Cristina PICCINO*- Lontani da tutto (note su “Fuocoammare”, il film di G. Rosi vincitore della Berlinale)


Berlinale*



LONTANI DA TUTTO

fuocammare

“Il mio pensiero va a coloro che non ce l’hanno fatta”. Gianfranco Rosi, regista di Fuocoammare, ha salutato così la consegna dell’Orso d’Oro, il massimo premio della Berlinale, la rassegna cinematografica berlinese che ha dedicato questa 66esima edizione proprio al dramma dei profughi, che il documentarista ha raccontato, seguendo per più di un anno le vicende dei superstiti sbarcati sull’isola, la loro disperazione, speranza, difficoltà di ambientazione

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Orso d’pro a Berlino, quindi, per l’unico film italiano in concorso, “Fuocoammare”, nuovo lavoro di Gianfranco Rosi, Leone d’oro col precedente “Sacro GRA” ma soprattutto autore di capolavori come “Below Sea Level”. Uno dei nostri migliori registi, Rosi, tra i pochi a cui dare fiducia anche quando annuncia di voler confrontarsi con un tema sensibilmente complesso come quello dei migranti sull’isola di Lampedusa, e dunque con le immagini di una realtà che l’urgenza della cronaca ha quasi consumato. Ma “Fuocoammare”, come il titolo di una vecchia canzone, e i ricordi della guerra di una vecchia signora, con l’attualità dei servizi televisivi , le inchieste, i doc «impegnati» non ha nulla a che vedere.

Non ci sono «teste» parlanti, interviste, dissertazioni, i racconti delle sofferenze diventano le rime di una ballata rap. E Rosi riesce a filmare quello che non si può filmare, la morte,il dolore, i corpi dei cadaveri coperti nei sacchi che vengono tirati su ogni giorno dai barconi in mezzo al mare, ognuno con le sue storie di cui non si sa ma che in fondo, a quel punto, non sono nemmeno importanti. Lo fa con pudore, e sono i momenti più forti del film, mettendosi dalla parte degli uomini dei soccorsi, quasi a farci guardare quella realtà nei loro occhi e condividerne il sentimento a volte, troppe volte, di impotenza.

Ascoltiamo le voci, le grida di aiuto via radio ai posti di controllo, è un lavoro quotidiano che appare infinito.

Però l’isola non è solo questo, ci sono i suoi abitanti, c’è la sua vita, ci sono i gesti della «normalità» di tutti, andare a pesca, a scuola, combattere il maltempo perché sennò non si riesce a tirare le reti e a guadagnare, occuparsi della casa. Gli sbarchi anche lì sembrano inghiottiti dalle voci alla radio che comunica le cifre degli annegati: «poveri cristiani» commenta una donna girando il pomodoro del sugo.

La linea narrativa si muove su questa alternanza dei due piani di realtà dove in uno, quello degli isolani, il personaggio-guida è Samuele, un ragazzino di dodici anni piuttosto strano, che parla in dialetto stretto, tira tutto il giorno con la fionda agli uccellini, ha un occhio pigro e, figlio di pescatori, soffre di mal di mare. A scuola non combina nulla e passa le sue giornate camminando per l’isola che appare deserta insieme a un amico che lo segue con la fionda, perché per essere bravi, spiega Samuele, ci vuole una passione.

Lo schema è un po’ quello del precedente Sacro Gra, una sorta di circolarità in uno spazio chiuso, come è quello di un’isola, nel quale ritornano le stesse figure che però non diventano mai con l’eccezione di Samuele, dei personaggi. Rimangono lì, accennati, con qualche ammiccamento all’eterno dna nostrano da commedia all’italiana — tutti ridono quando il ragazzino parla e succhia dal piatto gli spaghetti — circondati da santini madonne e padri pii. Silenziosi come il sub che si immerge ogni mattina nelle acque cercando ricci, immersi nella loro vita di sempre.

Samuele spara al cielo con le armi finte, e fischia ai cardellini, li cerca nella notte per tirargli i sassi, eppure se si guarda meglio forse si possono accarezzare. Ecco, la metafora (parolona per carità) degli occhiali del ragazzino e del suo occhio pigro, (un po’ The look of silence il magnifico film di Oppenheimer ) sembra essere il punto di vista del regista, o almeno il posto che ha scelto per sè nonostante l’invisibilità della sua presenza. Rosi sull’isola ha passato quasi un anno, e si capisce che gli isolani si sono abituati a lui. Eppure Rosi non sembra cercare una relazione, a parte col ragazzino, e in fondo neppure tanto, il rapporto rimane sempre nella distanza, di loro non sappiamo nulla se non qualche frammento di quotidiano, cucinare, fare la maglia, uscire a pesca. Mai un commento su quanto accade, tranne nelle parole del medico, mai neppure un conflitto.

È questo l’occhio pigro? L’abitudine, la stessa di tutti noi ormai, a quanto avviene davanti a noi? Il rifiuto di guardare anche quando è tanto vicino a te? Non è moralista Rosi, piuttosto ricerca una tensione morale, ed è quella che gli permette di filmare i migranti dando alle immagini a cui siamo «abituati» una forza e un’evidenza mai vista. Anche qui non c’è relazione, ed è giusto però che sarebbe viziata o impossibile.

Ci sono istanti di verità, c’è la ricerca di una consapevolezza, di una coscienza, e da cineasta — quale è — c’è la necessità di trovare un’immagine che rispetti ognuna di queste persone restituendone la singolarità. È una domanda forte, ed importante, perché come dicono i protagonisti, un regista egiziano e uno iracheno, di un bel film del Forum, In the Last Days of City, «invece che parlare dei film si parla solo di politica», il cinema deve riuscire a rispondere al confronto col proprio tempo — siamo tutti africani ha detto Meryl Streep aprendo il festival — e la scelta di un’immagine è di per sè un gesto politico. Per questo anche nelle sue incertezze quella di Fuocommare è una scommessa importante col nostro tempo e con la sua fragilità. (*ilmanifesto)

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