Il mestiere del critico
A TIRAR TROPPO LA CORDA…
A cento anni dalla stesura, prosegue in tournée Il berretto a sonagli di Pirandello con la messa in scena di Luigi De Filippo nella versione napoletana dello zio Eduardo- Roma, Teatro Parioli
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Questa volta l’inizio della recensione lo lascio a un altro giornalista, vissuto nei primi decenni del Novecento, magari più occasionale di me: di professione scrivano e di impostazione intellettuale. Il nome di battesimo nessuno lo ha mai conosciuto, si firma e si fa chiamare Ciampa. Rivolgendosi a una donna, forse anche a me, scrive: «Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui ci sta qua, in mezzo alla fronte. – Ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. – Non si può». Di sicuro, negli anni ’20, era più facile affermare di principio che “non si può”, pur se in realtà, al termine del Berretto a sonagli di Luigi Pirandello – di cui Ciampa, ricorderete, è il protagonista – si potrà, eccome.
Oggi, per l’appunto, la lotta meritocratica vigente nel mondo del lavoro, e quindi la battaglia quotidiana per la sopravvivenza, aggravata dal momento di crisi, avrebbe piuttosto riportato in auge la legge hobbesiana dell’homo homini lupus. Ma seguiamo ancora le indicazioni del nostro intellettuale-giornalista, abitante a Catania nella versione originaria (scritta anche in dialetto per l’attore Angelo Musco, con il titolo ‘A birritta cu’ i ciancianeddi), a Caserta nell’edizione in napoletano eseguita da Eduardo De Filippo nel 1936 su commissione del Maestro, e ora approdata al Teatro Parioli di Roma con la compagnia di Luigi De Filippo.
“E che faccio allora?”, prosegue Ciampa: “Do una giratina così alla corda civile. Ma può venire il momento che le acque si intorbidano. E allora… allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, per rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!».
Bene, a questo punto, entrando direttamente in campo nel commento della commedia, vorrei dapprima rendere chiari due dati di fatto, utili, per chi ignorasse o non ricordasse le ultime battute, ad apprezzarle meglio affinché se ne conosca la matrice ideativa e intellettuale. In prima istanza, per poter sedere accanto ai protagonisti pirandelliani, così come l’Autore ha sempre voluto accadesse agli spettatori, era stato necessario mettere tali corde in uso in un simile interscambio sin dalla mattina, quando improvvisamente, in ritardo, avendo avuto notizia del debutto, ho deciso di fare il massimo per non perderlo. E la corda “civile” ha dovuto allentarsi un pochino con ripetute richieste dell’accredito stampa (via mail e telefono), difficile da trovare perché la sala era effettivamente piena.
Giunta al Teatro Parioli, per un inconveniente logistico, mi trovavo costretta in un primo momento ad abbandonare la platea perché le uniche poltrone disponibili (in fondo e laterali), pertanto a me assegnate, non permettevano affatto di seguire lo spettacolo. Allora la corda “seria”, in questo caso la più emotiva, e quella “civile”, in lotta tra loro, sono sfociate in quella “pazza”: nei limiti, ovviamente, nei quali si poteva esprimere un giornalista ospitato per una recensione. In realtà, senza esagerare con il paragone, ho solo insistito per avere una visuale adeguata. Alla fine, i posti occupati erano ottimi, in quarta fila.
Ma mi sono chiesta: perché, semplicemente per fare il mio lavoro, ricorrere alla corda “pazza”, impegnativa, faticosa, come drammaticamente saprà bene il personaggio di Beatrice Fiorica, tradita dal marito con la moglie di Ciampa e alla ricerca di una rivalsa? Pirandello mi ha subito risposto: “La cassa dell’uomo, signora, comporterebbe di vivere, non cento, ma duecent’anni! Sono i bocconi amari….” a entrare in ballo, le onnipresenti incomprensioni, e poi – scalando il discorso nel reale, al di fuori del caso specifico, per entrare nella società – il potere d’acquisto dell’arte in sé, la facoltà di diffusione dei media, l’hic et nunc, prezioso ma costoso, del teatro rispetto ai verosimili della televisione e del cinema.
Soddisfatta e affascinata, come sempre accade quando dialoghiamo con Pirandello nelle Maschere Nude, dopo ancora un po’ di smarrimento per l’accaduto, è subentrato l’abituale meccanismo quasi magico al quale partecipa il pubblico, di solito lasciato in platea, altre volte chiamato direttamente in scena. Qualcuno mi ha preso per mano e mi sono trovata là, in un perfetto salotto “riccamente addobbato all’uso provinciale”, con creature che avevano già superato il dualismo del personaggio, capaci quasi di farmi sentire in colpa qualora non avessi realisticamente potuto intervenire nei loro colloqui, nei problemi suscitati, con qualche sia pure ipotetica proposta risolutiva.
Prima di varcare definitivamente con voi l’uscio comune del salotto del cavalier Fiorica, non dimentico di avanzare una seconda ma importantissima precisazione. Da giovane, per difendere me stessa, ora da sessantenne per difendere mio figlio e la sua generazione, sono sempre stata dalla parte degli epigoni, cioè di chi, rispetto ai grandi maestri, alle famose opere d’arte, a causa della storia, del caso, viene dopo. Però il Ciampa napoletano, nel guardaroba delle mie bellezze pirandelliane, rimarrà sempre e solo Eduardo De Filippo, il quale, fra le varie cose, confrontandosi con le “corde”, l’ho visto trentacinque anni fa applicare alla lettera le note di regia: “Con la mano destra chiusa come se tenesse tra l’indice e il pollice una chiavetta, fa l’atto di dare una mandata prima sulla tempia destra, poi in mezzo alla fronte, poi sulla tempia sinistra”.
Ciò non toglie come, sin dagli inizi, io abbia potuto liberamente godere per intero questo ottimo allestimento di teatralità napoletana nel suo complesso, con una commovente interpretazione di Luigi De Filippo – più “patetica” dello zio – un’ottima regia e direzione dei sette attori, ciascuna “creatura” e non “personaggio” ad essa estraneo; sono rimasta colpita in primis dalla bravissima Francesca Ciardiello (Beatrice) e da Giorgio Pinto (il fratello Federico detto Fifì). Annunciandosi il termine della storia con l’ingresso di Ciampa, distrutto, con una ferita in testa, senza occhiali, dopo aver appreso come il verbale sull’adulterio della moglie Nina con il proprio datore di lavoro sia risultato “negativo” (senza flagranza, nonostante siano stati entrambi arrestati, lei per “decolté eccessivo”, lui per “ingiurie”), dal pubblico, probabilmente insieme, “trasferiti” nel salotto ospite della storia, siamo quasi entrati in uno stato d’ansia. Che fare? Quale genere di messaggio di vita ricavare questa volta dal grande Maestro? E poi lì, uno accanto all’altro, di chi prendere le parti?
Certo, ha ragione Beatrice, Ciampa non ha coltivato un sentimento molto nobile, per quanto disperato, continuando a vivere con una moglie giovane e bella pur a conoscenza del tradimento con il suo capufficio, marito di Beatrice. Però in qualche misura è comprensibile: lo ha confessato, appena arriva a casa Nina non lo fa parlare, lo stordisce di abbracci e di baci. Tuttavia Beatrice, bella donna della Caserta “bene” di inizio secolo, derisa chissà da quanti per le scappatelle del consorte en plein air, non va nemmeno lei completamente condannata per il voler soddisfazione del grave torto subìto; del resto, i protagonisti laterali adottano tutti un atteggiamento moralmente accettabilissimo: la Saracena svelatrice della tresca, il commissario Spanò impegnato a fare il possibile a favore della famiglia nondimeno non abbia compiuto lui di persona gli arresti, infine il fratello Fifì, adoperatosi con generosità (“Ci pensa ora, che è mia sorella?”, protesterà).
No, non vi consiglio di tentare di prendere le parti di nessuno. Affidatevi alla corda “seria”, trascurando la “pazza” e la “civile”, leggendo alcune battute centrali di un’altra celeberrima commedia pirandelliana, Tutto per bene, di pochi anni più vecchia ma assai affine nel mettere in scena anch’essa un uomo tradito dalla consorte con il suo benefattore e datore di lavoro. Due ospiti del salotto del benestante Martino Lori (una volta di umili condizioni economiche) si confrontano – la Cei difendendola, la Barbetti discriminandola – sulla fedeltà dell’uomo rimasto vedovo da vent’anni che ogni giorno si reca al cimitero a rendere omaggio alla moglie: proprio lei, in vita infedele, madre di Palma avuta, a insaputa del marito (almeno così dicono…), con il senatore Manfroni. L’uomo politico è stato suo capo da sempre, artefice del benessere dell’intera famiglia e promotore di una brillante carriera di Lori da semplice impiegato a consigliere di Stato.
SIGNORINA CEI. Eh… trenta…
LA BARBETTI. Trenta, signorina! A chi vuol darla a intendere il signor Lori, rimasto vedovo a trent’anni, con quest’andare ogni giorno alla tomba della moglie? Signorina mia! Siamo di carne, anche!
SIGNORINA CEI. Lei suppone?
LA BARBETTI. Ma ci vuol poco, scusi, a supporlo!
Uscendo nel foyer con un malinconico saluto al Teatro Parioli, stanca ma emozionata, vi propongo di condividere il consiglio di Pirandello e, con la signora Barbetti, di “supporlo” insieme a lei: che tutte queste meravigliose creature del teatro pirandelliano siano “di carne, anche”. Dunque le corde si possono manovrare e giudicare, nel loro tendersi, ma fino a un certo punto.
Il berretto a sonagli
di Luigi Pirandello
versione napoletana di Eduardo De Filippo
con gli attori della “Compagnia di Teatro Luigi De Filippo” regia di Luigi De Filippo
con Luigi De Filippo (Ciampa), Stefania Ventura (Nina Ciampa), Stefania Aluzzi (la “Saracena”), Francesca Ciardiello (Beatrice Fiorica), Giorgio Pinto (Federico detto Fifì), Vincenzo De Luca (commissario Spanò), Claudia Balsamo (Adelina Ciampa), Marisa Carluccio (Assunta La Bella)
scene e costumi Aldo Buti, acconciature Marta Tarulli