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Anniversari

MONICELLI E IL TEATRO
nel centenario della nascita

Fotografie, video, recensioni, interviste, programmi di sala degli spettacoli diretti da Mario Monicelli

“Arsenico e vecchi merletti” foto di Tommaso Le Pera (1992/1993)
“Le relazioni pericolose” foto di Thomas Pfutzenreuter (1994/1995)
“Una bomba in ambasciata” foto di Federico Riva (1997/1998)

Vernissage giovedì 22 ottobre ore 17-Sala Colonne-Teatro Quirino
La mostra è aperta  tutti i giorni fino a domenica 1 novembre

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Una mattina di ventiquattro anni fa, mentre preparavo a tavolino la produzione di “Arsenico e vecchi merletti” ed ero alla ricerca di una soluzione affascinante per la regia, mi venne in mente: chiama Monicelli!
Mario il teatro lo aveva solo sfiorato e non ne aveva un gran ricordo: ma lo sviluppo e l’intrigo giallorosa di “Arsenico e vecchi merletti” erano perfetti per lui… E così chiamai uno dei più grandi registi del mondo per proporgli questa piacevole “fuga”. Mi rispose subito di si: Mario era così, con un’umiltà ed una tranquillità stupefacenti, senza fronzoli, accettò. Il lavoro fu piacevolissimo, artigianale, serio, duro, privo di manifestazioni affettive plateali, come piaceva a lui e come piace a me. Era un burbero Mario, ma onesto, univoco, chiaro, un toscanaccio inguaribile e per carità, senza mai dirlo, sono certo che sotto sotto, se lo meritavi, ti voleva bene.
Pensate a quel cast: Regina Bianchi, Isa Barzizza, Marina Suma, Gianfelice Imparato, Francesco De Rosa, Fulvio Falzarano, Giuliano Manetti, Oreste Valente, Orazio Stracuzzi ed io… Si divertì Mario e ci divertimmo tutti noi. Fu un successo straordinario, seguito poi da “Le relazioni pericolose” con Domenique Sanda e Laura Morante e “Una bomba in ambasciata” di Woody Allen con Carlo Croccolo, Isa Barzizza e Debora Caprioglio. Qui vogliamo ricordare il suo lavoro in teatro, la sua bravura e la sua onestà. Ma un episodio voglio raccontarlo: nel luglio dell’87 al Festival di Portovenere, alle 18,30 del giorno della prova Generale, mentre io e lui passeggiavamo sulla banchina del porto, Mario entrò di scatto in un negozietto uscì due minuti dopo con un costume da bagno comprato ed indossato all’istante e si gettò in acqua senza proferir parola nel porto di Portovenere. Così era Mario: forte, duro e serio, ma vivaddio sempre sorprendente.

Geppy Gleijeses

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Con solo quattro regie teatrali, una delle quali lontana nel tempo, contro una cinquantina di film, Mario Monicelli va certamente etichettato come regista cinematografico. Tuttavia il suo rapporto col teatro fu tutt’altro che banale. Innanzitutto, Mario frequentò il teatro, da spettatore molto assiduo, fin da ragazzo. Come autore drammatico aveva persino in qualche modo esordito, scrivendo molto giovane una commedia poi rimasta nel cassetto finché non fu riesumata per una memorabile serata romana alla fine degli anni cinquanta da Franco Castellani, avventuroso capocomico di una compagnia molto scalcinata il cui teatro-baracca con pavimento in terra battuta fu per una sera gremito di divi e celebrità della celluloide. Infine, quando gli capitò di cimentarsi come regista teatrale scoprì, ma probabilmente lo aveva sempre saputo, che il medium era congeniale al suo modo di fare cinema. Per Monicelli infatti il regista cinematografico non era il grande autore-accentratore così caro alla critica dei suoi tempi, ma semplicemente il vertice di un grande processo di collaborazione collettiva di cui facevano parte tutti, attori, scrittori, operatori, datori di luci, maestranze. Monicelli curava molto la preparazione (detestava i creativi e le ispirazioni dell’ultimo momento), interveniva sul copione che studiava fino a farlo suo – famosamente, prima del primo ciak lo ricopiava a matita, da cima a fondo – e chiedeva il parere di tutti.

Dopodiché era lui a decidere, e non aveva tentennamenti; dalla bonarietà di un primus inter pares passava all’autorevolezza. Del film aveva il controllo totale, compresi montaggio e doppiaggio, e all’interesse del film sacrificava ogni altra considerazione. Per esempio, quando i teorici cominciarono ad auspicare il rapporto voce-volto (non si doveva più affibbiare a un attore la voce di un altro), lui rise. “Il film è un mosaico di pezzetti che io dispongo come vanno disposti. Posso aggiungere musica, posso spostare un’inquadratura cambiando il senso di una scena; se ho bisogno di una voce così come di un suono particolare, chi può impedirmi di prendermela?” Ora, a teatro la situazione non è proprio la stessa. La differenza tra cinema e teatro, disse Orson Welles, è che al cinema la macchina da presa è una, a teatro sono trecento, o quanti sono gli spettatori. In altre parole, al cinema il pubblico vede solo quello che il regista vuole che veda; a teatro, vede tutto quello che è sul palco.

Per questo motivo, il teatro è un’impresa ancora più di collaborazione del cinema. A teatro il regista è meno determinante – perlomeno a quel teatro di parola, basato su di un testo da recitare, che Monicelli trovò congeniale. Come regista di teatro accettò quindi volentieri di rinunciare a quel controllo totale che il cinema gli consentiva, e si divertì a dare spazio agli attori, anche assecondandone le prerogative. Quando accettò di dirigere Una bomba in ambasciata, ossia un testo di Woody Allen tutto basato sull’umorismo impassibile della scuola ebreo-americana (particolarmente adatto, tra parentesi, al protagonista nonché capocomico Geppy Gleijeses), capì subito che per adeguarvi due importanti membri della compagnia come Carlo Croccolo e Isa Barsizza, abituati a tutt’altro tipo di comicità, avrebbe dovuto snaturarli profondamente: e allora li incoraggiò a fare, invece, quello che sapevano fare meglio, trasformando la pièce in una gradevole farsa all’italiana e così portandola al successo.

Impaziente di certi rituali del teatro, Monicelli non amava le sedute a tavolino, e sin dal primo giorno voleva gli attori in piedi, già impegnati nei movimenti; ma non sperimentava, avendo come suo solito preparato il lavoro con buon anticipo, e quindi sapendo chiaramente quello che voleva ottenere. Dal cinema aveva imparato che coinvolgendo gli interpreti, incoraggiandoli a fare quello che sapevano fare meglio, ne otteneva il meglio. Certo, per quanto sempre al servizio del copione, la sua regia poi proprio come nel cinema finiva per essere colorata dalla sua personalità. Monicelli al cinema o al teatro non cercava il virtuosismo né il protagonismo, ma appunto, di valorizzare la storia raccontata; e questo faceva immettendovi sempre una caratteristica punta di ironia, che significa orrore della retorica e quindi di voler prevaricare. Non aggredito ma incoraggiato a sorridere, il pubblico è lasciato libero di decidere. Quell’ironia ovviamente si trovò a suo agio sia nel rivisitato testo di Woody Allen, sia in un classico della comicità noir come Arsenico e vecchi merletti; ma diede i suoi frutti anche in un lavoro che avrebbe rischiato di essere torvo e magniloquente come Les liaisons dangereuses, e quindi fu alleggerito, anche mediante la scelta della scenografia quasi giocosa di Raimonda Gaetani. Lì tra l’altro c’erano tre primedonne di diversissima estrazione da mettere d’accordo; ma Monicelli ne aveva domate di peggiori sul set, e non si tirò indietro.

Masolino D’Amico

Author: admin

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