Mario SAMMARONE- Indagando su Lacan. A colloquio con Massimo Recalcati
A colloquio con*
MASSIMO RECALCATI E ‘L’ INDAGINE SU LACAN’
Il suo nuovo volume, pubblicato da Raffaele Cortina, spiega perchè l’individuo di oggi viva una dimensione spoglia, disgregante
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Oltre ad essere un vero fenomeno editoriale, capace di rivaleggiare con scrittori di fama internazionale, Massimo Recalcati è una delle voci più importanti della ricerca psicoanalitica contemporanea. Allievo spirituale di Jacques Lacan, lo psicoanalista francese di cui ha contribuito a divulgare l’opera in Italia, con il suo poderoso “Lacan. Desiderio, godimento, soggettivazione (Raffaello Cortina, 2013), Recalcati è riuscito a catalizzare interesse verso le teorie della psicologia classica, diventando una vera e propria icona, anche un po’ glam, della nuova cultura italiana.
Quasi fosse un sacerdote dell’antica Delfi, con il suo sguardo penetrante e ispirato, nascosto dietro quegli occhiali spessi simbolo di una conoscenza tenacemente conquistata, Recalcati prova a creare una nuova prassi terapeutica che renda possibile agli uomini realizzarsi, anche in questo tempo di crisi. Si tratta di un nuovo tipo di fare psicologia, figlio di un tempo in cui i vecchi punti di riferimento sono scomparsi – vedi la sezione di partito, l’oratorio e la parrocchia, in una parola la piazza – e allora l’uomo si trova in una dimensione più spoglia, fatta di un individualismo debole, sterile e disgregante.
Ma la ricerca di Recalcati non è fine a se stessa, punta dritta al cuore degli uomini, a prendersi cura dell’Altro, che poi è anche il miglior modo di prendersi cura di sé – lo sapevano bene i saggi zen con la loro arte botanica, e di fatto Recalcati scrive: “Gli esseri umani non sono piante e per assicurare loro la crescita non è sufficiente garantire un’adeguata dose di calore, di luce e di nutrimento”. Gli esseri umani necessitano di altro, di cure materiali e di “nutrimento spirituale” per dirla con Simone Weil, e soprattutto del potere della parola, unico e vero antidoto al solipsismo disgregante della società di massa, grazie a cui l’uomo può ancora tirare fuori i suoi demoni interiori.
Nel suo libro “Il complesso di Telemaco”, Recalcati aveva spinto la ricerca verso la sfera sociale, alla luce del rapporto padri-figli e scrivendo come oggi vi sia stata l’”evaporazione” della figura paterna, la sola che riusciva a garantire la legge della parola. Del resto oggi non sembrano esserci molti “Ulisse all’orizzonte”, eroi pronti a salvare la patria e a sottrarla dalle grinfie dell’austerity, delle nuove turbolenze geopolitiche dei problemi di sempre.
Ma allora a chi spetterà il compito di salvarci dagli odierni Proci? Ai figli, naturalmente, che dovranno muoversi e darsi da fare, senza aspettare come Godot l’improbabile ritorno dei padri, iniziando a prendersi le proprie responsabilità e a non delegare ad altri quello che solo a loro spetta di compiere. È il destino di questa generazione nata a cavallo degli anni ’70 e ’80, la “generazione Telemaco”, quello di rimboccarsi le maniche e di essere gli artefici del proprio destino, meritando così l’eredità dei padri, senza l’intervento di grandi Altri o di trojke eterodirette che vengano poi in soccorso – principio, questo, su cui si è trovato d’accordo anche il premier Matteo Renzi che, lo scorso settembre a Strasburgo, ha parlato di una “generazione Telemaco” auspicando per l’Italia una stagione di riforme e una presa di responsabilità anche nella politica europea.
Ma se in passato l’opera di Recalcati si era diretta verso il rapporto padre-figlio, adesso è la madre al centro della sua ricerca. Con il suo nuovo libro, “Le mani della madre” (Feltrinelli, 2015, pag. 187, euro 13,60), Recalcati supera la triangolazione edipica classica secondo cui la madre è la figura che soffoca il puer nelle sue spire mortifere – o anche la Grande madre oscura e famelica di cui parlava Erich Neumann. È una figura iper-moderna la madre di Recalcati, responsabile verso il figlio ma anche verso se stessa, capace di prendersi cura della vita che ha dato alla luce ma anche della propria femminilità, una madre che dice sì alla vita e che grazie a questa scelta educa il figlio alla cultura della vita, sottraendolo a quelle spire mortifere che ne potrebbero compromettere lo sviluppo e il futuro rapporto con gli altri. Perché uomini psicologicamente più evoluti creano anche una società più evoluta, è il feedback sociale della psicologia.
Recalcati, lei supera la triangolazione edipica classica e sviluppa la teoria lacaniana secondo cui una buona madre non si esaurisce soltanto nel compito di madre. Perché è una madre che decide di non essere tutta madre colei che permette al figlio uno sviluppo sano e un’apertura verso la libertà dell’essere?
Una madre sufficientemente buona è innanzitutto una madre che offre al bambino la propria presenza. Ella non lascia cadere la vita nel vuoto. È per questo che Freud descriveva la madre come la figura del primo soccorritore. Tuttavia sappiamo anche che una presenza eccessiva della madre può essere soffocante, può ingombrare la vita del figlio. La madre del patriarcato era una madre di questo tipo: sacrificava la propria vita di donna all’accudimento dei figli ma, al tempo stesso, esigeva che i figli facessero altrettanto con la loro vita. Il risultato era quello di un legame che assomigliava molto ad un imprigionamento reciproco. Per questo Lacan insisteva nel dire che la donna non deve morire con l’accesso alla maternità, che, in altre parole, una madre sufficientemente buona è una madre che sa donare ai propri figli insieme alla sua presenza, la sua assenza.
Cosa significa?
Questo significa che il figlio non deve mai esaurire il mondo di una madre perché il suo desiderio – il desiderio della madre – va sempre al di là del figlio. È il desiderio di una donna che rende ogni madre non tutta madre e rende, di conseguenza, più libera non solo la propria vita ma anche quella del figlio..
Come si fa ad essere una madre “non-tutta-madre? A quali oggetti deve rivolgere il suo desiderio?
Un tempo l’oggetto del desiderio al di là del bambino, a cui il desiderio della madre si rivolgeva, era il padre. Oggi che la vita della famiglia si è assai complessificata. Non è sempre così. Ma la cosa importante è che il desiderio della madre non sia tutto assorbito nella cura dell’esistenza del figlio. Il desiderio di avere un proprio lavoro, di affermare la propria vita da un punto di vista professionale, di esistere, insomma, al di là dell’essere madre è la manifestazione di come il desiderio della donna non può essere schiacciato su quello della madre.
Lacan parla della “madre coccodrillo” – riprendendo Melanie Klein – in cui prevale la spinta, a livello inconscio propria di ogni madre, a fagocitare e a inghiottire il figlio, eleggendolo a oggetto unico del suo desiderio. Come si fa a non diventare una madre-coccodrillo?
È la stessa questione di cui stiamo parlando: quando una madre diventa madre coccodrillo, cioè divora il proprio frutto, lo imprigiona, se ne appropria è perché in quella madre non c’è più spazio per la donna. La femminilità è stata uccisa dalla maternità. E questo è un problema sia per la madre che per il suo bambino.
Lei scrive che il padre assorbe, prima del concepimento, le angosce mortifere della madre. Che ruolo ha il padre nella triangolazione parentale che lei sviluppa?
Quest’idea secondo la quale il padre deve, nel tempo che precede il parto, assorbire le angosce di distruzione che possono animare i vissuti profondo della madre, non è mia ma è di Franco Fornari. Più in generale io penso che il padre dovrebbe, oltre a bonificare le angosce eventuali della madre nel tempo della gravidanza, triangolarizzare la relazione, impedire che si chiuda in una simbiosi mortifera madre-figlio. Ma, in realtà, nel nostro tempo è la donna – il desiderio della donna – ad agire come Nome del padre, ad impedire che la bocca di coccodrillo della madre si chiuda sul figlio divorandolo.
Lei è un grande studioso di Jacques Lacan, lo psicologo francese che affronta il problema dell’alterità. In una società come la nostra, di massa e in cui le persone si barricano dietro un solipsismo debole, sterile e a volte disgregante, quanta importanza ha l’incontro con l’Altro per una realizzazione compiuta dell’individuo?
Una prima lezione politica della maternità è quella di fare esistere una cura capace di rispettare il senso del particolare, la particolarità della vita del figlio. Per questo Lacan definiva le cure materne come cure che non sono mai anonime, ma ispirate da un interesse particolareggiato nei confronti della vita del figlio. Diversamente nel nostro tempo quello che domina è una incuria assoluta. L’interesse per il profitto che governa il discorso del capitalista è contrario ad ogni cura; cura per la vita insieme, per la comunità, per la città, per il pianeta…Tutto sembra dominato dall’incuria assoluta. In questo la lezione politica della maternità è resistere a questa deriva nichilistica.
In Irlanda è stato sancito con un referendum la legittimità dei matrimonio tra omosessuali; in Italia si discute di unioni civili. Secondo lei, che è uno studioso degli archetipi del padre e della madre, si può allevare e in che modo un figlio all’esterno della famiglia classica composta da padre e da madre?
La madre non è solo la genitrice del figlio così come un padre non si può confondere con lo spermatozoo. Essere genitori, essere madri o padri è l’esito di un atto di adozione simbolica. Non è un evento della natura ma un evento della parola. Dire: “sì, tu sei mio figlio!”. E’ solo questo atto di riconoscimento che fonda davvero la genitorialità. L’importante è che in una legame familiare vi sia il lievito dell’amore e che questo lievito possa nutrire anche la vita dei figli. Questo al di là del sesso e della natura dei genitori. Io credo che la funzione materna e la funzione paterna siano funzioni diverse, ma credo anche che esse possano essere interpretate bene al di là del sesso e del sangue. In fondo è un insegnamento che ritroviamo anche nella Bibbia dove l’evento della maternità non è mai solo un evento biologico ma è sempre un evento che diventa possibile grazie all’irruzione della forza trascendente della parola.
Cosa prova una donna quando diventa madre?
La maternità più autentica non è una esperienza di appropriazione, di ingrandimento dell’Io ma di decentramento, di apertura. Generare non è fare nostra la vita di un figlio ma è un dono senza ritorno. E’ fare esperienza di qualcosa che ci supera. In questo senso la maternità è forse l’esperienza più radicale dell’ospitalità; proprio perché è una ospitalità che non esige alcuna proprietà.
(*Il Garantista.it)