Il mestiere del critico
TRASGRESSIONE: QUANDO LE PAROLE NON BASTANO PIU’
Con Dipartita finale al Teatro Parioli in Roma, Franco Branciaroli si ispira all’originale beckettiano e rende omaggio al 97enne Gianrico Tedeschi.
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Uno spettacolo pomeridiano con un po’ di nostalgia per i giorni, i primissimi, nei quali, su iniziativa del mio liceo – nella scelta di avviare, tra i tanti, lo studente alla “drammaturgia” mostrandola – raggiunto il teatro con un pullman, sedevo curiosa e piena di aspettative in platea o nei primi palchi laterali a godermi l’avventura preannunciata. In effetti al Teatro Parioli (accanto però a un pubblico per lo più maturo) ripensavo a quell’epoca, poiché di esperienza nei decenni trascorsi noi, ragazzi di allora, abbiamo avuto la sorte storica di essere in grado di maturarne molta. Tuttavia, in tale generosa atmosfera, negli anni, confesso di non aver avuto la possibilità di portare a termine un desiderio specifico di una certa, almeno personale importanza: il non aver potuto vedere invecchiare in scena un grandissimo attore seguito con amore sin da ragazza in ruoli nei quali, magari, appariva più maturo della realtà anagrafica. Ne apprezzavo l’esclusiva verosimiglianza ma, con il trascorrere del tempo, mi chiedevo come sarebbe stato, con un messaggio irripetibile evocato tra le quinte, una volta davvero anziano. E già, perché sono convinta che tale condizione vitale, nonostante cerone, barbe bianche e “maschere”, sia specifica e irripetibile. La sua versione della terza età sulla ribalta non ha purtroppo mai preso vita.
Con lo spettacolo Dipartita finale di Franco Branciaroli, libera revisione del celebre Finale di partita di Samuel Beckett, avrei avuto occasione, in certa misura, di vivere quel genere di sensazione seguendo la storia di altri “maturi” protagonisti, nella pièce originaria vissuta in scena da Ugo Pagliai, Maurizio Donadoni, lo stesso Branciaroli e soprattutto il novantasettenne Gianrico Tedeschi. Quando si apre il sipario, sono dunque rilassata e pronta a riflettere sulla vita e sulla morte imminente per circa un’ora e mezzo, senza intervallo. In una scenografia molto curata, progredisce così la vicenda di due clochard: rispetto al testo beckettiano, conserva i protagonisti Hamm, un anziano signore cieco e incapace di reggersi in piedi (Pagliai, con il nome di Pol) e il suo servo Clov (Tedeschi, soprannominato Pot) che, al contrario, è in continuo movimento e non dorme.
Non credo sia il caso di anticipare le varianti dettagliate della trama, limitandomi a precisare come, in questo adattamento, entrino in campo ex novo la figura del Supino (Donadoni) e della Morte (Branciaroli, anche autore e regista). Lungo il Tevere – si precisa nelle note di regia – all’interno di una dimensione spazio-temporale ineffabile, i miserabili Pol e Pot aspettano la fine in una baracca immaginata nelle rovine di un rifugio antiatomico, impegnati a districarsi con una quotidianità “conclusiva”: a loro si aggiunge la raffigurazione in carne ed ossa della Morte, nei panni di un Totò redivivo, menagramo, sopraggiunto impugnando una minacciosa falce, e il Supino, da parte sua ritenuto eterno, immortale, incapace però di evitare l’Apocalisse che – citata – appare sempre più incombente.
Sulla carta – anzi, sul palcoscenico – una storia “lunare”, assurda e coerente alla tradizione ispiratrice, con “reperti” umani di un contesto al di fuori di ogni sviluppo cronologico di passato, presente e futuro, organizzati simbolicamente per resuscitare la forza della vitalità umana nella propria veridicità, antagonista – seppure con mezzi in campo molto deboli – delle necessità imposte dalla medesima natura come esigenze fondamentali e con una leggerezza caratteristica delle cose essenziali. Se non fosse che, per l’intera durata di novanta minuti (l’arco di una partita…), Branciaroli & Co. abbiano, contro ogni pronostico, offerto un’unica ed esclusiva carrellata di parole scelte nel turpiloquio di tre differenti vocabolari dialettali: il fiorentino di Pagliai, il romanesco di Donadoni, il napoletano di Branciaroli.
Ora, mi rendo conto di quanto, ai tempi del bus scolastico diretto al teatro, la trasgressione verbale possedesse un valore di “rottura”, e anche se sulla scena raramente entrava, comunque andasse considerata e rispettata in una qualità eminentemente eversiva. Ma, di recente, commentando l’idioletto quotidiano, il semiologo Paolo Fabbri ha scritto: “Tendete l’orecchio e arrivano: oscene, volgari, sporche, spinte, crude, indecorose, scurrili, empie, villane, triviali e via disdicendo. Soprattutto l’epiteto, che in origine aveva il senso di un “additivo” linguistico, è diventato, per antonomasia, l’ingiuria affibbiata ad un nome. L’antiprotocollo, già parassita delle buone regole, è ormai diventato una formula codificata nell’universo semantico turbolento della Malalingua”.
Dunque, perplessa, non so in quale “ordine del discorso” Branciaroli si sia inserito per pensare di mantenere drammaturgicamente valida una spinta d’urto diretta alla convenzione da tutti aborrita, continuando ripetutamente a insultarne la forma. Dopo un quarto d’ora, gli spettatori sembravano abituati, magari un po’ affaticati, a sentir pronunciate, anzi elencate, le varietà verbali, anatomiche, riproduttive e fisiologiche, studiate da Fabbri. Tutt’altro che spinti alla rivolta contro la forma omicida della nostra forza naturale, l’atmosfera diffusa in platea era di spontanea noia. Quasi a dire: è sufficiente, ormai chiaro, la partita è già stata giocata! A forza di oltrepassarne i limiti imposti, è come se non ci fosse mai stata. In altre parole, citando ancora Fabbri: “Un elenco dapprima ghiotto – una gaia coprolalia – diviene poi sempre più ridondante e infine depressivo, uno sbracamento totale”. Va bene, può darsi qualcuno creda – ma, ahimè, penso si illuda – di continuare a sfondare porte spalancate. Certo, nell’ambito della poesia, è abbastanza difficile credere in una simile possibilità: ma nulla, nell’arte e nel teatro in primis, va negato aprioristicamente.
Complimenti al vitalissimo Gianrico Tedeschi e alla vecchiaia realistica di Ugo Pagliai, che finalmente – per interposta persona – ho potuto apprezzare in scena. Uscendo, non ho cercato il pullman: all’epoca, tra le quinte o sui banchi, le parole trasgressive (le “parolacce” di una volta) avevano ancora una funzione alternativa. Dunque, giunta l’ora di cena, è stato meglio tornare a casa tranquillamente in macchina.
Dipartita finale
testo e regia Franco Branciaroli
con Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli, Maurizio Donadoni, Sebastiano Bottari
scene Margherita Palli, luci Gigi Saccomandi
produzione Teatro Stabile di Brescia e Teatro de Gli Incamminati