Francesco TOZZA- Non c’è pietas… (Teatro a Napoli: Antonio Latella, Saverio La Ruina)


Il mestiere del critico

NON C E PIETAS…..

Foto di Brunella Giolivo

Foto di Brunella Giolivo

“C’è del pianto in queste lacrime”
drammaturgia di Linda Dalisi e Antonio Latella
regia di A. Latella – Teatro S. Ferdinando, Napoli

“Polvere” di Saverio La Ruina
con S. La Ruina e Cecilia Foti – Galleria Toledo, Napoli

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E’ tornata al San Ferdinando (dove era già stata nell’edizione 2012 del NTF) la lettura della sceneggiata napoletana, offerta da Antonio Latella, con il contributo drammaturgico di Linda Dalisi, in uno spettacolo che non avevamo visto a suo tempo (non è possibile seguire tutto, nella fin troppo densa kermesse festivaliera!); per cui, da estimatori in genere del regista stabiese, ci siamo affrettati a colmare la lacuna. Diciamo subito che di Latella ci sono piaciute, anche di recente (e lo abbiamo scritto), molte cose: l’intelligente e fascinoso Eduardo di Natale in casa Cupiello, per dirne una, ma anche le travolgenti Benevole di J. Littell (con la Schauspielhaus di Vienna, da lui diretta) o l’originale, accattivante Goldoni del Servitore di due padroni; e l’elenco potrebbe anche continuare, perché il Nostro, ogni anno, lavora molto, forse anche troppo…, e gli effetti, forse, non tardano a farsi sentire!

Questa volta, per esempio, e spiace dirlo, lo spettacolo non ci ha convinto per niente; anzi, ad esser franchi (chi più di noi, che lo siamo di nome e di fatto!) ci è parso spocchioso, arrogante, non felicemente arbitrario (e la creatività, invece, può esserlo, scavalcando regole usurate e ingenue aspettative); infine anche brutto, inutilmente ripetitivo (l’iterazione – Latella lo sa – può diventare invece un intrigante stilema), in definitiva noioso.

Troppo facile, innanzi tutto, liquidare un genere assai contraddittorio e complesso come la sceneggiata; lo si dice non certo per difesa d’ufficio o solidarietà al settore (proprio noi che con la napoletaneità, provenendo peraltro da diversi lidi, abbiamo fatto i conti in tempi non sospetti, senza infierire però, e con quella pietas che accompagna sempre le ragionevoli polemiche e la reale conoscenza dei fenomeni). Ma il problema non è nemmeno questo. Non essendo il palcoscenico un luogo da adibire a discussioni socio-antropologiche (anche se una certa qual tendenza in proposito l’abbiamo riscontrata nelle note del programma di sala, con qualche svarione…, un certo fondamendalismo in superfice e, forse, anche un qualche spirito di rivalsa verso una tradizione e i suoi non sempre illustri rappresentanti, facili purtroppo – è innegabile – all’ostracismo verso chi non ne accetta conformisticamente i dettami), quel che conta, in definitiva, è lo snodarsi della scrittura scenica.

La quale, nel caso specifico, è sembrata sovraccarica di rinvii e simbologie, assai di rado risolte e molto spesso immotivatamente gratuite. Una sceneggiata… sui generis anche questa, con personaggi/insetti, metafora kafkiana di un’umanità mostruosa, senza coscienza, in fondo assai poco probabile in un milieu con assai più tragiche identità e ben più colpevoli burattinai alle sue spalle; con un tenero (questo sì) Edward mani di forbice (allusione al grande Eduardo?) che, nella sua solitudine (sempre in basso, ai piedi del sovrapposto palcoscenico) e pur con la sua diversità, non riesce a creare un universo autenticamente poetico. Una sceneggiata che, comunque, a livello rappresentativo, non risolve gli spunti polemici, li inasprisce soltanto, solidificandoli in reiterati, impietosi ma assai poco creativi stilemi scenici.

Verrebbe da rimpiangere, se non proprio le vecchie sceneggiate della Cafiero-Fumo, cui non abbiamo potuto assistere per motivi anagrafici, o le assai più recenti (ma anche più edulcorate) performances di Mario Merola, snobbate quasi sempre, ma forse non sempre a ragione, anche da noi, le assai più creative letture che del genere – negli ormai lontani anni ’70 (non così lontani da non potervi assistere, giovane fra i giovani sostenitori di quella inarrivabile stagione dello sperimentalismo teatrale) – seppe dare il grande Leo De Berardinis, accanto alla indimenticabile Perla Peragallo: un mix di jazz, cultura popolare, frammenti di recitazione straniata, visionarietà su palcoscenici quasi nudi; in definitiva i prodromi di quella contaminazione, più tardi magari fraintesa, comunque ormai abusata.

A risollevarci dalla – anche irritante – delusione (il teatro delude – è bene dirlo – piuttosto spesso, almeno chi ne ha visto forse troppo….e si crea eccessive aspettative!) c’è stato per fortuna, qualche giorno dopo, Saverio La Ruina, vecchia, cara conoscenza, che abbiamo seguito fin dai primi suoi passi teatrali, questa volta passato a Galleria Toledo con il suo ultimo Polvere. Un piacere rivederlo ma anche una sorpresa, nel constatare la sua capacità di rinnovarsi, di cambiare registro come attore, mutando anche la sua autorialità. Interrotti i sentieri del racconto popolare, rinunciando alla sublime, quasi commovente delicatezza con cui dava vita ai suoi personaggi femminili, offrendoci un meridione infelice e rassegnato, musicalissimo nella sua lingua, scolpito nella sua irripetibile e ormai perduta gestualità, Saverio ha volto ora il suo sguardo, quasi con la precisione di un entomologo, a differenti dinamiche dell’agire umano, quella – nello specifico – più recente e attuale della vita di coppia (per questo non è più solo in scena, ma con un’attrice, l’altrettanto brava Cecilia Foti).

Seguiamo così una relazione fra un lui e una lei sin dai primi momenti, quando già si innesca quella determinazione di esercitare il potere del maschio sulla femmina che si realizza però con sottili forme di controllo, con l’ossessione di conoscere ogni istante della vita dell’altra, sempre dietro ricatti affettivi e un’evidente fobia per la menzogna. Le modalità con cui La Ruina dipana l’ingranaggio del rapporto hanno del sorprendente, sembrano tratte dalle esperienze di un operatore dei c.d. centri antiviolenza. Interessante, soprattutto, l’operazione sul linguaggio: non più la magmaticità del lessico propria ai precedenti lavori, ma un italiano corrente, monocorde, piatto, pieno di frasi fatte e luoghi comuni; lo accompagna una recitazione a mezza voce leggermente e progressivamente insinuante, comunque inquisitoria, che comunica un senso di oppressione alla vittima ma in certo qual modo anche agli spettatori, che si rendono conto di quanto violenta possa essere l’aggressività psicologica e verbale, non meno di quella fisica.

L’attore si è tolto dal centro della scena, ma ha offerto un saggio di quel teatro di parola che recupera solo così il suo tradizionale potere di seduzione sullo spettatore, di convincimento e coinvolgimento nei suoi confronti, ma anche di riflessione da parte sua sulle più subdole manifestazioni  della sua vita intima, di cui spesso solo la finzione teatrale riesce a svelare la  terribile verità.        

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