Francesco TOZZA- Parole sofferte…(“Mari” di Tino Caspanello, di scena a Salerno)

 

 

Il mestiere del critico

 

 

PAROLE SOFFERTE

Per una drammaturgia del silenzio


Mari di e con Tino Caspanello

E con Cinzia Muscolino. Regia di Tino Caspanello- per Mutaverso Teatro (Prima stagione), a cura di Vincenzo Albano. Piccolo Teatro del Giullare, Salerno

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Sembra conclusa ormai, o in via di esaurimento, l’età dei fondamentalismi, a teatro almeno: qui erano schierati, fino a non poco tempo fa e in irriducibile opposizione (gli uni contro gli altri armati!), da un lato, i difensori della c.d. tradizione, cioè del testo teatrale o drammaturgia tout court, giudicata autonomamente consistente, pur se votata alla (comunque solo eventuale) messa in scena; dall’altro lato, i difensori dell’indipendenza (relativa, quando non assoluta) dell’evento scenico, cioè del teatro in senso stretto, da considerare per nulla necessitato da una precostituita letteratura ad hoc, in omaggio ad una neodrammaturgia dello spazio o, più ancora, del corpo (e non della sola voce) dell’attore, non più desunta soltanto dalla pagina scritta, peraltro in analitica  simbiosi, più o meno felice, con gli altri linguaggi artistici: simbiosi tutta da sperimentare in ogni caso, e ampiamente sperimentata, dentro e fuori dagli antichi luoghi deputati.

Si è trattato di una furiosa battaglia, condotta a colpi di ontologie e ideologismi vari, che ha registrato sul campo feriti e morti…: quanti testi (spesso inutilmente) dilaniati, o semplicemente negati alla rappresentazione, in virtù di sperimentalismi in linea teorica sempre comprensibili, spesso però non proprio riusciti e tutt’altro che accattivanti nei risultati! Ma, anche, quante pretestuose riproposte, soprattutto negli ultimi tempi, per quello che è stato un vero e proprio ritorno all’ordine, anche nello specifico, con improvvise e inaspettate conversioni, immotivati quanto deludenti passaggi (da parte di autori, registi, nonché di critici e operatori teatrali in genere), dal secondo e più bellicoso fronte  al primo, per ovvi motivi più tranquillo, in quanto fermo nelle sue consolidate, vecchie posizioni; senza che le esperienze fatte, nel frattempo, giovassero agli uni e agli altri, per una più saggia e movimentata continuità.

Di questo – e di altro ancora (ma dietro le quinte del discorso c’era sempre quel che ci piace chiamare il fantasma della libertà creativa) – si è parlato nell’interessante incontro con cui si è aperta in quel di Salerno – sottovoce…, come sempre avviene per le cose di vero rilievo, per nulla assordanti! – una nuova rassegna di proposte teatrali, a cura di Vincenzo Albano. Il quale – ad onor del vero – già di recente aveva efficacemente offerto, in città, assaggi di una diversa distribuzione nel settore, fondata su giovani compagnie o comunque formazioni emergenti: ovviamente emergenti non certo a livello locale, per non cadere nel semplice inventario o nella pur necessaria (ma certamente non esclusivizzante) valorizzazione dell’esistente nel territorio (salernitano e ormai anche napoletano), alla quale troppo spesso, negli ultimi tempi, hanno finito qui coll’essere ricondotti i tentativi di offerte alternative ai c. d. cartelloni ufficiali della prosa.

Si tratta – sia detto per inciso – di una rassegna ben più nutrita delle sue precedenti, aspirante nel tempo ad una sostanziale  continuità; non a caso al curatore non piace il termine rassegna (di corto respiro e non proprio di buon augurio, in una realtà che di rassegne ne ha contate, nei casi migliori, meno di quante sono le dita di una mano o poche di più); per cui noi gli auguriamo che – con il suo Mutaverso Teatro (titolo di assai chiari propositi per un ben intenzionato distributore) – si avvii davvero, questa volta, una nuova stagione dell’offerta teatrale a Salerno, non dimenticando però, per quanto detto poco sopra, la lezione della storia, più o meno recente, qui e altrove, che porta a guardar con sospetto ogni ontologia, nell’ormai acclarato e indispensabile rispetto dei teatri, non dell’unico quanto improbabile Teatro.

L’incontro inaugurale, cui poco sopra si accennava, era tutto cucito addosso, per così dire, al primo ospite della rassegna (o stagione…che dir si voglia!): Tino Caspanello, drammaturgo messinese, per la prima volta approdato sui nostri lidi teatrali, ma già sulla breccia – del teatro ‘marginale’, ovviamente, e in piazze ‘alternative’, come Santarcangelo e Castrovillari – da circa un decennio; tanto è vero che qui si presentava il terzo volume dei suoi lavori pubblicati (“Polittico del silenzio” per Editoria&Spettacolo, presente l’editore, accanto ad un giovane critico, Vincenza Di Vita e al direttore di “Scene contemporanee”, Franco Cappuccio).

Gli interventi erano tutti – manco a dirlo – una rinnovata esaltazione della drammaturgia tradizionalmente intesa, in alcuni casi della parola incisa sulla pagina scritta, cui tornava a riconoscersi vita autonoma, fuori e indipendentemente dalle tavole del palcoscenico: eco di passati conflitti, fortunatamente ora con toni assai più pacati, su cui ha avuto facile gioco non solo – o non tanto – l’intervento riequilibratore del sottoscritto, di cui è traccia all’inizio di quest’articolo, quanto il punto di vista sommessamente espresso dallo stesso Caspanello, autore ma anche attore per i suoi testi. A  proposito dei quali, ha messo in rilievo l’imprescindibile ruolo della messa in scena, grazie alla quale soltanto è possibile cogliere la schiettezza, il fascino (aggiungiamo noi) e la rilevanza specifica, altrimenti sfuggenti, di una scrittura drammaturgica creatrice di atmosfere che solo i ritmi di un’adeguata recitazione, nel tempo del palcoscenico, assai diverso da quello della semplice lettura, possono offrire.

Del rilievo della scrittura scenica, senza nulla togliere (la guerra è finita!) alla libera fruizione del testo, da parte di quello che peraltro resta il suo primo regista, cioè il lettore, Caspanello ha dato una formidabile testimonianza, forse aldilà delle sue stesse intenzioni, quando – assieme all’ottima, davvero straordinaria, Cinzia Muscolino – ha offerto alla vita della concreta interpretazione uno splendido lacerto del suo più recente “Kyrie”: dramma dell’incomunicabilità, o della difficile comunicazione, all’interno della coppia, cui sembrava approdare l’eco lontana di certo Pinter o delle Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. A riprova che certi temi di portata universale, varcato ormai lo Stretto, sono scesi nell’isola, per poi risalire in quello che una volta si chiamava il continente, magari intrisi da quella ‘metafisica del dolore’ che qui, per lunga tradizione, ne costituisce la cifra essenziale.

Ancora più intensamente quella testimonianza veniva offerta, la sera successiva, allorché, con gli stessi attori, veniva pienamente messa in scena un’altra delle preziose scritture di Caspanello, Mari: un dialogo notturno, in riva al mare appunto, di agghiacciante e, al contempo, sublime essenzialità, fra un uomo che, in estrema solitudine, svogliatamente si è messo a pescare (e continua a farlo), e una donna, la sua compagna, che esitante l’ha raggiunto, quasi a soffocare una evidente crisi della presenza, tentando timidamente, a più riprese, di ravvivare un rapporto fatto di poche parole, di assai più loquaci pause e imbarazzati silenzi, mentre ad alimentarlo, forse, basterebbe qualche gesto, anche uno solo, come quello finale, in cui l’uomo, inginocchiato accanto alla donna, la invita a tuccari u mari. E lei che fino a quel momento era rimasta come ferita da quei silenzi, da quelle quasi infastidite parole di lui, dichiarando con melanconica rassegnazione che non n’avemu paroli piddiri chiddu chi pinzamu (Parramu, parramu e ittamu sulu aria), aderisce all’emblematico invito, e in quel tendere le mani, insieme, verso il mare, si consuma un amore pudico, sottaciuto, altrimenti inespresso.

L’insufficienza della parola per esprimere il pensiero; la maggiore eloquenza delle pause, dei silenzi, degli sguardi; il ruolo efficace del canto (ed è già canto il musicalissimo dialetto messinese in cui i due si esprimono); l’importanza decisiva del gesto: forse non si poteva meglio, o più di quanto abbia saputo fare questo straordinario Antonioni dei poveri cristi (così ci piace definirlo), confermare la sofferenza della parola e l’imprescindibile bisogno della scena, per quella che resta, ahimè anche nella vita, una drammaturgia del silenzio

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