roberto Sturno – Al Teatro Eliseo, Roma



Non si torna mai all’innocenza.

Non solo se si è scoperto di essere colpevoli,

ma anche se si è scoperto di essere innocenti.

Emilio Garroni

 

«Che giova di terrori in preda vivere / all’uomo che oggetto di scherno è sol del caso / e nulla mai di prevedere gli è dato? / Meglio, ben meglio alla ventura vivere / senza darsi pensiero». Sono le parole di Giocasta, la moglie-madre dell’Edipo sofocleo, sulle quali ogni tanto ragiono – dinanzi a circostanze della cronaca, della storia presente – per la loro crudezza di disperazione, comunicata grazie a modalità poetiche in assoluto commoventi.

Avendo trascurato le platee teatrali in occasione delle feste natalizie e per l’essere stata colpita da quella specie di “epidemia” influenzale ancora in giro, salendo però le scalinate dell’Eliseo di Roma con in cartellone gli illustri Edipo Re ed Edipo a Colono, non so perché riflettevo in cuor mio, più che altro con egoistico sollievo, a quando, in vari angoli del mondo, si combattevano ben diverse epidemie, ad esempio la peste. Non era l’episodio manzoniano dei I promessi sposi a cui facevo riferimento. Già immersa come ero nell’atmosfera sofoclea, meditavo piuttosto su quel morbo nefasto, diffuso tra i tebani per volontà degli dèi contrariati, e a Edipo, oppresso dalle suppliche del popolo di sconfiggere la devastante pestilenza: aveva infatti inviato il cognato Creonte a interrogare l’oracolo di Delfi sul motivo del maleficio. Impegnata a raggiungere il posto assegnato, sentivo rinascere il fascino esclusivo della splendida trilogia (compresa anche l’amata Antigone), emerso sui libri e quindi sperimentato in molteplici edizioni.

Sono sempre stata persuasa, seguendo il suggerimento di Aristotele nella Poetica, fosse opportuno considerare elemento ottimale delle tragedie la funzione espressa da un individuo privo di qualità fuori dall’ordinario («per virtù o per giustizia»), indotto dal fato a passare dallo status di felicità a uno di infelicità: non a causa di malvagità, ma in connessione alla vasta area semantica connessa all’errore, non alla colpa. Congiunture tali da apparire, in misura inquietante, dotate di drammaticità attualissima: tuttavia, nel flusso leggendario ed epico delle trame-intreccio nei capolavori classici analizzati da Aristotele, ciò avviene utilizzando una tecnica narrativa identificata in mirabili peripezie o in meccanismi di riconoscimento strabilianti, oppure, in armonia perfetta, di entrambi. Nella dinamica del terrorismo odierno, nei camuffamenti, nell’anonimato, nelle false identità, nei legami familiari manipolati, non si potrebbe certo sostenere altrettanto.

Il pubblico è numeroso: nell’ampio locale bar-ristorante scorgo conversare l’ex-plenipotenziario Gianni Letta, il direttore artistico Luca Barbareschi e una bella signora con una pelliccia stupenda e caldissima. Quasi riscaldata da essa, in un inspiegabile timore di dovermi difendere dal freddo, alla fine mi accomodo in poltrona, pronta ad apprezzare i due distinti allestimenti delle opere citate: la prima, curata nella regia da Andrea Baracco, con Glauco Mauri nelle vesti dell’indovino Tiresia, mentre il ruolo del sovrano di Tebe è di Roberto Sturno; la seconda, con Glauco Mauri invece regista e protagonista.


In una sorta di sequenzialità alla Guerre stellari ante-litteram, si illustrano avvenimenti anteriori all’Antigone,  benché scritti parecchi anni dopo: circa quindici tra Antigone ed Edipo Re, oltre venti per Edipo a Colono, in uno schema di scrittura 3-1-2 rispetto alla cronologia lineare degli eventi (la saga di George Lucas, quanto meno debitrice, è articolata in 2-1-3). L’esilio e la scomparsa a Colono dell’eroico vincitore della Sfinge furono appunto elaborati in dramma dall’autore novantaquattrenne – sarebbe morto di lì a pochi mesi – e ambientati nei pressi di Atene a suggello della “dolce infanzia” trascorsa nel vicino demo agreste. L’insigne grecista Dario Del Corno (sua è la traduzione) ne intravede il segnale di una chiamata della voce soprannaturale rivolta anche a Sofocle: «nell’addio sereno del suo personaggio, ormai redento dal male, egli prende commiato dalla realtà della vita».

È buio in sala e un ulteriore episodio concreto – ancora non ne intuisco il motivo – del diffondersi del tremendo morbo occupa la rete associativa della mia fantasia: quello accaduto a Firenze al tempo di Cosimo de’ Medici e di Galileo Galilei, dove il grande scienziato, poi costretto all’abiura dall’Inquisizione, nonostante la pestilenza rifiuta di abbandonare la casa per non lasciare gli strumenti necessari agli studi. Ne ho condiviso la vicenda, circa quattro decenni orsono, avendo avuto la fortuna di assistere alla versione epica de La vita di Galileo di Bertolt Brecht.

Sul palcoscenico il fondale è scuro, su muri scrostati sono proiettate ombre alterne: della micidiale malattia intravediamo gli esiti desolanti, lo sterminio. Ad evocarne il lutto e il tormento è una zona nuda, acquitrinosa, con una pozza nel mezzo: accanto è collocata una carrozzina d’antan, simbolo dei bambini deceduti da neonati, ma ospita bambolotti old style. Ne provo pena ricordando quanto da piccola, credendoli dotati di un qualche genere di anima, vestissi i miei con sollecitudine in modo non soffrissero un “freddo umano”, il solo conosciuto e temuto. L’atmosfera è grigia, cupa e piovosa, rigida, post-tarkovskijana, e i “nostri” tebani – in abiti però moderni – si coprono, chissà, da un freddo analogo con giacconi di pelle, impermeabili, mantelle. Edipo (Roberto Sturno) percorre a larghi passi, agitandosi, lo spazio vuoto tra l’uno e l’altro degli interlocutori: «Qualcuno avrebbe dovuto indagare…», ripete.


Rimasta salda nel secolo in corso, testimoniato dai costumi scelti, non sono disorientata con il calare dall’alto, agganciato a un lungo filo, di un bel microfono. Edipo parla ai sudditi: vuole rintracciare l’assassino di Laio, ossia il re precedente di cui aveva sposato la vedova Giocasta, appena accolto con gioia dalla città da lui liberata da un malefico sortilegio risolvendone il fatale quesito. Intendiamo l’enigma della Sfinge, il primo noto in prospettiva storica, leitmotiv della trilogia dedicata alla saga dei Labdacidi: il suo superamento è centrale, a lato di un eroe, nell’intera trama-intreccio, impegnato a scoprire la propria identità non arretrando nemmeno di fronte al rischio, risalendo alle origini, di dover sostenere il peso di sorprese inaudite. L’insieme logico-intuitivo corrisponde alla coraggiosa affermazione della nostra intelligenza, protesa a ottenere il vero a dispetto di tabù ancestrali inibitori. Numerosi personaggi, infatti, provano a dissuaderlo dall’investigare (Tiresia, Giocasta, il servo di Laio), poiché sanno o hanno intercettato la verità ignorata.

Insomma, il giallo si addice a Edipo. Ricordo l’iniziativa, nell’autunno del ’94, dell’editore Gallimard di pubblicare una versione romanzata dell’Edipo Re nella più prestigiosa collana francese di romanzi polizieschi, la Série Noire. Edipo con il trench coat di Philip Marlowe? Sofocle negli scaffali accanto a Chandler, Simenon e Hammett? «Gli appassionati del romanzo poliziesco si sono sempre rifatti alla poesia o alla tragedia classica», spiegava il curatore Didier Lamaison: «In fondo, tutta la storia dello sfortunato re di Tebe si svolge dalla nascita alla morte come un’inchiesta in cui prende corpo un combattimento continuo tra il visibile e l’invisibile».

Edipo procede comunque nella ricerca, evidenziando una caratteristica giudicata anche in chiave negativa, cioè coincidente con la celebre e pericolosa hýbris: la tracotanza di chi non sopporta censure e, nell’esplorare troppo nel profondo dell’intima natura umana, è punito tramite lo svelamento di un evento terrificante in misura da risultare inaccettabile. Inoltre, ed è senz’altro significativo, in seguito all’atroce scoperta Edipo sceglierà di togliersi con ferocia la vista, a repulsione di ciò che vede, o forse a formalizzare un simbolo di contrappasso per aver voluto scrutare il non consentito. Il messaggio sinceramente anticipatore del grave gesto invalidante si riscontra nel dialogo con Tiresia (Glauco Mauri), avendo il re rinfacciato all’indovino lo sguardo spento: tuttavia, laddove costui con l’aiuto della cecità riesce a superare l’apparenza, Edipo per mezzo degli occhi non discerne al di là di un reale illusorio e falso.

Nella mitologia ellenica e proto-ellenica, all’ingresso della polis, il rebus era posto dalla Sfinge ai passanti, strangolati – o secondo fonti diverse (Eschilo) divorati – se non fossero stati in grado di decifrarlo. Accovacciata sul monte Ficio, presso Tebe, la spaventosa creatura nata da Tifone ed Echidna aveva testa di donna, corpo di leone, coda di serpente e ali di rapace. Essa era stata incaricata da Era di vendicare il rapimento del fanciullo Crisippo da parte di Laio, còlto per lui da violenta passione. Ai malcapitati esponeva un enigma acquisito dalle Muse: «Quale essere cammina ora a quattro gambe, ora a due, ora a tre e, contrariamente alla legge generale, più gambe ha più mostra la propria debolezza? », ossia «Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?». Creonte, perduto in tale frangente il figlio Emone, promise in sposa la sorella Giocasta, vedova di Laio, e quindi il regno, a chiunque l’avesse risolto. Edipo ebbe successo con la risposta: «l’uomo», il quale va gattonando da infante, cammina su due gambe da adulto e con l’ausilio del bastone da anziano. L’orrenda inviata di Era, dopo la sconfitta subita, si suicidò gettandosi dalla rupe: Edipo si mostra così come figura “liminale” o “di soglia”, aiutando la transizione tra le vecchie, cruente pratiche religiose, e quelle nuove degli dèi dell’Olimpo.

Un clima di attesa condiziona favorevolmente la platea all’accorrere della regina (Elena Arvigo, bionda, vestita in nero lungo con paillettes, scollata, coronata da un brillante diadema) per pacificare il marito con il fratello accusato di complottare per impossessarsi del potere. Suggerisce di non dare ascolto ai vaticini: persino a Laio, dal padre di Crisippo, era stato predetto di morire per mano dell’erede, essendo stati invece, a sopraffarlo, alcuni banditi in viaggio per Delfi, all’incrocio di tre strade. Edipo è però turbato dal racconto e inizia a comprendere. Confessa alla consorte di provenire in realtà da Corinto: là era primogenito del defunto monarca Pòlibo, destinato dunque alla successione. Un giorno sciagurato, l’oracolo di Delfi disegnò per lui un futuro di parricidio e di legame nuziale con la genitrice: atterrito dalla profezia, per scongiurarne il manifestarsi, fuggì, ma nel tragitto, all’imbocco di un trivio, aveva avuto un alterco con un uomo uccidendolo. E se fosse stato Laio? In breve, attraverso il resoconto della storia dei due testimoni (bravissimo Mauro Mandolini, il messo di Corinto che, un tempo pastore, lo aveva cresciuto), Edipo coglie e assorbe la verità: è stato lui a uccidere il padre, a sposare la madre, ad avere da lei quattro figli. Trovata Giocasta impiccata, ne sfila le spille dal vestito accecandosi.

Straziante ed epifanico era stato il commento della regina, tentando di allontanare il marito-figlio dal concretizzarsi dell’agghiacciante sospetto. Con precisione, la donna esortava: «A che pur temi / le nozze con la madre? Quanti mai / giacquero in sogno con la madre loro! / Chi rider sa di queste ciance solide, / vive la vita sua serenamente». Lo sappiamo: la riflessione è stata, con il rinvio all’universo onirico, all’origine della teoria freudiana del “complesso di Edipo”: «Si comprende l’interesse palpitante che suscita l’Edipo Re», annotava il padre della psicanalisi: «Il mito greco si rifà a una costrizione che ognuno riconosce per averne sentita personalmente la presenza. Ognuno è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia e, da questa realizzazione di un sogno trasferita nella realtà, ognuno si ritrae con orrore».

Nel dramma, l’agnizione risulta lacerante e angosciosa. Immerso nel buio totale e afflitto dalla matrice snaturata della famiglia, il sovrano di Tebe, quasi abbracciando le figlie-sorelle Antigone ed Ismene (le compiange, saranno emarginate dalla società per essere frutto di unione incestuosa), supplica Creonte di esiliarlo, essendo aborrito dagli dèi. La richiesta sarà però esaudita solo dopo aver vissuto da segregato e nascosto agli altri, a opera dei discendenti maschi Eteocle e Polinice. Con il fiato in sospeso, termina così Edipo re e, concluso l’intervallo, quando i fari sono di nuovo accesi, ho la sensazione di aver cambiato teatro.


In Edipo a Colono, la scenografia è chiara, luminosa, geometrica, con costumi dell’epoca. Al centro una serie di cubi color della neve, a comporre una piccola piramide: sono il profilo roccioso sul quale, accompagnato dalla fidata Antigone, riposerà Edipo. Eccone apparire il viso, con i folti capelli canuti e deturpato dalle ferite dell’accecamento. Per l’intera durata della tragedia rimarrà seduto in cima alle rocce, come un re, rivolgendosi a tutti con larghi gesti solenni: sulle spalle, il pesante cencio da vagabondo, consumato e logoro, possiede la nobiltà utopica di un indumento regale. Il “trono di pietra” spicca sul fondale ritmato da tre lesene grigie su un campo candido: con niente intorno, se non alcuni individui inginocchiati, con mantelli bianchi e cappuccio. Siamo al limite del boschetto sacro alle Eumenidi: addentrarsi è proibito e pericoloso.

Davanti ai miei occhi prende corpo un’immagine di messa in atto vicina, o meglio affine, all’atmosfera ispirativa brechtiana. Secondo lo scrittore tedesco, lo scenografo sarebbe «esentato dal proporre l’illusione di una stanza o di un paesaggio», e avrebbe il compito di ritrarre qualcosa di conosciuto e di estraneo al tempo stesso. Nell’epos, quello moderno in particolare, destinatario privilegiato non è più l’emotività, ma le idee, e al pubblico è richiesto di essere sempre vigile e critico, capace di collaborare allo sviluppo della storia: nell’allestimento di Edipo a Colono (di alberi e cespugli non vi è traccia, il bosco è appena suggerito) sembra realizzarsi un’analoga intenzionalità creativa. Il candore diffuso nelle sfumature di luce richiama inoltre la certezza tipica di Brecht di dover conservare un obiettivo acuto e chiarificatore sull’area del progredire dell’azione sottoposta al giudizio degli spettatori, soggetti e non oggetti passivi della tematica complessiva.

Nel teatro epico, infine, poteva accadere che gli interpreti mutassero sembianze in scena. In Edipo a Colono i nove protagonisti dall’inizio sono sul palco: il vecchio re esiliato e le figlie, circondati da sei uomini nascosti da un ampio saio bianco, dal capo ai piedi. Mostrato il volto, lasciata a terra la veste, si scoprono a turno con i loro costumi e assumono l’identità esatta di un personaggio del dramma: il sovrano di Atene, il mitico Teseo del Minotauro, nei panni di una figura angelicata nobilitata da una lieve corona; in simil modo un attore introduce Polinice e, esaurita la parte, invece di uscire dalle quinte, dinanzi a noi indossa di nuovo  mantello e cappuccio e torna anonimo; non diversamente, del resto, irrompe Creonte, imponente, minaccioso, con una casacca regale nera e istoriata.


Mi sono ingannata, lo ammetto, cercando, durante il prologo della seconda tragedia, similitudini tra il Glauco Mauri-Edipo vecchio, con Antigone, e il Glauco Mauri di tempo addietro, Re Lear shakespeariano con accanto Cordelia. Ma di essere fuori strada l’ho compreso abbastanza presto, quando muto, assente, a chi lo chiamava, a chi ne implorava un parere, quell’Edipo, fissando anche me con le sue orbite vuote, è confluito nella memoria di uno dei maestri di Mauri, l’indimenticabile Tino Buazzelli: nei panni del Galileo brechtiano già citato sostava in scena in silenzio, indifferente all’avvicendarsi circostante (nella realtà storica, il “mutismo” dello scienziato durò giorni, mesi, anni). Avremmo dovuto noi, in conclusione, parlare al posto loro. Per dire cosa? Che di un “vero” difeso da tutti l’umanità non vuol saperne. Dallo splendente e irripetibile V secolo ellenico a.C. al ‘600 post-rinascimentale e controriformista italiano, è invece sempre in attesa di essere occupato lo spazio dove i giusti difendano il giusto.

Terminato lo spettacolo, sono uscita tra la folla più che mai carica di un pesante fardello, con il desiderio però di condividerlo con tanti altri. Lo so, non è una novità. Il compito dei giusti e dei saggi ha duemilacinquecento anni: non per questo smarrisce l’urgenza di essere realizzato.

 

Edipo Re

Edipo a Colono

di Sofocle

traduzione Dario Del Corno

con Glauco Mauri (Tiresia/Edipo anziano), Roberto Sturno (Edipo giovane/un messo), Elena Arvigo (Giocasta/Antigone), Mauro Mandolini (un pastore/Creonte anziano), Ivan Alovisio (il sacerdote/Polinice), Laura Garofoli  (una ragazza/Ismene), Giuliano Scarpinato (Teseo), Roberto Manzi, Paolo Benvenuto Vezzoso

scene e costumi  Marta Crisolini Malatesta

musiche Germano Mazzocchetti (Edipo a Colono), elementi sonori Giacomo Vezzani (Edipo Re)

regia Andrea Baracco (Edipo Re), Glauco Mauri (Edipo a Colono)

Produzione Compagnia Mauri-Sturno con Fondazione Teatro della Toscana

 

Ringrazio Adriano Camerini per l’assistenza nella stesura del testo.


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