Cinzia BALDAZZI- “Marguerite” o dell’apparenza confermata (note sul recente film di Xavier Gianolli)
Il mestiere del critico
MARGUERITE O DELL’APPARENZA CONFERMATA
Note sul recente film di Xavier Gianolli
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Nel film Marguerite di Xavier Gianolli, nel colore diffuso tipico del cinema francese contemporaneo, dove la definizione tra i protagonisti da parte di chi li ascolta è affidata a loro e non al modo in cui sono ripresi con autorità da parte del regista – niente piani-sequenza, niente zoom, niente ralenti – è subito chiaro come la conclusione non sarà più drammatica del principio. Siamo chi siamo o chi crediamo di essere?
Nella Francia degli anni Venti, la facoltosa baronessa MargueriteDumont, mecenate di giovani artisti, amante del canto e dell’opera, si esibisce in concerti di beneficenza all’interno del suo castello non lontano da Parigi. Li organizza il circolo culturale Amadeus, per raccogliere fondi destinati agli orfani di guerra. L’attrice Catherine Frot, esperta – nel ruolo interpretato – nel non tradire alcuna emozione fonte di informazione del reale stato d’animo, mostra un bel viso liscio, forse una maschera. Ma no, perché è chiaro quanto creda e soffra realmente in ciò che vive.
Marguerite non possiede il dono di una brava cantante lirica: in termini quotidiani, è completamente stonata. Gli amici, il marito imprenditore Georges, il fidato maggiordomo nero Madelbos, l’intera servitù, mai hanno mai osato mostrarle la verità, mantenendo in vita l’illusione: anzi, di buon cuore, le fanno credere di avere del talento. Perché? Non credo per amore, in quanto l’amore non può essere fondato su una scelta tale da consentire a chi amiamo di essere discreditato, solo per non voler superare l’ostacolo di ammettere come la situazione si riveli “questa” e non “quella” desiderata.
Tacciono per interesse? Nemmeno quest’ipotesi mi sembra fondata, in un mondo dove il profitto scivola in opportunismo e ipocrisia, mantenendo la facciata di opere di beneficenza. I protagonisti – attori molto convincenti, tra cui André Marcon (il marito) e Denis Mpunga (il maggiordomo) – si parlano: ma, sempre anche grazie all’inquadratura tradizionale, agli spazi ovattati, impenetrabili ma presenti, che li distanziano, forse non vogliono dire niente di ciò che pensano. Non ne vale la pena? O a loro conviene tacere?
Marguerite vive in una casa arredata in maniera decadente, con lampadari, grammofoni, tende di broccato, struzzi impagliati, un vero pavone in giardino. Ogni mobile ha fotografie in costume di scena, come se avesse cantato nei più famosi teatri del mondo: in realtà le ha scattate Madelbos, sviluppandole e stampandole nel suo laboratorio al piano inferiore, dove peraltro vive in maniera modesta.
Una delle considerazioni che forse possono essere più singolari e interessanti di questo film è che, in ogni secondo, avresti voglia di puntare il dito e dire: “Qui si nega l’evidenza”, ma non è possibile farlo, perché l’evidenza sono i sentimenti, l’amore per il canto, la ricerca della gloria, l’amore per se stessi; sentimenti che non possono godere in nessun universo, nemmeno in quello della rappresentazione artistica, di alcuna chiarezza inconfutabile, o ancor meno ovvietà.
Ad un certo punto Lucien Beaumont, un giovane giornalista presente alla serata, pensando di sfruttare le ricchezze della donna, scrive un pezzo esaltante sul giornale “Comoedia”: è l’unico che Marguerite legge con entusiasmo, mentre Madelbos, come già altre volte, nasconde accuratamente le stroncature. Molto accurata nella sceneggiatura, soprattutto d’ora in poi, l’attenzione a non sfiorare il ridicolo, il fastidioso e il farsesco. Qui, ad essere sfiorato, anzi rappresentato, con cura di dettagli e primi piani, è il dolore di una comédie e il pericolo continuo di essere smascherata.
Coinvolta in uno spettacolino futurista al cabaret Marlot di Parigi, Marguerite è finalmente al proprio posto, cantando “terribilmente” la Marsigliese su un povero palco illuminato da lampadine che pendono dal soffitto, tra lancio di coriandoli e di piume, con gli spettatori infuriati e chiassosi.
Sostenuta, in seguito, dal nuovo maestro, il tenore Pezzini, decide di esibirsi per la prima volta in un vero teatro davanti al grande pubblico. Il marito Georges, per vergogna (chissà perché, solo ora: ed è la chiave dell’intreccio del film) cerca di dissuaderla. Non le dice nulla, anche se non può tirarsi indietro. Durante una prova, però, purtroppo, Marguerite accusa un malore, ma il medico per il momento minimizza.
Giunta la sera della prima, all’Opéra, entra in scena abbigliata con due ali di angelo e intona Casta diva davanti alla sala gremita. Il pubblico ride, sempre più forte, ma lei, nell’ilarità generale, sembra ignorarli. Improvvisamente ha una nuova crisi prendendo una nota alta: esce sangue dalla bocca, cade a terra svenuta, il recital è interrotto.
Ricoverata in ospedale, il delirio aumenta. Registra false interviste raccontando di essersi esibita nei migliori teatri del mondo. Sta meglio, vorrebbe tornare a cantare. Il dottore e il marito Georges si accordano per una terapia d’urto: è necessario che Marguerite finalmente sappia la verità, qualcuno dovrebbe confidarle come sia incredibilmente stonata. Registrano allora la sua voce e, nella mensa dell’ospedale, la inducono ad ascoltarla, pensando che, inevitabilmente, esca fuori la verità e lei, in un modo o nell’altro, sia costretta ad accettarla.
Il marito, all’ultimo momento, decide di interrompere l’esperimento, ma arriva tardi, appena in tempo per prendere tra le braccia una esanime Marguerite che, all’ascolto della sua voce stonata, è caduta a terra senza vita.
Chi è morta al suo posto? La grande cantante lirica o la vittima-artefice di una illusione dorata di un’intera esistenza? Ai morti non si fa alcun tipo di domanda. Solo lei potrebbe rispondere: quindi, continuiamo ad ascoltare la musica che accompagna lo scorrere dei titoli di coda di questo bel film senza risposta.