Luigi LOCATELLI*- Perchè manca Giuseppe? (“L’attesa” di Piero Messina. Mostra del Cinema di Venezia)

 

 

Mostra del Cinema di Venezia

 

L’attesa, un film di Piero Messina. Con Juliette Binoche, Giorgio Colangeli, Lou de Laâge, Domenico Diele, Giovanni Anzaldo

Due donne in una villa siciliana aspettano che un ragazzo torni. Una è Anna, la madre, l’altra è Jeanne, la sua ragazza. Ma Giuseppe non c’è. Lo spettatore capisce dopo pochi minuti quello che Jeanne realizza solo dopo un’ora e mezza di film. Attualizzazione di La vita che ti diedi di Pirandello, che trasforma però la meravigliosa ambiguità dell’originale in una caso di ordinaria psicopatologia. Laccatissimo fino all’estenuazione. Con una narrazione arrancante e incongruenze vistose

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Trent’anni e qualcosa, un bel po’ di corti alle spalle e l’assistentato alla regia per Sorrentino sul set di La grande bellezza. Per Piero Messina, siciliano di Caltagirone, un curriculum di rispetto che molti suoi coetanei manco si sognano, e adesso, al suo primo lungometraggio, ecco subito l’ammissione in concorso a Venezia, e oggi primo dei quattro italiani a scendere in campo. Meritava questo lancio in gran pompa L’attesa? No, non se lo meritava, come altri titoli della competizione visti finora (una competizione abbastanza sconfortante per qualità media, ma è presto per abbozzare bilanci e dare giudizi). Film leccatissimo e laccatissimo, di quella perfezione visual-fotografica che incanta sempre le signore, ma che è solo pura esteriorità, vacuo maquillage spalmato sulla superficie di cose e persone senza mai diventare cifra estetica potente e vera. Girato in una Sicilia di meravigliosa bellezza, ma fissata in una finta leggiadria da presepe, con eccessi che neanche il d’Annunzio più sfrenato (quella vetrata liberty in una villa di campagna per quanto signorilissima e fichissima).

Per almeno mezz’ora assistiamo allo sfogliare di un album di figurine, a una versione de luxe e glamourizzata dei vecchi intervalli televisivi, senza che i personaggi e la narrazione diano mai il minimo segno di vita e di movimento. E poi, Dio mio, quanti cliché. Che ti aspetteresti da un regista di vecchia generazione, ma da un trentenne? Si comincia con un funerale nella chiesa baroccheggiante del paesello, e son decine di donne in nero come neanche nei film siculi di Pietro Germi.

E la processione del venerdì santo con gli incappucciati, e la pasta nera con la farina di carrube, e la scalinata di Caltagirone. E i paesaggi lavici. Con una storia di massima sicilianitudine che viene dal grandissimo Pirandello, La vita che diedi, purtroppo però attualizzata e contemporaneizzata con parecchie libertà rispetto alla meraviglia originale e con molte incongruenze. Si parte, dicevo, con un funerale. Ma chi è il defunto? Intorno a questa risposta mai data gravita tutto il film e la sua sospensione, peccato che lo spettatore ci metta tutt’al più qualche minuto a sgamare, chiedendosi come mai non facciano altrettanto i manichini che deambulano attraverso il film. Abbiamo intanto fatto la conoscenza di Anna, quarantenne francese approdata per amore in Sicilia vent’anni prima, e lì rimasta anche dopo il divorzio dal marito.

Con lei vive il figlio Giuseppe, di cui vediamo solo la stanza vuota, i vestiti buttati sul letto e per terra, gli oggetti personali che la madre rimira e accarezza. Perché Giuseppe non c’è. Alla sua ragazza appena arrivata da Parigi e da lui invitata a passare un po’ di tenpo nella casa di famiglia (evidentemente ai siciliani del posto garban molto le francesi) Anna comunica che Giuseppe è partito e tornerà il giorno di Pasqua. Jeanne gli lancia messaggi su messaggi, e però dall’altra parte silenzio, zero risposte. Chiaro quel che è successo, no? Giuseppe, ovvio, non tornerà mai, tutti gli spettatori l’hanno capito dopo massimo dieci minuti, ma Anna si ostina nella finzione, e Jeanne, cieca, le crede, o finge di crederle.

L’attesa si prolunga per giorni e giorni, come la commedia degli inganni e degli autoinganni, e tu a chiederti: ma coi potenti mezzi della contemporaneità com’è possibile che in un fazzoletto di Sicilia la ragazza venuta da Parigi non riesca ad aver notizie dell’assente e non si faccia venire più il minimo sospetto? A un certo punto sembra che il plot svolti in una ghost story, in un piccolo thriller psicologico di spettri, ma purtroppo non è così. Si procede nel vuoto narrativo e nel tuttopieno fotografico-scenografico verso l’inevitabile e prevedibile finale.

Messina nella sua modernizzazione toglie all’originale pirandelliano ogni ambiguità, trasformandolo in un caso di psicopatologia, di delirio solitario, o forse a due. Juliette Binoche se la cava in una parte impossibile di un film impossibile con mestiere, Lou de Laâge è bellissima e sensuale e farà parecchia strada. Il migliore è Giorgio Colangeli quale sinistro maggiordomo della casa dei misteri.

(*dal blog di L. Locatelli, critico indipendente, che ringraziamo)

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