Fabio SARGENTINI- Ci vediamo in Galleria. Arte da ardere (all’Attico di Roma)

 

Ci vediamo in Galleria

 

 

ARTE NON DA ARDERE

Il tratto distintivo di questa mostra (all’Attiico di Roma) è l’adozione del legno come materia prima da parte di tutti gli artisti partecipanti. Il tema non ha pretese di originalità, è il titolo che lo rende più stuzzichevole: Arte non da ardere. Aggiungendo un punto esclamativo può esser letto come un‘intimazione: non azzardatevi ad arderla

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Ogni pezzo (esposto) ha la sua storia.

La mostra si apre con uno sportello di “granaio africano”. E’ un oggetto d’uso comune presso l’etnia Dogon in Mali, ma è anche un’opera d’arte in quanto portatore di un’immagine simbolica possente. Io lo espongo incassato a filo del muro per non tradire la sua collocazione originaria. Lo comprai a Parigi trent’anni fa da un antiquario di arte primitiva di rue de Seine con i franchi che m’erano rimasti in tasca prima di ripartire. Al volo li commutai con quello “sportello di granaio dalle tette puntute” che mi aveva attirato in vetrina. In taxi verso la Gare de Lyon e poi sulla banchina del treno, con la valigia in una mano e lo sportello abbracciato al petto, ne sento ancora la mammaria durezza sul costato, ancorché felice del suo possesso.

“ Meteora”di Nunzio è del 1986, anno cruciale per lo scultore. La serie dei gessi, con cui aveva esordito tre anni prima con successo, andava ormai esaurendosi. Bisognava sperimentare altri materiali, altri procedimenti. In quel periodo eravamo a Parigi per il Festival d’Automne dove Nunzio e Pizzi erano stati invitati. Consigliai caldamente a Nunzio di andare a vedere il Musée de l’Homme. Conoscevo la collezione d’arte negra del museo e sapevo che avrebbe tratto profitto dalla visita. Fu così che il legno, e poi il piombo, presero nel suo lavoro il posto del gesso. Meteora appartiene precisamente a quel periodo. E’ una scultura che non sta sulla parete come le sculture di gesso, tutte sospette salamandre. Invade altresì lo spazio circostante, a un passo dal tutto tondo, ma ancora esige una protezione parietale dietro di sé. La sua forma larga e puntuta che richiama uno scudo, ricorrente in Nunzio, è infissa orgogliosamente nella base al suolo in un equilibrio stupefacente. Sulla sua superficie si colgono tuttora tracce pittoriche ad abbellirla che spariranno nelle sculture combuste.

Di Hidetoshi Nagasawa espongo Pastorale del 1974 che raffigura un bastone a bassorilievo. In tanti anni non mi sono mai separato da lui. Per me è un lui questo bastone, un compagno di strada. Negli anni ’90 ero in Giappone assieme ad Hidetoshi che esponeva al museo di Mito e io prestavo alcune sculture. La sera dell’inaugurazione, al tavolo della cena, il critico giapponese Minemura, mio dirimpettaio, mi chiese a bruciapelo: “Terrai con te la piroga, la porta e il bastone di Nagasawa per tutta la vita?”. Una domanda che mi colse alla sprovvista e alla quale trovo risposta soltanto oggi. Ebbene sì, le tre sculture sono ancora con me. E me le tengo strette!

Il trittico di Pizzi Cannella del 1991 fa parte di una serie irripetibile di dipinti su tavola, circa una quindicina, realizzata in due settimane di furore creativo. Era accaduto questo: Pizzi, ossessionato dalle riprese aeree televisive della Guerra del Golfo, aveva deposto temporaneamente il pennello e si era inventato un approccio di tipo indiretto al quadro. Visitando il suo studio quelle opere non mi parlavano. Glielo dissi con la franchezza in uso fra noi. C’era però un nodo non piccolo da sciogliere: la sua personale a L’Attico era già stata annunciata. Dunque, che fare? La mattina dopo gli telefonai: “Pizzi stanotte ho fatto un sogno. L’Attico era gremito di dipinti con i tuoi vestiti da una stanza all’altra…”. Detto fatto. Pizzi, sfidato, scende in campo e al posto della tela sceglie la tavola, superficie dove la pittura ad olio si asciuga rapidamente. Il suo procedere è sparato, cinico, ispirato, e in un paio di settimane il gioco è fatto, la mostra è pronta. A distanza di venticinque anni questo trittico si conferma frutto di un momento di grazia.

Almeno due motivi mi hanno spinto a inserire Balkenhol nella mostra. Il primo, ovvio, è stata la sua valentìa nel trattare il legno che impiega in quasi tutte le sue creazioni. Il secondo, si trattava di un nome inedito per L’Attico e di livello internazionale. L’approccio che ha Balkenhol con il legno è sprezzante, antimanieristico. Un po’ come accade al suo connazionale Baselitz con le teste scolpite in legno. Scuola tedesca espressionista che è altra da quella altoatesina levigata dei Demetz. L’intento di Balkenhol è ottenere una superficie lignea accidentata, con le scaglie in vista ma pur sempre pittorica. Come in questo quadro di figura in mostra, dove un volto maschile sgrana gli occhi tra due quinte nere come si domandasse: “In quale galleria sono capitato?”.

Mi affascinava l’idea di una tigre del Bengala sul palcoscenico del teatrino. Quando Puxeddu mi mise a parte che aveva in mente di scolpirla, l’ho appoggiato all’istante. L’ho anche consigliato di affiancare alla tigre un tigrotto per sottrarsi a una fissità di statua e dare l’illusione che i due attraversassero il palcoscenico. Perciò cocente è stata la delusione quando abbiamo preso atto entrambi che il lavoro era troppo indietro rispetto all’imminenza della mostra. Così a corto di tempo che fare? Mi sono detto: “E se l’Anaconda di Puxeddu, esposta due anni fa alla mostra Serpentopoli strisciante al suolo davanti al quadro di Colazzo, si catapultasse stavolta dall’alto di una parete bianca laterale nel teatrino nero?”. Alé, la soluzione di ricambio era trovata, altrettanto spettacolare delle due fiere in fieri.

A questo punto tutti i pezzi erano andati al loro posto, come i dadi di legno di quei giochi a incastro di una volta che svelano il disegno. Il disegno della mostra.

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