Francesco TOZZA- Fascinazione barocca, sterile narcisismo (“Vita di Galileo”, edizione G. Lavia)

 

Il mestiere del critico


 

FASCINAZIONE BAROCCA, STERILE NARCISISMO

Vita di Galileo, Gabriele Lavia, Ludovica Apollonj Ghetti, foto di Tommaso Le Pera

Vita di Galileo di Bertolt Brecht  Interpretazione e regia di Gabriele Lavia

Teatro Carignano, Torino

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In un intervallo fra alcuni spettacoli del Vie Festival, visti tra Bologna e Modena (con un salutare tuffo nel contemporaneo, che la ben nota kermesse emiliana, pur con qualche limite o contraddizione, comunque validamente consente), ci ha punto vaghezza di rivedere, e riascoltare, il vecchio B.B. (come si diceva una volta!), ormai in evidente e ingiusto ostracismo dalle scene italiane (e non solo da quelle, sembra): espressione, anche questa, dell’estrema ignoranza dei nostri tempi (ampiamente ideologizzati, per non dire fondamentalisti, benché si ritenga il contrario!), capaci di dimenticare uno dei grandi maestri del teatro del ‘900, con la scusa del suo ormai desueto credo politico (il marxismo), che peraltro fede assoluta non fu mai, quanto piuttosto – e più propriamente – tenace, convinta opera di battaglia politica (questo sì!), comunque intrisa di evidenti succhi problematici, condotta in ogni caso con le armi di un originale linguaggio artistico, nello specifico teatrale davvero dirompente rispetto ad inveterate tradizioni; al punto da rendere insostenibile l’attuale amnesia.

Siamo andati, dunque, a Torino, al Carignano, per assistere, a due passi dal Mueo Egizio….,  alla faraonica produzione dello Stabile torinese, in simbiosi con lo Stabile della Toscana (entrambi ormai Teatri Nazionali): Vita di Galileo, del grande drammaturgo di Augusta, nell’interpretazione di Gabriele Lavia con ventisei altri attori (più tre musicisti dal vivo), e uno stuolo di efficaci collaboratori per luci, scene e costumi. Una produzione, quindi, di notevole impegno, che richiamava alla memoria, nello stesso suo attuale e principale responsabile, il ricordo di un’ormai celebre, e celebrata, edizione del capolavoro brechtiano, messa in scena da Giorgio Strehler nell’ormai lontano 1963, per l’interpretazione di Tino Buazzelli. Sembra che quello spettacolo, a detta dello stesso Lavia, colpì talmente la sua immaginazione da indurlo irresistibilmente a percorrere, in via definitiva, la perigliosa strada (come si diceva un tempo) della carriera teatrale. Visti però gli attuali esiti, sembra potersi dire che il non più giovanissimo Lavia (certo ottimo attore di tradizione, forse – ma a nostro avviso soltanto – meno convincente regista) non abbia colto, e comunque non abbia fatto propria, la lezione di re Giorgio; tanto meno quella del grande Bertolt.

Non staremo qui certo a farci paladini di una pretesa ortodossia brechtiana (!), responsabile a suo tempo di tanti fraintendimenti del pensiero critico e della stessa metodologia teatrale del grande drammaturgo. Tanto meno giudicheremo in base ai sempre sterili paragoni; peraltro nocivi, ingenerosi e ingiusti. In tempi di piena libertà interpretativa, magari in omaggio alla ben nota contaminazione fra i generi (che molto spesso, tuttavia, è solo poco plausibile o immmotivata confusione), non saremo certo noi a rimproverare a Lavia troppo audaci tradimenti o palesi tracce di inferiorità rispetto a pretesi modelli. L’edizione di Strehler, per dirne una, la vedemmo anche noi, in età adolescenziale: ci entusiasmammo (come facilmente avveniva, in tempi di impetuoso brechtismo), anche se, col senno e le esperienze successive, alla luce di certe, apparentemente più fredde ma più convincenti messe in scena di opere brechtiane, per esempio da parte del Berliner Ensemble, essa ci sembrò meno plausibile di altre regie del grande fondatore del Piccolo di Milano. E tuttavia non ce ne avvaliamo per stigmatizzare l’attuale versione di Lavia: fascinosa a tratti (solo a tratti!) nella dimensione barocca data al testo, che tuttavia sembra sopportarla assai poco, intriso com’è di un lirismo purissimo (anche se si vuol mettere da parte ogni straniamento causato, per esempio, dagli interventi musicali, a tale scopo notoriamente previsti): lirismo sublime, sfuggito forse allo stesso autore, con tracce di amara saggezza, quanto mai attuale oggi, se solo si pensa alle sempre imperanti forme di testarda ignoranza scientifica e di piatto conformismo.

Tracce alle quali non fa certo giustizia il registro, quasi sempre grottesco, che Lavia impone alla sua recitazione, quando non cede all’altro limite del suo comportamento scenico, qui – si direbbe – di marca tardo-ottocentesca, incline al gesto ridondante, ad una vocalità mattatoriale; quanto poco consona ad un Brecht, se pure liberamente interpretato, è facile immaginare. Di cattivo gusto addirittura – sempre a nostro avviso ovviamente – il finale del primo tempo: la scelta barocca, di cui più sopra si diceva, trova qui il suo punto culminante, pervenendo ad atmosfere desimoniane assai poco pertinenti alla struttura drammaturgica in questione; seducendo, forse, gli adoratori della spettacolarizzazione a tutti i costi; scandalizzando, probabilmente, i custodi del pur onorevole e a suo tempo onorato, teatro epico; semplicemente deludendo e/o annoiando molti altri, costretti loro malgrado, a fughe precipitose, furtive ma liberatorie, nell’unico intervallo previsto dal lungo e assai poco simolante tour de force. Povero B.B.; meritava un avvenir migliore!

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