Francesco TOZZA- Caro, vecchio G.B. Shaw….(“La professione della signora Warren” con Giuliana Lojodice. Regia di Giancarlo Sepe. Teatro Mercadante di Napoli)



Il mestiere del critico



 

CARO, VECCHIO G.B.SHAW

Quanto sei attuale!

La professione della Signora Warren

 

 

“La professione della signora Warren” di G. B. Shaw   con Giuliana Lojodice, Federica Stefanelli, Giuseppe Pambieri,  Pino Tufillaro, Fabrizio Nevola, Roberto Tesconi Regia di Giancarlo Sepe    Teatro Mercadante, Napoli

 

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Chi non l’ha ancora fatto, si affretti a farlo: vada a vedere La professione della signora Warren di G. B. Shaw (ultime repliche, fino al 3 maggio, al Mercadante di Napoli). Assistendo ad una delle commedie sgradevoli (le definiva così lui stesso) del drammaturgo irlandese, riscoprirà un vecchio modo di andare a teatro (i più giovani potrebbero a loro volta scoprirlo per la prima volta), uscendone soddisfatto per aver semplicemente ascoltato (un tempo, a teatro, dominava la parola!) un buon testo, con dialoghi vivaci, una tematica intrigante, tutt’altro che spenta, anzi ancora piuttosto attuale, peraltro bene interpretata da una delle ultime signore del teatro italiano (ne sono rimaste poche), attorniata da altri cinque attori non meno bravi, comunque all’altezza del compito, coordinati da un regista che, senza particolari fronzoli scenografici, servendosi peraltro di un ottimo disegno luci e di una discreta colonna sonora, come sottofondo alla ritmica recitativa (anche questo si usava un tempo sui palcoscenici) ha messo nel dovuto risalto la nota vis polemica di uno scrittore che più di un secolo fa (ma forse proprio per questo!) si vantava d’essere un socialista aborrente la nostra sfrenata caccia al denaro e credente nella uguaglianza, come la sola possibile base permanente della organizzazione sociale. Da sottolineare, peraltro, che frasi come queste, contenute nella prefazione ai suddetti testi, non si traducevano in noiose quanto sterili prediche, ma si innervavano abilmente in vicende e personaggi che rendevano – e rendono tutt’oggi, non certo per il consueto gioco degli adattamenti – quanto mai vitali quei testi sul palcoscenico.

Il dialogo che Vivie Warren (classica “donna nuova”, anticonvenzionale e indipendente, gelosa degli ottimi risultati conseguiti nei suoi studi a Cambridge) ha con la madre, ex prostituta, divenuta poi tenutaria di una serie di case d’appuntamento in tutta Europa, è quanto di più teatrale possa immaginarsi, almeno nell’ottica di quello che si definiva teatro di parola: Vivie mostra di non scandalizzarsi affatto, una volta venuta a conoscenza del segreto della madre, anzi la comprende, riconoscendo che la responsabilità di quella scelta era di una società sfruttatrice, che facendo lavorare in tenera età quattordici ore al giorno per una miserevole paga, chiudeva ogni prospettiva di felicità. Mrs Warren, a sua volta, non nutre rimpianti o vergogna, arrivando a definire lo stesso matrimonio una forma di prostituzione! Non mancano, nel proseguire dell’azione, ulteriori colpi di scena, sui quali è inutile qui soffermarsi; basti dire che il quartetto degli uomini, con i loro comportamenti, ciascuno a suo modo, dà ulteriore ragione a quanto ancora una volta dichiarato dall’Autore nella prefazione: “abbiamo anche un gran numero di prostituti (sic!): per esempio i drammaturghi e i giornalisti, ai quali io stesso appartengo, per non ricordare le legioni di avvocati, dottori, preti e politicanti, che adoperano giornalmente le loro più alte qualità a mentire i loro veri sentimenti; peccato, questo, in confronto del quale quello della donna la quale venda per qualche ora l’uso del proprio corpo, è così veniale che non vale neppure la pena di parlarne”.

Si comprende sempre più, a questo punto, perché la censura, dopo la prima del 1902, abbia impedito per circa vent’anni il ritorno sulle scene del testo; che, peraltro, non concede nulla a istanze moralistiche, pur mantenendo la sua tensione etica fra chiari segnali di un amaro cinismo. “La moralità – dirà Mrs Warren nel suo secondo e più drammatico colloquio con la figlia – è un’ipocrisia per tenere soggetta la gente ordinaria, vile e servile”; la “filosofia della vita” che le consente ormai di continuare l’esercizio di una professione, non più giustificato da nessuno stato di necessità, continuato solo per amore smodato del guadagno (“se non lo facessi io, lo farebbe qualche altra”!), la fa diventare crudele, non genuinamente commossa, rivendicatrice dei suoi doveri di madre (rinfacciandole addirittura  “l’istruzione universitaria che mi hai rubata, sí rubata”). Di fronte a questa compromissione degli stessi sentimenti familiari, non può esserci che l’addio di Vivie: una “scena madre” offerta, senza retorica melodrammatica, da un’ottima Giuliana Lojodice e dalla fresca, sensibile Federica Stefanelli.

Si applaude alla fine, convinti, contenti, per essere tornati a teatro come una volta, con lo stesso entusiasmo per ciò che si è visto, per come è stato recitato, per le riflessioni suscitate sull’oggi. In fin dei conti il teatro dovrebbe servire anche a questo, ancora, talvolta almeno!

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