Francesco TOZZA- Le vie della scena sono infinite, però… Un bilancio del Napoli Teatro Festival

 

 

Napoli Teatro Festival

 

LE VIE DELLA SCENA SONO INFINITE, PERO’…..

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Note sulla kermesse del 2015- Un bilancio di luci e ombre

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Certamente dir male degli operatori culturali (non solo nel settore dello spettacolo), soprattutto se in corso d’opera, non è cosa bella e giusta (!): può danneggiare il loro lavoro, meritevole in ogni caso di rispetto, compromettendone se non altro l’esito economico, e portare comunque a giudizi affrettati, legati solo ai singoli momenti di quella operatività, con pretese magari troppo presto definitorie o generalizzanti. E tuttavia non è neppure cosa bella e giusta…, almeno in sede di bilancio finale (o quasi), tacere sulle contraddizioni e le manchevolezze delle iniziative andate in porto, senza però arroganti pretese veritative ma nemmeno conformistici (e ormai diffusissimi) appiattimenti sull’esistente, facendo salvi i valori della meritorietà (inprescindibili in campo artistico) che sono altra cosa da quelli di una aprioristica, sterile e assai poco democratica meritocrazia. E’ questo il motivo per cui, da anni ormai (potremmo dire fin dall’inizio), parliamo del NapoliTeatroFestival (ma in genere di consimili rassegne) non semplicemente inseguendo e recensendo i singoli, spesso numerosissimi spettacoli (difficilmente, del resto, abbracciabili nella loro interezza), ma riflettendo – a cose fatte, o quasi! – su alcuni di essi, magari per il loro carattere emblematico di attuali tendenze (in loco e nel teatro in generale). La nostra è forse una precisazione ovvia, ma è bene rinnovarla.

Sui limiti della kermesse napoletana (di cui ha ormai preso atto anche qualche più reticente collega) ci siamo già soffermati nelle passate e più recenti edizioni, che sicuramente hanno perso gran parte della vivacità, direi dell’entusiasmo che accompagnò le prime (quelle della direzione Quaglia, per intenderci): è diminuito il numero (e la qualità) delle proposte di carattere internazionale, cedendo alla mai tramontata tentazione di cadere nella chiusura regionalistica, complice una male intesa e sterilmente mitizzata tradizione, o anche la più comprensibile, ma non per questo meno deleteria (se non ben governata), esigenza di usare, in loco, il teatro come ammortizzatore sociale; si è affievolita la capacità, o comunque la volontà, di usare l’occasione festivaliera per inventariare, per non dire riscoprire e rivalutare, i numerosi e stupendi spazi che la città offre (quest’anno ci si è accontentati soltanto, e per pochi spettacoli, dei ventilatissimi ma panoramici spalti del superbo Castel Sant’Elmo), facendone intriganti “luoghi teatrali”, e di conseguena intensificando (o comunque contribuendo a mantener viva) l’esigenza di allargare il concetto stesso di teatralità e le relative pratiche, troppo spesso, nel territorio, circoscritte ai ben noti santuari dell’opprimente tradizione; è venuto meno lo sforzo di costruire nel tempo (e di tempo ce ne vuole, in ambiti come il nostro) una pur minimale specificità o identità del festival, per non ridurlo sostanzialmente a copiosa offerta di spettacoli-merce, senza peraltro l’ausilio dei necessari dibattiti/tavole rotonde, o comunque punti di discussione, che contribuiscano alla crescita o, comunque, ad un più ragionato piacere dello spettatore, sottratto in questo modo alle esclusive ragioni del consumo.

Un’occasione, a questo proposito, avrebbe potuto offrirla lo spettacolo che già sulla carta si presentava forse come il più interessante, o fra i più importanti, dell’intero festival (anche per la notorietà internazionale del regista, Thomas Ostermeier, e della sua compagnia, la Schaubühne di Berlino): l’ibseniano Ein volksfeind (Un nemico del popolo), nell’adattamento del dramaturg Florian Borchmeyer, che snellendo un po’ il testo con l’aggiunta di qualche non rilevante variazione, non gli ha fatto comunque perdere la sconcertante attualità, pur ammorbidendone forse, malgrado il coinvolgimento dialettico degli spettatori a metà rappresentazione, l’originaria vis polemica. Come si ricorderà, il protagonista del lavoro, il dottor Stockmann, scopre che le acque della stazione termale da qualche tempo apertasi in città, con ottimi riscontri sul piano turistico e occupazionale, sono contaminate da scarichi industriali.

Deciso a rendere di dominio pubblico i risultati della sua ricerca, nonostante la stretta parentela che lo lega alla principale autorità politica del paese (il sindaco è suo fratello), si vede progressivamente abbandonato da quanti all’inizio parevano sostenerlo: i rappresentanti della stampa locale e la maggioranza degli stessi cittadini; i quali finiscono con l’anteporre – come molto spesso avviene anche oggi! – le ragioni dell’economia a quelle della salute. Sottoposto a pressioni e ricatti di ogni sorta, per non fargli rivelare la scomoda verità, nell’ambito di una strategia (anche questa, ieri come oggi, sempre la stessa!), mirante a screditare l’attendibilità della scoperta e del suo autore; fatto oggetto di un vero e proprio linciaggio, quasi in senso letterale (lancio di pietre alle finestre della sua abitazione!), Stockmann – additato ormai come un nemico del popolo – non demorde, peraltro convincendosi sempre più della natura sostanzialmente etico-politica della crisi rivelata dall’episodio: l’inquinamento più pericoloso – questa la sua scoperta – non riguarda, a questo punto, l’ambiente ma le coscienze (“tutte le nostre fonti di vita spirituale sono infette e l’intera nostra società borghese poggia sul terreno appestato della menzogna”).

In proposito, analoga…, comunque intrigante scoperta avrebbe potuta farla lo spettatore accorto, andandosi a rileggere il testo in una recente riproposta (all’interno della raccolta I drammi moderni di Ibsen, ed. BUR 2009/11, a cura e con l’introduzione di Roberto Alonge, dall’emblematico titolo Istruzioni per l’uso!). Qui il lavoro ibseniano, ovviamente nella persona del suo protagonista, è stato sottoposto ad un vero e proprio linciaggio… ermeneutico: si sostiene che “la megalomania del personaggio sfiora la pazzia” (sic!), interpretando – fra l’altro – il comprensibile invito alla prudenza, da parte della moglie, come una presa di distanza, mentre la figlia – l’unica a dar ragione fin dall’inizio e senza riserve al padre – viene definita appassionata e fantasmaticamente incestuosa (p. 410); di fronte al licenziamento dal proprio posto di lavoro di padre e figlia, comunque al chiaro isolamento riservato alla famiglia del dottore, si parla di troppi licenziamenti per essere veri (come se queste cose non accadessero – e non accadano – mai!), aggiungendo incredibilmente che “la visione di questa società così compattamente ipocrita e crudele è caricaturale”! (idem).

Ancor più strabiliante quanto sostenuto nelle note di commento precedenti: nello scontro fra i due fratelli, il discorso del sindaco appare misurato (p. 374), mentre le repliche di Tomas, il medico, vengono definite smorte, deboli, “a conferma che davvero ha la mentalità dell’avvoltoio (sic!): non si è fatto nemmeno due stracci di conti su quanto costerà la ristrutturazione, e non ha neanche compreso che ci vorranno comunque due anni di chiusura degli impianti (…). Non ha infine nessuna capacità politica (cors. del cur.): non lo sfiora il sospetto che non solo la grande proprietà azionaria delle terme, ma anche i ceti medi, piccoli proprietari di case, e persino gli strati operai traggono vantaggio da questa risorsa turistica” (p. 341). Sembra di sentire uno degli attuali difensori dell’ILVA di Taranto! Quella di Stockmann sarebbe, in definitiva, “solo falsa modestia (…): è così compiaciuto della propria scoperta (…), da non rendersi conto che per la città sarà una tegola (…)

E’ un po’ un corvo della sconfitta (cors. del curat.) e della catastrofe universale, pronto a sguazzare sui cadaveri dei propri cittadini, se questo gli può dare finalmente gloria e successo” (p. 329). E si potrebbe ancora continuare, nell’elenco delle citazioni da questa incredibile curatela di un testo, non a caso definito minore, confuso! Ce n’è, insomma, a sufficienza per non ritenere iperbolica l’espressione da noi usata nel definire un appoccio critico, inconsapevolmente forse (?!), ma estremamente ideologizzato (a dir poco), di chiara marca reazionaria, per ricorrere ad altro termine oggi in disuso. Che dire? Sembra evidente che Ibsen, a più di un secolo di distanza (il testo è del 1882) colpisce ancora (potenza, sempre sorprendente, dei classici!), in un’epoca che, se non altro, ha perso o non avverte più il fascino discreto dell’onestà, costringendo a concludere chi si allontana dal coro del conformismo dilagante – coraggiosamente (e, perché no, anche con un residuale orgoglio), ma con estrema melanconia – che “l’uomo più forte al mondo è quello che sta più solo”, come dichiara appunto, alla fine del testo, un sempre più isolato Stockmann.

In tutto questo – e per concludere sull’argomento – cosa ha fatto Ostermeier? Pur non raggiungendo le vette di suoi precedenti incontri con il teatro del grande Norvegese (l’Hedda Gabler vista due anni fa all’Argentina di Roma fu davvero memorabile, per raffinatezza e profondità interpretativa), il regista ha offerto uno spettacolo scorrevole, accattivante, senza cadere nei trabocchetti della retorica, propri a certe forme di teatro politico, magari di matrice brechtiana (ma il ritorno a Brecht, peraltro alla sua lezione più spiccatamente teatrale, sarebbe per molti versi auspicabile): certo, interrompere lo spettacolo a metà rappresentazione (come si è già detto), nella famosa scena dell’assemblea pubblica (prevista nel testo stesso) e indetta per discutere la scoperta del dottor Stockmann con le sue relative conseguenze, in altri tempi sarebbe stato forse un bel colpo di teatro. Questa volta invece, nonostante la discreta partecipazione del pubblico in sala, per nulla intimorito dal diaframma linguistico, di parziale impedimento alla vivacità e immediatezza della discussione, comunque brillantemente risolto con la traduzione simultanea degli interventi, ha finito con l’apparire un po’ artificiosa: la “società dello spettacolo” ha reso meno credibile la discussione, minandone attendibilità ed efficacia.

Non a caso il Living, proprio qui a Napoli (al Mediterraneo, nel novembre del 1969), convinto ormai dell’inefficacia del fare teatro per soddisfare le ragioni della lotta politica, sospese la rappresentazione di Paradise now, invitando gli spettatori ad abbandonare la sala ed uscire definitivamente dal teatro: Julian Beck e alcuni membri della sua Compagnia – lo ricordiamo bene – furono al momento arrestati, ma forse per la prima volta si capì che un teatro genuinamente politico deve essere anche capace di negarsi! Altri tempi, sicuramente altre illusioni, perché comunque la rappresentazione continua….. e forse non può avvenire diversamente.  Come ben si comprende un bel tema, questo, su cui si poteva accendere – si diceva più sopra – un importante punto di discussione, politico ma anche e soprattutto metateatrale, all’interno di un festival che aspirasse a proporzioni più intense di efficacia e serietà. Le scelte, invece, sono andate, e continuano ad andare, in altra direzione: copiosa offerta – lo si è già sottolineato – di spettacoli, senza la ricerca di nuove tendenze o magari la conferma delle vecchie o più recenti, almeno le più originali.

La danza contemporanea, per esempio, che ha sempre costituito un po’ il piatto forte del festival, ha dato poco questa volta, con una sola punta di merito, almeno a nostro avviso, rappresentata dalle astratte, suasive, vibranti coreografie di Emio Greco e Pieter Scholten, i cui danzatori, uniti in una proficua collaborazione, hanno offerto con Extremalism – Il corpo in rivolta momenti di raro equilibrio ma anche di accattivante conflittualità fra la dinamica dei corpi, la fascinazione della luce e l’imperversare monotono di una musica minimalista cui l’improvviso insorgere di un allegro vivaldiano ha dato uno strappo di consistente pregnanza, senza peraltro cadute in residuali forme di narratività coreografica. Le quali invece dominavano, banali e poco congrue, nello spettacolo offerto dalla Compagnia Ballet Black (nelle sue due parti, una delle quali rivisitava il celebre Sogno shakesperiano), rivelando nella fattispecie tutto l’anacronismo del balletto sulle punte, senza minimamente caratterizzarsi come espressione di danza contemporanea, secondo le premesse: l’ibrido, o – come si dice oggi in altri ambiti, più specificamente teatrali – la contaminazione, spesso fa brutti scherzi.

Discorso diverso merita, invece, Radioscopies, cortometraggio scenico offerto dalla coreografa belga Michèle Noiret, su suggestione di un’intervista, concessa nell’ormai lontano 1978 dallo scrittore belga Conrad Detrez, contenente inquietanti aperture sugli angosciosi labirinti del suo (e del nostro) inconscio, con evidenti istanze metafisiche nella ricerca di quel “segreto delle cose”, cui non può certo rinunciare, anche oggi, chi intenda vivere una vita più lucidamente razionale, ma al tempo stesso autenticamente sensibile alle ragioni del mistero che ancora ci circonda: al di là, forse, di troppo facili etichette (da rimeditare comunque), si è trattato dell’accattivante testimonianza di un progetto autoriale, seriamente creativo, probabilmente ancora in fieri, in direzione del sempre positivo incontro (non della suddetta e più banale contaminazione, ormai di moda) fra diversi linguaggi artistici: nello specifico, un esempio di “danza-cinema” (come lo si è definito) che, fra l’altro, ha riproposto allo spettatore non di corta memoria rarefatte, angoscianti atmosfere e paure subliminali, che solo certo cinema, rispettivamente di Antonioni e di Hitchcok, riuscivano a suscitare (e gli esponenti delle ultime generazioni farebbero bene a recuperare la conoscenza di entrambi i registi, almeno del secondo, per comprendere, se non altro, le più sottili sfumature psicologiche alla base delle sue migliori pellicole rispetto a tanto magniloquente, troppo spesso insulso e meramente effettistico horror, abbondantemente propinato oggi sui nostri schermi); atmosfere, nel caso della Noiret, anche notevole interprete del lavoro, accanto a Isael Mata,  rese qui quasi più dirompenti dall’alternanza fra l’ormai dominante linguaggio delle immagini e l’imprescindibile linguaggio del corpo vivo, presente sulla scena.

Vittima, invece, di una contaminazione, al solito piuttosto superficiale o comunque assai poco meditata, fra i diversi linguaggi dello spettacolo, nell’inseguimento dei sempre più amati ed esteriori effetti speciali (ai quali, comunque, il teatro giunge ormai ben secondo rispetto al cinema), è apparsa la catalana Fura dels Baus. Robot, pupazzi giganti, videoproiettori iperbolici, inconsistenti e superficiali spunti coreografici offerti su un ormai inutile palcoscenico, non sono riusciti a raccontare (ma forse non lo volevano nemmeno!) la nota disputa fra le tre dee dell’Olimpo, di fronte ad un imbarazzatissimo Paride; per molti degli spettatori, che affollavano la Mostra d’Oltremare, a vincere è stata la Spettacolarità, dea non contemplata nel fatidico juicio; per i più esigenti ha perso, nonostante tutto, proprio Afrodite, dal momento che la Bellezza ha finito con volatizzarsi con la tecnologia che le doveva servire da semplice supporto.

Per il resto, che dire? Certo le vie del teatro sono infinite…., ma a testimoniarlo non basta strombazzare nei depljant “26 giorni di programmazione” con “32 spettacoli fra debutti assoluti e nazionali”, “danza internazionale”  (però – lo si è visto – con orizzonti investigativi limitati); “grande prosa” (e si aggiunge subito “italiana”, tradendo non solo un ritardo semantico, quanto una perdurante e ormai inspiegabile chiusura propositiva); “nuova drammaturgia” (e si dovrebbe dire, più coerentemente, data la tipologia dell’offerta, mera letteratura drammatica, troppo spesso peraltro di matrice napoletana, se non nella lingua dei testi, per la provenienza geografica dei loro autori: testi che per la modestia delle relative messe in scena, che non penetrano nei meandri più sofisticati della drammaturgia del corpo o dello spazio, magari perché non lo richiedono o non lo sopportano essi stessi, potrebbero essere più comodamente letti in poltrona a casa propria, mentre – come si sa e si è ripetuto tante volte – il teatro consiste in quel di più che il palcoscenico presenta, e dovrebbe sempre pretendere, rispetto alla pagina scritta).

Per limitarci, nel settore, ad un solo esempio, citiamo la Rituccia di Fortunato Calvino: testo indubbiamente assai più modesto, almeno a nostro avviso, rispetto ai precedenti e ormai famosissimi Cravattari o alla più recente Maddalena, cui peraltro l’alibi del sequel (rispetto all’eduardiana Napoli milionaria) non è certo servito a dare effettiva originalità e consistenza, rivelando invece solo i cascami e i luoghi comuni di quella che ormai non è più il caso di chiamare napoletaneità (se mai napoletanume!), portati in scena dallo stesso autore con una regia da teatro amatoriale, nonostante la presenza di un’attrice di consumato mestiere come Antonella Morea (qui come caratterista, nel ruolo della popolana Peppina). Eppure Fortunato Calvino aveva dato, se ricordiamo bene, buone prove di sé anche come regista, magari in un tempo non proprio recente, addirittura su tutt’altra tipologia drammaturgica, in ambito fassbinderiano per esempio: evidentemente non sempre respirare l’aria della città natale fa bene

Per fortuna si può essere di Napoli, esercitare la propria attività teatrale, magari dirigendo una delle due sale teatrali storicamente votate alla sperimentazione in questa meravigliosa città (stiamo parlando di Laura Angiulli), senza per questo farle continuamente il verso, ma volgendo lo sguardo altrove, magari rivisitando i classici o i più antichi miti, nelle loro lontane versioni e nei più arditi, nuovi tradimenti, comunque carichi di straordinarie e sempreverdi profezie. Come nello studio partorito in occasione del festival (Cassandra, festa di nozze), affidato – nella sempre affascinante nudità dello spazio scenico – alle voci di due attrici (Alessandra D’Elia e Caterina Spadaro), in abito  nero sullo sfondo di un bianco abbacinante, e al canto di una figura a latere (la sempre brava Maria Pia De Vito, in un melange di melodie e rimti jazz): solo così è, forse, possibile sottrarsi all’ira funesta dell’Achille di turno, e aspirare in pace il “profumo del nulla che avanza”, inesorabile. E i risultati, teatralmente parlando, sono più convincenti.

Nel programma di quest’anno ci sono state anche le “Letture”, affidate ad illustri attori, che non si è avuto il tempo (forse nemmeno la voglia!) di ascoltare (la sazietà rende poco appetibili anche quelle che potrebbero rivelarsi delle delizie!), offerte come ulteriore omaggio alla città di Napoli, divenuta ormai – più che “il paradiso abitato da diavoli” di cui parlava Croce – un inferno funestato da intelligenze un po’ troppo autoreferenziali; prima o dopo si dovrà pur capire che Napoli la si esalta e rinvigorisce quanto più la si dimentica, almeno nella sua dimensione mitica

Degli spettacoli del Fringe Festival siamo riusciti solo a vedere L’invenzione senza Futuro: viaggio nel cinema in 60 minuti (Tedacά/Compagnia dei Demoni e OffRome): un breve viaggio alle origini della settima arte che tre giovani volenterosi hanno intrapreso, attraverso ministorie che hanno per protagonisti i due celebri fratelli Lumière e le loro fantastiche invenzioni. Forse la rassegna – lo abbiamo detto anche gli anni precedenti – dovrebbe avere una diversa collocazione nel corso dell’anno, che permetta se non altro di seguirla: la concomitanza con gli altri spettacoli del Festival lo rende spesso impossibile.

Gli ultimi giorni serbano sempre qualche piacevole sorpresa: abbiano appena visto Miss Julia di Strindberg (un altro grande esponente della drammaturgia scandinava, in scena dopo l’Ibsen di Ostermaier), e il sereno…. (una discreta esplosione di creatività) sembra tornato sul festival. Ma è il caso di parlarne successivamente, in un articolo a parte.

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