Francesco TOZZA- Carmen in salsa napoletana (Al Teatro Bellini di Napoli)

 

Il mestiere del critico

 

 

CARMEN IN SALSA NAPOLETANA

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Uno spettacolo di Enzo Moscato,   adattamento e regia di Mario Martone, arrangiamento musicale: Mario Tronco e Leandro Piccioni.  Con Iaia Forte, Roberto De Francesco  -Teatro Bellini di Napoli

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Una Carmen in salsa napoletana quella messa in scena da Mario Martone, in questi giorni giunta a Napoli, al Bellini (il teatro, peraltro, che nel lontano novembre 1879 ospitò la prima italiana del celebre capolavoro di Bizet, a circa quattro anni dal debutto parigino all’Opéra-comique, ma con la stessa protagonista, l’avvenente mezzosoprano Célestine Galli-Marié). Che dire dello spettacolo? In sostanza ancora un caso di contaminazione, di cui forse non si sentiva il bisogno (ma di cosa si sente, oggi, il bisogno, sui nostri palcoscenici? Dove di tutto si può parlare, tranne che di quella che un tempo si chiamava necessità espressiva; onde una sempre più rara originalità o, quanto meno, la mancanza di un’autentica convinzione del loro fare, in molti dei nostri operatori teatrali).

Contaminazione si diceva, sempre fra riscritture: quella drammaturgica innanzi tutto, dovuta ad Enzo Moscato (dalla novella di Mérimée, più che dal libretto che ne ricavarono a suo tempo Mehilac e Halévy per l’opera omonima, attutendone i risvolti più crudi con l’inserimento della casta e timorata Micaela in qualità di antagonista della sensuale gitana), ma anche, in certo modo, riscrittura musicale, sull’onda lunga di una riconoscibilissima partitura, i cui temi fondamentali, peraltro, nulla hanno perso del loro fascino originario nell’intrigante arrangiamento di Mario Tronco e Leandro Piccioni, eseguito dal vivo dagli elementi della multietnica Orchestra di Piazza Vittorio.

Questi, a loro volta, improvvisatisi spesso attori, con quel loro saliscendi dal palcoscenico, davano così (insieme alle coreografie di Anna Redi) maggiore ritmo e velocità all’azione scenica, altrimenti languente nelle more del racconto della vicenda, operato da Cosé e dalla stessa Carmen: amanti di una passione intensa, ingenuamente esclusiva per il primo, insofferente di ogni limite la seconda, resa comunque seducente essenzialmente dal linguaggio musicale, non certo da processi di metaforizzazione più o meno esplicita o suggerita dalla diversa ambientazione.

Carmen, emblema tragico di una Napoli, accecata dalla sua stessa passionalità? Equazione possibile; e in questa direzione sembra essersi mossa la riscrittura di Moscato, non senza, però, una certa banalizzazione del personaggio, immerso in atmosfere più fassbinderiane che vivianee (come invece s’é detto) da una regia non sufficientemente coraggiosa, tuttavia, nel perseguire il modello cinematografico, più invaghita dalla teatralità dell’avanspettacolo e della sceneggiata, anche queste comunque inseguite senza l’artiglio critico o l’ironica quanto melanconica leggerezza di un De Berardinis.

Di conseguenza poco convincente l’interpretazione di Iaia Forte, inutilmente verista; più condivisibile, a questo punto, l’immedesimazione nella tragica solitudine di Cosé, da parte di Roberto De Francesco. Da avanspettacolo i moduli recitativi degli altri, ma senza la consapevolezza o la melanconica distanza che dovrebbe forse accompagnare la riproposta, oggi, del genere (comunque toccante – ma chissà quanto voluta e da quanti avvertita! – la citazione del claudicante Beniamino Maggio). Applausi prevedibili da parte di un pubblico ormai ben disposto a simili operazioni.

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