Francesco TOZZA- Rose d’autunno….(“Zio Vania” di Cechov, regia di Pierpaolo Sepe. Napoli, Teatro Mercadante)

 

 

Il mestiere del critico


ROSE D’AUTUNNO

Leggiadre, malinconiche rose….

zio vanja andrea renzi

 


“Zio Vania” di A. Čechov    con Paolo Serra, Gaia Aprea,   Federica Sandrini, Giacinto Palmarini, Andrea Renzi, Diego Sepe, Fulvia Carotenuto    Regia di Pierpaolo Sepe Teatro Mercadante, Napoli, sino al 19 aprile

****

E’ il quarto zio Vania – questo del regista Pierpaolo Sepe – a comparire alla ribalta napoletana, in meno di un anno, a causa del focus che il NapoliTeatroFestival prima, la stessa programmazione del Teatro Stabile (ormai Teatro Nazionale) dopo, hanno voluto dedicare al grande scrittore russo, proponendone i capolavori teatrali, a volte – come nel caso specifico – in più di una versione. Indubbiamente Čechov meritava, e merita, tale insistita attenzione, ma per meglio giustificarla e caratterizzarla avrebbe giovato, forse, un’adeguata cornice scientifica (con seminari, conferenze, dibattiti aperti al gran pubblico, adulti e studenti insieme) che motivasse in modo più incisivo la comunque apprezzabile scelta, aldilà semplicemente dei gusti personali o dei calcoli (non si sa) del direttore artistico.

Il quale farà anche bene, da quando è alla guida della principale istituzione teatrale della città, a non far perdere la memoria dei grandi classici (come Čechov, appunto), o ad allacciarsi ai due sommi esponenti della drammaturgia napoletana (Eduardo e Viviani), magari attraverso i loro più rispettosi interpreti, ma rivela paurose chiusure culturali, non inserendo nei cartelloni fin qui presentati (e non fa, purtroppo, eccezione nemmeno il programma del prossimo triennio, appena reso pubblico, e riguardante il neonato Teatro Nazionale) nessuna delle esperienze  più originali, innovative e interessanti degli ultimi decenni (che magari avevano fatto la loro pur timida e tardiva comparsa nelle precedenti gestioni dello Stabile: Wilson, Nekrosius e fra gli italiani, il duo Tiezzi-Lombardi e la Raffaello-Sanzio). Così operando si rischia, anche per citare il nostro Čechov, di far la fine del povero Vania (Giacinto Palmarini), che alla bella Elena (Gaia Aprea) offriva soltanto “rose d’autunno, leggiadre, melanconiche rose”, laddove l’attenzione e gli appetiti sessuali, benché repressi, della donna erano rivolti al più ardimentoso e aitante Astrov (Andrea Renzi)! Ma il discorso varrà la pena riprenderlo, più concretamente, quando dai nuovi progetti, e i relativi programmi di massima, si passerà alle specifiche realizzazioni, sperando magari di poter sbugiardare antiche massime, come quella che vuole il buon giorno vedersi dal mattino!

Tornando allo zio Vania di Sepe, la cifra che lo contraddistingue, nella marcata essenzialità dello spazio scenico (a teatro, ormai si sa, non c’è cosa più affascinante del palcoscenico vuoto, o quasi), è in quel dinamismo esasperato, in quel quasi furore che anima il corpo degli attori (sin dalla bella  scena iniziale, con quell’inaspettato girotondo, senza scopo, senza senso) e fa da contrappunto all’inedia, al torpore, alla malinconica sofferenza che caratterizza un po’ tutti i personaggi, e che la lingua di scena  (in Čechov e nel temperato adattamento che ne ha effettuato Armando Pirozzi) già esprime assai bene. Contradittoria scissione fra anima e corpo, parola e comportamento, che resta ancora il fascino, sempre attuale, di quei personaggi, delle loro anime torturate e infelici, “la cui unica occupazione (come osservava, in un suo bellisimo saggio su L’anima russa, Virginia Woolf) è parlare, rivelare, confessare, attingere a qualunque lacerazione della carne e dei nervi, per estrarne quei peccati indecifrabili che strisciano nella sabbia, sul fondo di noi stessi”. Gli attori di Sepe (che sono, in parte, gli stessi che hanno dato vita ai Čechov italiani presentati dallo Stabile in questa stagione, quindi piuttosto rodati all’impatto) sono quasi sempre riusciti ad esprimere la materia nebulosa, in continuo fermento, di quelle piccole storie che in realtà non parlano di nulla, se non della nevrotica incapacità dei loro protagonisti di sottomettersi al controllo della logica, di dominare un’infinito numero di umori e malumori, con la loro sconcertante mistura di fragilità e bellezza.

A volte, tuttavia, qualcosa non funziona nel rapporto degli attori, e del loro regista, con il testo; e non per ragioni di ordine filologico, quindi di mancato rispetto nei suoi confronti (che a teatro, come assai spesso abbiamo sostenuto, non ha molta ragion d’essere), quanto per l’intima coerenza che lo spettacolo, una volta operate delle scelte, deve cercar di mantenere. Azzerare, per esempio, la presenza della vecchia maman, facendone ascoltare la voce per interphone (o cellulare che sia); vedere Sonja lavorare al computer mentre Astrov, il medico, ripetutamente dichiara di dover partire con i suoi cavalli (e gli esempi di tali incongruenze potrebbero ancora continuare), è la spia di inutili attualizzazioni, nemmeno portate in porto coerentemente. Rendere poi i personaggi, per fortuna solo in alcuni momenti, goffi, quando non addirittura ridicoli, se tiene conto della vexata quaestio sulla pretesa natura comica della drammaturgia čecoviana, alimentata – com’è noto – dallo stesso autore, determina delle lievi sfasature sulla struttura sinfonica dello spettacolo, anche rispetto a quella che sembra l’idea guida della regia (l’esplicitazione di un angosciato dramma generazionale), in tal modo parzialmente contraddetta.

Da non dimenticare, del resto, che gli autori sono spesso i peggiori interpreti delle loro opere.

 

 

Author: admin

Share This Post On