Il mestiere del critico
VERONIKA, OVVERO TOTEM E TABU’
Con Ti regalo la mia morte, Veronika, Antonio Latella rivisita il film Veronika Voss di Fassbinder, tra ossessione, tradimento e morte sacrificale.
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Avrei trascorso una serata al Teatro Argentina di Roma dedicata a un artista considerato all’avanguardia nell’ideazione e realizzazione di singolari messinscene, intessute di esperienze italiane e tedesche. Dunque, entrando, sentivo di essere propensa e non certo rassegnata – è una disposizione d’animo piacevole – a investire un paio d’ore (nessun intervallo) nel massimo impegno di me stessa, incentrato su quanto Antonio Latella sarebbe riuscito a comunicare in una personale rivisitazione del film Veronika Voss (1982) di Rainer Werner Fassbinder. Dopo essermi documentata in una prospettiva scenografica di poetica tecnico- semantica, ero consapevole di non essere in procinto di fare i conti con la necessità – almeno in misura eccezionale – di confrontarmi con proposte alternative, o di rottura, riconducibili a “strutture” o “installazioni” dissacratorie e di natura indecifrabile: infatti, nelle numerose tappe progressive ricavate dagli ultimi decenni (e ancora indietro), in simile ambito, sospetto si sia esteticamente ottenuto quasi il massimo. Avrei avuto invece occasione di apprezzare una destrutturazione e ricomposizione della parole (nel termine francese di Saussure) interpretata dal creatore della pièce, in seguito pronunciata per noi, e dinanzi a noi, dai suoi collaboratori.
Prendere posto negli splendidi e riservati palchetti centrali del secondo ordine, in mezzo a un pubblico familiare, è sembrato quasi tornare a far parte di un ambiente per lo più formato da studiosi di drammaturgia di orientamento sperimentale, docenti e alunni, ben assortiti a un nutrito gruppo di fan di Antonio Latella, fedeli alla poetica dell’esperto narratore – di origini campane – affermato e stimato, con una lunga carriera alle spalle. Spettatori, in sostanza, di frequente lontani da debutti ufficiali e di grande richiamo, che immagino interessati, piuttosto, a performance essenziali e dialettiche. Essendo culturalmente cresciuta nell’epoca delle avanguardie storiche – non potrei dire europee, avendo conosciuto quelle italiane, giunte in una fase successiva – quantomeno nel periodo di exploit nelle nostre sale (locali off, cantine, tende da circo, palestre, conventi occupati, chiese dismesse, appartamenti privati), confidavo, di conseguenza, di essere pronta ad accettare anche, o soprattutto, eventi contrari alle aspettative implicite nell’attesa. Del resto, avevo visto e recensito, circa trentacinque anni orsono – con pochi mezzi interpretativi pre-confezionati, e al manifestarsi ex-novo di un fenomeno è abbastanza comprensibile – gli spettacoli, ad esempio, nel Metateatro di Pippo Di Marca, uno dei maestri della scuola romana (con cui ha lavorato Latella, nel passato da attore): tuttavia, alla fine, ogni volta uscivo avendo ricavato una gamma di informazioni, liberamente elaborata, relativa ai messaggi ricevuti.
Diversamente, per Ti regalo la mia morte, Veronika, con l’interpretazione di Monica Piseddu, le scene di Giuseppe Stellato e i costumi di Graziella Pepe, l’atto di parole al quale ero pronta a partecipare, si è verificato senza deludere alcuna mia prefigurazione simbolico-poetica, in realtà smentendola nel modo più drastico: trovandomi ad assistere a un lungo, continuo atto di parole secondario (ad eccezione del silenzio assoluto di qualche minuto dedicato alla preparazione di uno spinello), nel quale posto per me, per noi che la accoglievamo, non era previsto ci fosse.
Niente di spiazzante, quando, a luci accese – e ancora si accomodano i ritardatari – senza alcun segnale di preavviso, Veronika Voss occupa la scena, in leggero soprabito rosso, magrissima, neri capelli lisci. “Aiutatemi!”, grida alla platea, “Aiutatemi a regalarvi la mia morte”. Anzi, risuona appunto confermata la richiesta di un coinvolgimento dei presenti, ad opera degli interpreti, nonché dell’autore del colloquio e incessante scambio di idee (tra loro) sul tema straziante della droga, sul doppio cinematografico e psicanalitico, sul divismo condizionato (con un preciso riferimento al nazismo): insieme, ingredienti assortiti e contrapposti, su cui avanza e delibera l’intero spettacolo. Insomma, una mise en scène di ricerca, in atto.
Ma in effetti, dietro la protagonista Veronika – dividendo il palcoscenico in senso orizzontale, due file di sedili da sala cinematografica, e lungo la ribalta un binario per le carrellate alla cui estremità è sistemata una macchina da presa – nell’attualità vissuta in un contesto del genere, si collocavano da una parte gli spettatori a riflettere ognuno per conto proprio sul “doppio” attore-interprete, su finzione-verità, amore e tradimento, sulla droga e sulla morte; dall’altra, la sventurata ex-diva, morfinomane, circondata da sei quadrumani bianchi, alcune figure in borghese a far da “ombristi”, e l’amato Robert, il giornalista sportivo, “personaggio” salito sul palco proveniente dal ridotto, a elaborare un personalissimo dramma di essere-apparire (“Come si entra in un film?”).
Un teatro di affermazione, e non di colloquio. Siamo insomma immersi in una proiezione ossessiva, nel superamento del tabù originario con una sorta di totem sotto forma di compensazione: i gioielli, invocati di continuo dalla donna-vittima sacrificale allo scopo di incoraggiarne l’acquisto, poi il mitico vaso, menzionato a intervalli costanti. Ma il totem per eccellenza di Antonio Latella, e della sua compagnia di sopravvissuti al rito votivo di buon auspicio, purtroppo si frantuma, e la soppressione originaria di Veronika, per questo uccisa, viene compromessa. La sua forza si trasferisce agli scimmioni, ai cavalli (“Sono come gli attori. Hanno entrambi bisogno di un paraocchi per arrivare al traguardo”), al carrello in movimento reiterato, riprendendo nulla di visibile, al sesso reiterato con scambi di donne (tra Veronika e la giovane Henrietta, fidanzata del giornalista). Mentre il telefono squilla, si continua a parlare, e non sappiamo se le affermazioni ascoltate siano il contenuto della telefonata oppure l’avviso che il dialogo in atto sia sempre in arrivo.
Quando Veronika si siede, dunque, pronta a visionare il film, afferma: “Io non recito più nessuna parte. Questa parte non è stata scritta per me”. Percepisce, avverte con dolore che il copione è stato composto per i suoi eredi, per chi le è ormai sopravvissuto dopo il sacrificio: citati insieme, a caso, gli ebrei, gli spacciatori, i medici assassini, le lobby dei produttori corrotti, le squadre di calcio vittoriose grazie al doping, i criminali nazisti. Dove sono, si chiede Veronika, le locandine, le note di regia, i titoli di testa? A disturbarla, in un contrappunto rapido e inesorabile, ecco il fuori campo di una insistente radiocronaca dall’ippodromo, dove il cronista Robert Krohn è costretto a descrivere l’abbattimento di un cavallo drogato.
Non c’è niente per te, Veronika: il tuo essere, la voglia di vivere, le passioni, sono state assimilate e digerite da chi ti ha ridotto alla cruda dipendenza, alla morte dell’anima, alimentandosi di questo. Sono stati persuasivi: sei morta, non devi più soffrire, sei in un film e, se questo non dovesse bastare a consolarti, lasciando trapelare un’ipotetica resuscitazione, concordano: “Sì, siamo in un film, ma prima o poi ne usciamo”. Ciò nonostante quando, inserita in un gioco linguistico ingannevole, chiedi ansiosa: “Allora fammi uscire”, la risposta non può non essere: “Prima dobbiamo arrivare alla fine”.
Dal fondo giungono sei scimmioni bianchi con microfono in mano: appollaiati sulle sedie, intorno a Veronika, si esibiscono in una sorta di radiocronaca di tale dinamica. Con voce stentorea descrivono, in sequenza, le vicende passate sullo schermo e gli avvenimenti in platea: la descrizione della pellicola di Fassbinder è ritmata dalla punteggiatura, rilevata con accenti paranoici (“Entra in stanza. Punto. Va verso il tavolo. Punto. Prende un bicchiere. Punto”). Alternandosi, i gorilla osservano: “La punteggiatura è importante. Con la punteggiatura si fa il montaggio di un pensiero”. Con il medesimo meccanismo di distruzione totemica e il conseguente potenziamento del soggetto, si assiste così alla resurrezione in chiave scenica delle ironie che un tempo accompagnarono i maestri del nouveau roman e in particolare Alain Robbe-Grillet, fino alla parodia che ne fece Umberto Eco (“Dall’angolo alla tavola vi sono sei passi. Dalla tavola al muro di fondo vi sono cinque passi. Di fronte alla tavola si apre una porta”).
Nella penultima scena, rimasta sola a dialogare con gli oggetti (una teiera, un cucchiaio, una tazzina), Veronika si rivolge a Fassbinder: “Ti regalo la mia morte, non sei contento?”. A dire il vero, sin dalla battuta iniziale, vorresti, con generosità commovente, regalarla persino a noi. Ma quando reclami il tuo sacrificio in divenire, sei stata da tempo “divorata”, assorbita nella linfa di quel bianchissimo e maestoso albero di ciliegio in fiore disceso solennemente al centro del palco, a introdurre i personaggi cechoviani del Giardino dei ciliegi, con crinoline di larghezza esorbitante e un incessante, innaturale tamburellare di tacchi, quasi una piacevole melodia ritmata di accompagnamento. Ne sei conscia quando, con soddisfazione, accogli la merenda apparecchiata sul prato: “Adoro il realismo. Almeno si mangia…”. È giusto condividere un pensiero analogo, tuo e dell’autore regista: “mangiando” il passato, in primis chi comanda nei giorni trascorsi, si conquista il futuro, perché senza dubbio, nell’hic et nunc della scomparsa, è fatale che qualcuno abbia già divorato la nostra esperienza e l’abbia moltiplicata, e così via all’infinito.
L’arte è eterna, e tu Veronika, con la tua morte “regalata”, con l’immolazione totemica celebrata da Antonio Latella, non morirai mai. Esplode un colpo di pistola. “Punto!”.
Il pubblico applaude compatto, e lentamente, con loro, lascio l’edificio, pensando però che, la prossima volta, quando verrò invitata a teatro per restare simbolicamente muta, giustamente incapace di influire con condivisione o rifiuto sullo sviluppo di un’ossessione, il superamento del tabù e la conquista del totem, divenuti rappresentazione artistica, ebbene, vorrei essere avvisata. Così, se frequentassi uno psicanalista, lo commenterei con lui. Nell’assistere a Ti regalo la mia morte, Veronika, al fine di alimentarne un ricordo costruttivo, credo infatti che l’esemplificazione di un messaggio, legato alla psicanalisi di Sigmund Freud e quindi alla psico-critica di Charles Mauron, sarebbe di aiuto.
L’altra sera, a sipario tirato, ho potuto solamente appellarmi alla protezione delle Muse, di quelle tre il cui nome campeggia sul fronte alto dell’Argentina: “Alle arti di Melpomene, d’Euterpe e di Tersicore”. Del resto, da quando venne costruita la facciata, quasi duecento anni fa, le tre insigni figure mitologiche sono lì, per aiutare tutti noi.
Ti regalo la mia morte, Veronika
tratto dal film Veronika Voss di Rainer Werner Fassbinder
regia Antonio Latella
traduzione e adattamento di Antonio Latella e Federico Bellini
con Monica Piseddu, Valentina Acca, Massimo Arbarello, Fabio Bellitti, Caterina Carpio, Sebastiano Di Bella, Estelle Franco, Nicole Kehrberger, Fabio Pasquini, Annibale Pavone, Maurizio Rippa
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe, musiche Franco Visioli, luci Simone de Angelis, ombre alTREtracce
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione nell’ambito di Progetto Prospero