Franco LA MAGNA- I giorni di Fritz Lang (in retrospettiva alla rassegna di Bari)


La memoria



I GIORNI DI FRITZ LANG

In corso a Bari la retrospettiva quasi completa del grande regista alla sesta edizione del Festival diretto da Felice Laudadio

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Un universo obliquo, sinistro, espressionista,  fantastico, mitologico, profetico, apocalittico, bellico e perfino western e sentimentale. Eclettico, ma altresì coerente nella forma, nello stile, nei contenuti tesi ad una “estetica del male”; spietato analista degli abissi malvagi dell’animo umano; avverso al mito illuminista del “buon selvaggio”; universalmente acclarato come uno dei massimi maestri del cinema (l’estremo e provocatorio Godard lo ha definito “il simbolo stesso del cinema”), all’inquieto viennese poi naturalizzato tedesco Fritz Lang (Friedrich Christian Anton Lang) – morto all’età di 86 anni nel 1976 a Beverly Hills, mecca delle celebrità hollywoodiane – la sesta edizione del “Bif&st” (in corso a Bari dal 21 e fino al 28 marzo) dedica un’imponente retrospettiva curata dallo stesso direttore artistico del festival pugliese Felice Laudadio insieme a Carlo Di Carlo, con la collaborazione della Cineteca Nazionale e della Cineteca di Bologna.

L’avventurosa vita di Lang inizia con la fuga da casa, quando abbandonati gli studi d’architettura diventa irrequieto viaggiatore, pittore, finché scopre il cinema nella capitale francese. Rientrato a Vienna partecipa alla grande guerra con il grado di ufficiale dell’esercito austro-ungarico. Giovanissimo già sceneggiatore, rifiutata l’offerta del produttore Pommer di dirigere “Il gabinetto del dottor Caligari” (la cui sceneggiatura però il regista Wiene modifica su suoi suggerimenti), diviene in breve uno dei mentori dell’espressionismo tedesco (“Destino”, 1921, film d’esordio scritto con la moglie Thea von Harbou, che sviluppa una delle sue tematiche predilette, la lotta spesso perdente dell’uomo contro il fato) dando inizio ad una ineguagliabile, per quanto breve, stagione di successi (“Il dottor Mabuse” capolavoro dell’ordito poliziesco; “I nibelunghi”, grandiosa epopea decorativa del mito ariano impastata d’antiche leggende; l’osannato e profetico “Metropolis” (1927), tratto da un romanzo di Thea, ineguagliata vetta finale del cinema tedesco muto). Pienamente consapevole del ruolo centrale del regista, Lang ridesta la sua ascesa artistica accentuando il tema della colpa e dell’ambiguità della giustizia umana con l’angosciante “M. Il mostro di Dusseldorf” (1931) che avrebbe voluto intitolare “Gli assassini sono tra noi” (con chiari riferimenti ad Hitler), suo primo film sonoro. Riprende l’anno successivo l’abominevole personaggio di Mabuse (quando è già fortemente osteggiato dal nazismo, che simbolicamente continua a rappresentare nelle sue opere) firmando la sua ultima opera tedesca “Il testamento del dottor Mabuse” (1932), prima di “fuggire” in Francia (dove gira il fiabesco “La leggenda di Liliom”) e subito dopo negli Stati Uniti d’America.

Negli USA inizia, già dal 1934, la lunga carriera hollywoodiana, alternando insuccessi a successi, senza mai raggiungere lo stesso prestigio e autorevolezza conquistati in patria, dove la moglie (da cui divorzia) continua a girare film collaborando con il regime nazista e divenendo una delle più note cineaste del terzo Reich. Comprende subito l’organizzazione della macchina produttiva hollywoodiana e comincia a praticare – mantenendo tuttavia una consumata perizia tecnica, formale, tematica – i maggiori generi cinematografi. Spazia dal dramma sociale (“Furia” sul tema del linciaggio, “Sono innocente”, “You and Me”), all’amatissimo e “indigeno” western (“Il vendicatore di Jess il bandito”, “Fred il ribelle”, “Rancho Notorius”). Si batte in prima persona contro guerra e nazismo (“Anche i boia muoiono”, scritto con Bertold Brecht; “Duello mortale”, “Maschere e pugnali”, “Il prigioniero del terrore”). Applica la sua esperienza espressionista al noir (di cui può considerarsi corifeo) e al poliziesco americano (“La donna del ritratto”, “La strada scarlatta”, “Dietro la porta chiusa”, “Bassa marea”, “La confessione della signora Doyle”, “La bestia umana”, “Gardenia blu”, “Il grande caldo”, “Quando la città dorme”, “L’alibi era perfetto”), ma non disdegna anche film avventurosi (“Il covo dei contrabbandieri”) o bellici (“I guerriglieri delle Filippine”).

Rientrato in Germania alla fine degli anni ‘50 dopo il dittico avventuroso (“La tigre di Eschnapur” e “Il sepolcro indiano”) chiude con un ritorno alle origini “mefistofeliche” (“Il diabolico dottor Mabuse”,1960) attualizzando il personaggio creato nei lontani anni ’20. Deposta definitivamente la macchina da presa, vive gli ultimi tre lustri della sua vita onusto d’impegni e riconoscimenti. Il “Bif&st” offrirà circa 50 titoli “langhiani” (compresi otto film ispirati a “Metropolis”, riproposto nell’edizione colorizzata e musicata da Giorgio Moroder) accompagnati da materiali documentari e iconografici. Una chicca imperdibile per cinefili e pubblico eterogeneo che in questi giorni affollano le sale del multiplex “Galleria”, scoprendo o riscoprendo una dei grandi maestri del cinema contemporaneo

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