Marco CAMERINI – La satira di “Numero 11” (l’ultimo romanzo di Jonathan Coe)

 

Scaffale


 

LA SATIRA DI NUMERO 11: L’ULTIMO ROMANZO DI JONATHAN COE



 

Hitchcock, la Brexit, l’infanzia perduta, nell’intreccio enigmatico e folle del cinquantacinquenne scrittore inglese.

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“La trama procede senza sussulti di sorta nell’attesa di uno scarto narrativo che faccia decollare la suspence o, quanto meno, non strappi solo sorrisi di circostanza. Quando ormai Expo 58 pare risolversi in un mezzo passo falso dell’autore, a p.234 (sì, la indichiamo!) ricompare il Maestro, che scioglie l’esito giallo in modo assolutamente non banale e, in un riuscitissimo finale, tocca le sue corde migliori: il malinconico senso del tempo che scorre, la nostalgia struggente di ciò che poteva accadere e – per paura o semplice “musica del caso” – non è stato, il rimpianto accettato con dignitosa fermezza, l’ombra del passato – con i suoi fantasmi ed i suoi rimorsi – che più del presente, tanto meno del futuro, conferisce un senso alle nostre fragili esistenze”.

Abbiamo premesso a questa recensione quanto scrivemmo a proposito di Expo 58 nel novembre 2013, non tanto per rimarcare una valutazione che è stata confermata proprio in occasione dell’uscita di Numero 11 (Feltrinelli, 2016), quanto per evidenziare che il buono che avevamo pur còlto in quel romanzo (pochino) costituisce una chiave di lettura indispensabile per comprendere anche l’ultimo riuscito libro di Jonathan Coe.

Numero 11 è un’opera politica. Debordante, enigmatica, caustica, a tratti geniale sul piano delle contaminazioni culturali, ma essenzialmente ideologica e, per questo, profetica ed attualissima oggi che la Gran Bretagna è uscita dall’Europa, senza per questo voler costituire una valutazione dello scrittore su quanto accaduto. Le risposte, semmai, vanno lette in trasparenza e su un piano squisitamente narrativo. In questo senso, probabilmente, non mancano.

Nell’arco temporale di undici anni cresce e matura il rapporto di amicizia – dibattuto, controverso ma, alla fine, vincente – fra l’equilibrata e colta Rachel Wells (il cognome, come molti altri, non è affatto casuale: sorprendentemente la ragazza diventerà protagonista di un finale degno de La guerra dei mondi) e Alison Doubleday, sessualmente e caratterialmente inquieta, aggressiva per difesa, sincera e gravemente menomata dal sarcoma di Ewing. Probabilmente il “doppio” di Rachel, e non per forza Hyde.

Le vicende che compongono il libro vengono coerentemente legate e ricondotte, con scaltrezza narrativa, a questa coppia “corale” che attraversa fasi cruciali della recente storia inglese, a partire dall’intervento in Iraq nel 2003 con il conseguente imbarazzo generatosi in un paese “tormentato ove nulla sarebbe più stato come prima […] c’è un momento in cui ogni generazione perde la sua innocenza politica” (p.171): come Blair “si sporca le mani di sangue” (p.172) due adolescenti “sporcano” le rispettive, fragili coscienze con “prove di iniziazione” sempre più scabrose, trovando anche nell’arte un’opzione per esorcizzare le sconfitte.


Premesso che solo parzialmente Numero 11 sviluppa e conclude il più famoso romanzo di Coe La famiglia Winshaw (1995) – comunque lo si può benissimo apprezzare senza aver letto il primo – Rachel e Alison crescono, sempre più amaramente disilluse, nella società post-thatcheriana avventatamente edonista in cui gli scandalosi orrori quotidiani della disuguaglianza sociale e dell’ingiustizia corrotta di potentati economici più o meno occulti, alimentati nepotisticamente dalle tentacolari “famiglie Winshaw” – intolleranza xenofoba e stampa politically correct visceralmente ostile alla sinistra liberal (“ridistribuisce le risorse, togliendole a chi le merita sabotando tutto quello che funzionava nella società civile britannica”, p.214), multinazionali delle armi che gestiscono, contemporaneamente, la bonifica delle zone belliche e croniche disfunzioni del sistema sanitario disposto ad imporre un prezzo alla vita umana, “l’invisibilità fiscale” di troppi (Wells, L’uomo invisibile, 1897!), le spregiudicate gestioni patrimoniali e le follie edilizie di residenze esclusive interrate sino a…11 piani per ospitare piscine con vegetazione tropicale – contrastano con la quotidianità smarrita e sofferente dei banchi alimentari (un luogo deputato del romanzo: quasi tutti i personaggi vi si recano, come fornitori o fruitori), degli impieghi umilianti e sottopagati, della disabilità e dell’emarginazione raffigurate in quel Museo dell’Art brut di Losanna visitato da Rachel, con opere di “autodidatti che lavorano al di fuori delle strutture tradizionali, al di là di ogni regola e convenzione artistica. Persone solitarie che vivono ai margini della società o rinchiusi in ospedali psichiatrici” (p.323).

Parallelamente, in un romanzo che coinvolge in modo complesso e raffinato tutte le forme della comunicazione, alle deformazioni di quella contemporanea – l’ambigua labilità emozionale del contatto virtuale (un messaggio equivocato su Snapchat mette in crisi il rapporto di Rachel e Alison) o la volgarità degradante dei reality televisivi (vi partecipa la madre di Alison, modesta cantante in declino, per recuperare visibilità: il momento della prova decisiva per non farsi eliminare da un pubblico famelico e abbrutito è uno dei passi più forti e riusciti del libro) – si contrappongono la funzione catartica della pittura (Alison dipinge i reietti in “abiti regali”, una facile preda per la cinica Josephine Winshaw e la sua campagna contro i sussidi assistenziali di cui beneficia la ragazza), il potere ordinatore della scrittura che tenta di tradurre e decifrare il caos – Numero 11 è, fra l’altro, un metaromanzo la cui autrice è Rachel, peccato il meccanismo venga svelato già a p.27, ripresa specularmente a p.346 – ma, soprattutto, l’appassionata fede nel cinema, al quale l’autore dedica un colto e devoto omaggio.

Dai capolavori di Hitchcock – citati Gli uccelli oltre che Psyco, ma molte pagine sembrano scritte nello stile espressivo del regista – alla produzione di fantascienza anni ’60 ispirata all’opera di H.G. Wells, sino al cinema horror, anche nella versione dei B movies più trash con i ragni giganti di Tarantula (1955) – come vedremo il libro è assolutamente sconsigliato a chi soffre di aracnofobia – o quello più consolatorio ed ingenuo del Giardino di cristallo, struggente film anni ’40 “distillato di nostalgia dell’innocenza infantile” (p.187) girato da un regista tedesco naturalizzato americano, ossessione fatale di Roger, critico cinematografico marito di Laura, docente universitaria di Rachel.

Il tutto, in questo libro sorprendente che può piacere molto o non piacere affatto (La casa del sonno non può non piacere, questa la differenza), è ossessivamente percorso da una fitta rete di riferimenti simbolici. Il numero 11, anzitutto, che si ottiene anche sommando altri numeri nascosti fra le pagine (al lettore scoprire il gioco, se vuole…aggiungiamo che uno è il 3, riferito alle porte di molti spazi chiusi della trama): di volta in volta il civico di una casa inquietante, vistosa citazione del Motel Bates di Psyco, il bus di linea per pendolari dei sobborghi di Birmingham, il tavolo di un grottesco ricevimento da cui sbuca la testa di un menù parlante (allusione alla mitica “Mano” della Famiglia Addams?!), il riferimento di un deposito dove si trova, forse, una vecchia pellicola sola in grado di conferire un senso alla vita di Roger, il piano interrato di una sontuosa villa di Chelsea ove dimorano, come in un girone dantesco, le nefandezze dell’high society londinese con i loro demoni punitori e al numero 11 di Downing Street risiede il Cancelliere dello Scacchiere.

Undici, il numero della follia, della prosaica normalità e della letteratura che tenacemente continua a descriverle. Ma accanto a questo, costanti presenze animali oscure e sgradevoli: volatili, cani (più vicini all’infernale Cerbero che ai mansueti amici dell’uomo) e, soprattutto, ragni, non esattamente ritratti come bestioline beneauguranti. L’insetto – dall’indubbia fortuna letteraria che dalla mitica Aracne e Baudelaire conduce sino a Calvino e Montale (Clizia-Brandeis assiste sotto forma di ragno ad una lezione di Pitagora ai suoi discepoli, in uno splendido racconto di Farfalla di Dinard) – è una sorta di elemento totemico trasversale, sinistramente annunciato già all’inizio da una carta da gioco, che assume il ruolo di Nemesi persecutrice di una società inglese incapace di essere “normale” al servizio di Rabbia, temibile divinità incarnatasi nella rumena Livia (sì, la Romania di una nota creatura sanguinaria prediletta dal cinema…).

Satira feroce di un presente troppo spesso mostruoso, ma, insieme, elegiaca riflessione sul tempo trascorso: è quest’ultima una delle corde che Coe sa toccare anche in un romanzo “eccessivo”, surreale nel suo essere legatissimo alla realtà e, forse, proprio nella tematica a lui cara del rimpianto per l’infanzia felice ormai perduta – non crediamo ciò assuma valenza “conservatrice”, semmai esistenziale in senso lato – si cela la cifra più intima che stempera e ridimensiona quella macabra di un intreccio disseminato di cadaveri umani – reali e metaforici – carcasse animali, violenza subliminale che finisce per connotare anche i rapporti affettivi.

Magari non sarà la sua replica allo stato delle cose, comunque gli consente di delineare i caratteri più riusciti, insieme all’agente investigativo Pilbeam, esilarante ed irriverente parodia di Holmes: i nonni di Rachel con il loro edenico, fatato giardino, figure rassicuranti e discrete, affettuosi garanti/testimoni degli anni in cui si cresce mentre non lo si vorrebbe e lo sfortunato Roger, al quale abbiamo accennato, convinto – laddove la moglie teme le trappole seducenti del passato, augurandosi che il loro figlio Harry “diventi pure ossessivo quanto gli pare […] purché sia per qualcosa di diverso da esso” (p.187) – che  proprio “nel passato, e cioè negli anni in cui era cresciuto, la vita fosse migliore, più semplice, più facile. Non era solo nostalgia dell’infanzia. No, era un sentimento più vasto. Riguardava quello che era stato il paese negli anni ’60 e ’70…o quello che si riteneva fosse stato” (pp.197-198). Musica, indubbiamente, per i sostenitori del leave.

 

P.S.

A proposito dell’importante sottotitolo di Numero 11, ovvero “storie che testimoniano la follia” – essenziale per illuminare il senso del libro – la traduzione è certo corretta e letterale, ma le relative, in simili casi, andrebbero evitate…peccato non poter ricorrere a Bukowski.

 

 

Jonathan Coe

Numero11

Milano, Feltrinelli, 2016, pp.380, € 19,00

 


 

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