Ruben SABBADINI – “Il poggio” (racconto breve)

 

Io scrivo


 

IL POGGIO

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La collina declinava lentamente ad est, nella direzione del mare che, comunque, non sarebbe giunto prima di una trentina di chilometri. Dominava una larga valle, dunque, ma da una posizione non particolarmente autorevole, solo un po’ più in alto del paesaggio circostante.

Avevo un debole, fin da ragazzo, per quel cocuzzolo isolato e me lo immaginavo un giorno coperto di alti pini e il tortuoso sentiero, che lo rendeva accessibile, altrettanto orlato; sì che assurgesse allo stato nobile di viale.

È il destino finale di ogni altura, per me, diventare poggio. È lo stato supremo, ideale, cui non riesco ad evitare il pensiero; come se il giusto ordine dovesse, un giorno non lontano, completare definitivamente il creato.

È facile che la vita, invece, ti porti via lontano e i sogni e gli ideali vengano prima accantonati e poi, man mano, dimenticati. Anche quando ti fossi lasciato alle spalle le primarie necessità e avessi conseguito un certo benessere, difficilmente saresti poi tornato, così a lungo, sui tuoi passi, a dare corpo a un sogno giovanile. Sembra legge di natura che ciò che è lontano nella memoria sia anche meno urgente, meno capace di riconquistare il centro nella nostra vita.

Non per me che devo completare il mio ordine, che devo dare a ciascun dettaglio il giusto posto in un’equilibrata composizione.

Appena potei, comprai, invero per due soldi, quell’eremo isolato e lo ricoprii di alberi come nei miei primi desideri. In breve riuscì ad assomigliare quasi esattamente all’immagine che avevo registrata nella memoria. Se poi, viceversa, quel lontano ricordo avesse, a poco a poco, acquisito le sembianze dell’attualità non potrei scommettere. Certo è che ricordo e realtà combaciavano quasi perfettamente.

In cima collocai una fontana che prendeva acqua da un profondo pozzo che avevo fatto scavare e che, per non seccarlo, facevo circolare con continuità. Nei nostri tempi moderni questa sorta di perpetuum mobile non è così impossibile: un pannello solare e un po’ d’idraulica da amatore.

A sentirsi la fontana alle spalle e il gorgoglio dell’acqua, avevi l’impressione di un ruscello e la completa compenetrazione con la natura era garantita.

Nessuno dei miei conoscenti capiva il senso di quello sforzo, lo consideravano un vezzo, un lusso che potevo permettermi, ma non molto lontano dalla follia. Intanto era impresa senza profitto oltre che apparentemente senza senso (e forse i due elementi non erano poi totalmente scoordinati).

Se avessi dovuto descrivere quell’impresa a qualcuno dei miei scettici conoscenti avrei detto rientrasse nell’ambito specifico dell’arte. In quell’ambito riusciva, se avessero ben osservato e meditato, ad acquisire ciò che gli mancava: sia il senso che, perché no?, il futuro profitto.

Ma lavorare per l’arte, il bello, non è più di moda; è pratica di eccentrici, ai margini della società; accettati e tollerati perché, in un tempo remoto, i dotti vi avevano messo a vegliare muse, creature divine che, dall’alto del proprio status, spandevano senso e onore sui propri protetti.

In nome di quei lontani trascorsi nessuno poteva permettersi di alzare un grido, men che meno un dito, all’insegna di quei pazzi visionari. Ma nel cuore dei più, affannati a produrre e, più ancora, a consumare, rappresentavano un inutile spreco, fino a diventare, anche se per una minoranza, un disturbo nel giusto cammino indicato dalla modernità.

Io, invece, ero sereno e pensavo che noi folli avessimo, ancora una volta, lavorato anche per loro, gli irriconoscenti, che avevano fatto appassire e rinsecchire il mondo che li circondava.

Io qualcosa avevo fatto crescere, a un sogno avevo dato vita. Di questo avevo avuto bisogno, questo mi completava. Qualcuno l’ha visto e forse l’ha imparato.

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