Francesco TOZZA- Discrete pratiche di teatro (Pagani, Salerno, Bagnoli….)

 

 

Il mestiere del critico


 

DISCRETE PRATICHE DI TEATRO

Enzo Moscato

Nelle strettoie del sistema distributivo Fra Pagani, Salerno, Bagnoli… inseguendo (e alla ricerca di) teatri alternativi

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Capita talvolta alla penna del critico (o, per meglio dire, al mouse del suo computer) di volersi fermare, per non scrivere l’ennesimo articolo, più o meno elogiativo, sull’ennesimo spettacolo visto, ma invece riflettere, in modo più analitico (anche se noi, per la verità, lo facciamo quasi sempre nei nostri pezzi, a costo di risultare prolissi e per questo assai poco contemporanei…!), su ciò che passa il governo…, soprattutto quello locale; senza indulgere – pur prendendo atto della progressiva desertificazione dell’offerta – alla sterile autocommiserazione, piuttosto aprendo gli occhi su forme di (relativa) auto-organizzazione dal basso, o comunque su esperienze e pratiche di un teatro vivo (se non sempre diverso), che talvolta nascono al di fuori, o comunque ai margini, del sistema teatrale “ufficiale”. Non dimenticando, certamente, di stigmatizzare le soffocanti ingerenze del potere politico, che si traducono assai spesso in difesa di rendite di posizione, peraltro sempre più esigue a causa della famigerata ‘crisi’; ma, allo stesso tempo, non rifiutandosi al sistematico ricambio generazionale e, soprattutto, all’ormai ineludibile dialettica fra “movimenti e istituzioni”, per non cadere nel mero velleitarismo.

Delusi, almeno in questo primo scorcio di stagione, da quanto offerto nei cartelloni dei teatri napoletani, in specie dallo Stabile, ormai Nazionale (al quale – si direbbe – mancano esplosioni di energia e immaginazione!); per non scappare sempre (da buoni provinciali!) verso le più accattivanti offerte del Centro-Nord (ma su “una questione meridionale” del teatro sarebbe ormai il caso di riflettere!), abbiamo continuato a visitare – come testimonia ciò che andiamo scrivendo ultimamente – le nostre realtà marginali (che poi, spesso, sono tali soltanto dal punto di vista geografico, non certo per le scelte teatrali operate). Ci riferiamo, per esempio, alla  Rassegna “Scenari Pagani”, giunta alla sua XIX edizione, con al suo attivo – in un territorio altrimenti senza teatro – intriganti spettacoli e coraggiose ospitalità (Emma Dante con il suo iniziale mPalermu già nel 2004 e, più di recente, gruppi da poco emergenti, come i Maniaci-D’Amore).

Quest’anno, grazie al dinamismo del suo direttore artistico, Nicolantonio Napoli (peraltro anche impegnato in un’attività di formazione teatrale in zona, con la sua Casa Babylon), la Rassegna ha ospitato, al suo secondo appuntamento, Armando Punzo (direttore della celebre Compagnia della Fortezza, a Volterra) con un interessante laboratorio, conclusosi con un racconto/spettacolo da parte dello stesso Punzo e di uno dei suoi attori, nel carcere della cittadina toscana, Aniello Arena: testimonianza, in una festante serata d’addio, di una ormai desueta, magari ingenua, comunque coinvolgente e significativa declinazione del fare teatro, che ha dato senso e profondità ad una sempre necessaria irruzione della realtà nello spazio della finzione. Una delle linee portanti dell’esperienza estetica del Novecento fortissimamente volle questa pratica, come modalità di uscita del teatro dai propri angusti confini, ispirando innovative progettualità; ma ora, si continua a volerlo?

Al suo secondo appuntamento, questa volta a Salerno, non in provincia, è giunta anche la Rassegna – o come piace dire al suo curatore, Vincenzo Albano – la stagione di “MutaversoTeatro”, che già dal suo emblematico titolo intende sovvertire il gerontocratico sistema che, per anni, ha bloccato la distribuzione dello spettacolo, a Salerno, sul pedissequo rispetto della tradizione, negli ultimi tempi nemmeno della migliore. Certamente chi intende favorire l’emersione e la conoscenza di giovani gruppi teatrali, operanti fuori dal territorio, non può che incoraggiare l’esperimento. Con la speranza che cresca, da tutti i punti di vista, magari ospitato in sedi più adatte a contenere un pubblico che ci si augura sempre più numeroso; ma la risposta, fortunatamente, è già buona, soprattutto da parte degli elementi di una generazione che non è abituata ad andare a teatro, ma anche da parte di chi è sinceramente incuriosito dal nuovo, senza essere “nuovista” ad ogni costo.

Per quanto riguarda le scelte del curatore, ovviamente condizionate dal modesto budget a disposizione, e che sicuramente potranno spingersi oltre l’alveo della drammaturgia in senso stretto, va detto che, dopo l’entusiasmante approdo, sul palcoscenico del Giullare, del messinese Tino Caspanello, da noi già recensito, è stata la volta del gruppo pistoiese Gli Omini. I quali, con la loro Famiglia Campione, peraltro frutto anche di una ricerca socio-antropologica condotta – a loro dire – sul territorio di provenienza, hanno comunque offerto uno spaccato familiare di proporzioni più vaste, dalle venature esistenziali più legate alla dimensione temporale dell’oggi che a quella geografica dei tre interpreti; per cui, smussate certe spigolosità più pertinenti a colorazioni folcloriche, è venuta fuori dalla loro azione scenica – a tratti, almeno – una caratterizzazione espressionisticamente più emblematica che riduttivamente realistica.

Discrete pratiche di teatro, dunque, quelle cui si è appena fatto cenno (ma di altre potrebbe ancora parlarsi e da parte nostra si è già parlato), laddove l’aggettivo, più che sostanziare un mero giudizio di merito, allude ad una morbida presenza, senza particolari casse di risonanza, non esclusivamente o particolarmente foraggiata dalle amministrazioni locali: frutto quindi, in gran parte almeno, di un’auto-organizzazione dal basso (come si accennava più sopra), da guardare in ogni caso con attenzione, in vista di un auspicabile, maggiore dialogo con le istituzioni; che non le mortifichi però, o le snaturi, ma le aiuti a crescere nella loro differente identità.

Proviene, invece, da un diverso, più stretto rapporto istituzionale, anche se pur sempre con l’obbiettivo di un’offerta alternativa, l’esperienza di “casa del contemporaneo”, nata (o meglio “rinata”) sulle ceneri ancora calde della Fondazione cui, qualche anno fa, diedero luogo Università e Comune di Salerno, nonché i due titolari della napoletana sala Assoli, cioè di quel che è loro rimasto del glorioso Teatro Nuovo, che coraggiosamente e meravigliosamente diressero per circa un trentennio, a partire dagli anni ottanta, molto lustro offrendo alla sperimentazione teatrale napoletana (e non solo).

Il nuovo “centro di produzione”, cui ha dato luogo la tenace coppia, questa volta in sinergia con due formazioni del capoluogo regionale (“Le Nuvole” e la Compagnia di Enzo Moscato), assicura – fra mille difficoltà, qualche contraddizione e non poche polemiche (alcune, forse di troppo!) – una discreta attività teatrale nel territorio: e l’aggettivo, questa volta, esprime proprio il positivo giudizio di merito che sottintende, limitato soltanto dall’ancora, giocoforza, modesta quantità delle iniziative in cantiere e dalla non sempre felice idoneità degli spazi che le ospitano: a Salerno, l’ex cinema Diana, recentemente restaurato e inaugurato, ma con delle insufficienze strutturali dovute a una non molto chiara, o a suo tempo poco chiarita, destinazione; e il teatro Ghirelli, un neonato anch’esso, magari prematuro, alle cui debolezze sembra si riesca a sopperire comunque, entro la prossima fine di marzo. Abbiamo inseguito (è il caso di dire) l’attività della “casa del contemporaneo” anche alla periferia di Napoli, in quel di Bagnoli (a Città della Scienza, in quel che è rimasto del famigerato incendio, dove ha sede una delle formazioni collegatesi nel team, cioè Le Nuvole, nota per la sua lunga attività di formazione e animazione teatrale in zona).

Ebbene, nel modesto ma funzionale teatro qui esistente, abbiamo assistito alla intrigante messa in scena del Si gira (I quaderni di Serafino Gubbio operatore), forse il romanzo più trascurato di Pirandello, qui offerto per l’adattamento drammaturgico e la regia di Stefano Massini; il quale, com’è noto, è succeduto a Luca Ronconi nella direzione artistica del Piccolo di Milano (ma questo non ha ancora contribuito ad una diffusa circolazione del lavoro!). E, invece, la messa in scena meritava di essere vista, e non dai soliti happy few, in quanto – nonostante la prolissità di alcune sue parti – ben sottolineava il carattere fascinoso, e inquietante ad un tempo, che il nuovo mezzo di comunicazione (il cinema) presentava a suo tempo per Pirandello, con risvolti anche profetici sull’oggi; il tutto in un’atmosfera elegantemente felliniana, con felici ricostruzioni d’ambiente e una recitazione coerente al gioco della memoria.

A Salerno, infine, nell’ambiguo spazio dell’ex Diana, abbiamo potuto rivedere (lo si era già visto a Napoli), anzi riascoltare, Enzo Moscato (nella foto, in alto) nel suo Toledo Suite: voce roca, a volte perfino stonata, che dice – da attore consumato, non da cantante – alcune delle più belle canzoni della Napoli che fu (ma non solo quelle), accompagnata da uno straordinario trio musicale (violino, chitarra classica e percussioni) che dà spessore di café-concerto o di cabaret berlinese ad uno spettacolo che non riesce ad esserlo. E forse nemmeno lo vuole, scassata ma perfetta metafora di una città ferita a morte nel suo immenso patrimonio musicale, nella sua stessa tradizione teatrale, che ormai può solo rioffrire nella voce straziata e straziante (ma pur sempre seducente) di uno dei suoi figli più affezionati, che la contaminano con i più disparati registri linguistici, arcaici e contemporanei, per fare in modo che – comunque – continui a vivere.

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