Francesco TOZZA- Cirillo, che per amore non graffia più (“Zoo di Vetro”, “La gatta sul tetto che scotta”, di scena a Napoli e Salerno )

 

Il mestiere del critico


CIRILLO, CHE  PER AMORE  NON ‘GRAFFIA PIU’

Lo zoo di vetro di Arturo Cirillo

Le protagoniste femminili dello Zoo di Vetro

’Zoo di vetro di Tennessee William con Maria Marigliano, Monica Piseddu  Arturo Cirillo, Edoardo Ribatto  regia di Arturo Cirillo   -Napoli, Teatro Nuovo

La gatta sul tetto cheotta di T. Williams  con Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni,   Franca Pennone, Paolo Musio,  regia di Arturo. Cirillo – Salerno, Teatro Verdi

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Ciò che induceva sempre a non mancare agli spettacoli di, e/o con, Arturo Cirillo (di sicuro uno degli esponenti  più interessanti della c. d. nuova scena italiana) era quella specie di inchiostro nero (un grottesco a fior di pelle, non sempre spinto verso screziature espressionistiche, ma mai represso da letture ingenuamente letterali o banalmente realistiche) che versava sui testi affrontati, come interprete prima, anche come regista in un secondo momento. Difficile dimenticare (per limitarci a qualche citazione in proposito) il suo grazioso, quasi settecentesco (!) – ma per questo tanto più perfido – Scarpetta (Mettiteve a fà l’ammore cu me!), il veloce, quasi rossiniano Ruccello de L’ereditiera o quello straziante, nella sua (in)volontaria comicità, de Le cinque rose di Jennifer, gli audaci ma eleganti smascheramenti molieriani de Le intellettuali e de L’avaro, il rivelatore Pirandello de La Morsa, l’emblematica volgarità del Vantone plautino-pasoliniano. Poi, da appena due stagioni, improvvisamente, la svolta, quasi una conversione sulla strada di Damasco: l’approdo ad una vena lirica, intrisa di nostalgica memoria e non lieve melanconia, in virtù dell’abbraccio ad un teatro (quello di Tennessee Williams, con ben due messe in scena consecutive) da tempo abbandonato dai nostri palcoscenici e che invece tanto appassionò – anche nelle sue versioni cinematografiche – le generazioni del dopoguerra, fino a tutti gli anni cinquanta e i primi sessanta, quando le più consistenti, e più specificamente teatrali, preoccupazioni delle nascenti neoavanguardie (comprensibilmente ma evidentemente settarie, comunque solo a carattere linguistico-formale) lo relegarono in un passato da dimenticare, esclusivamente drammaturgico.

Si trattava, però, di una drammaturgia appassionante, perché estremamente passionale…, di sicuro coinvolgente, che faceva leva sulle emozioni, forse ancora represse, di spettatori non ancora approdati, dopo la grande abbuffata delle stesse, ai lidi della fredda episteme e della pur indispensabile ricerca delle ragioni o degli strumenti del fare teatro. Una drammaturgia con le sue parti colme di pathos, di sottili sfumature psicologiche che, opportunamente calibrate (e non mancavano certo i grandi attori a interpretarle) offrivano sulle tavole del palcoscenico tutta la fisicità di un teatro ammaliante, carico di conflitti affettivi, spesso di un dirompente eros, tanto più coinvolgente e inquietante quanto più apparentemente represso: trame disperate, in ambienti non solo climaticamente torridi, in un Sudamerica geograficamente per nulla circoscritto, anzi sufficientemente emblematico, alle prese con le contraddizioni della nascente contemporaneità.

Ma – c’è da domandarsi – sono ancora attuali quei personaggi, quelle tensioni strappate ad un milieu che non riusciva ancora a viverle apertamente, per cui aveva bisogno, ancora quasi catarticamente, di vedersele riproporre in quella specie di specchio delle proprie brame che continuava ad essere la scena teatrale (e lo schermo cinematografico)? Probabilmente ancora si, almeno per gli esponenti di quelle generazioni, cui il teatro di Williams si rivolse, e ne decretarono il pieno successo; a loro sembrano unirsi, oggi, i più giovani (ma ormai non più tanto nemmeno loro!) che, probabilmente come Cirillo, stanchi di sperimentare soltanto, o comunque mettere in farsa (pardon, in scena), il già fatto, magari per semplicemente sorriderne, sembrano voler riscoprire, a loro modo certo, il teatro del tempo che fu, senza più nuovismi finalmente, che nulla hanno a che fare col vero nuovo, al quale si può arrivare in virtù di autentiche esigenze, non certo con quella insipiente omologazione cui la ύβρις contemporanea (ci piace proprio chiamarla così), nella sua ansia di seppellimento di ogni memoria storica, è ormai approdata. E, tuttavia, rispolverare la memoria, anche del passato teatrale, non dovrebbe certo tradursi in sterile, comunque poco originale ripiegamento su di esso, come purtroppo avvenuto in più di un caso. Ci sarà, pure, una via più equilibrata da poter percorrere, tra il conformistico nuovismo e il mai spento passatismo, a sua volta sempre in agguato! La storia, del resto, ovviamente anche quella del teatro, difficilmente si ripete, se non come farsa: questa ormai ben nota verità ci può essere d’aiuto anche nel caso specifico.

Comprensibile, allora, la riscoperta amorosa di Williams, da parte di Cirillo: il suo Zoo di vetro della scorsa stagione, appena passato sul palcoscenico del Nuovo a Napoli, è toccante, con quell’insopprimibile nostalgia cui, si diceva, è difficile sottrarsi: inquieta ancora l’insoddisfazione di Tom, in un ambiente asfittico che può essere di nuovo, o ricordare – magari attraverso Ruccello – quello proposto, nel lontano 1944, dallo scrittore americano; con quella madre (Milvia Marigliano) invasiva e ottusamente attaccata ai suoi due figli, ennesima donna sull’orlo di una crisi di nervi, e quella figlia (la sempre brava Monica Piseddu), chiusa nel suo mondo di vetro (come gli animaletti del piccolo zoo che colleziona), desiderosa, nella sua fragile, tenera insicurezza, di un contatto più pieno, anche più diretto, che non può certo offrirgli l’affetto del pur premuroso fratello, il quale, d’altra parte, vive i suoi problemi e le sue giornate chiuso in un sogno che solo l’assidua frequenza del cinematografo sembra assicurargli. Uno spiraglio, anche se programmato, sembra aprirsi alla ragazza, con l’arrivo del giovane ospite (Edoardo Ribatto), intrigante ma da parte sua poco disponibile ad un più duraturo rapporto, come rivela la pietosa bugia finale, non molto credibile, di un precedente e già consolidato rapporto. Una storia, insomma, d’altri tempi, che può ancora convincere o comunque commuovere, in un’interpretazione lirica (fondamentale la musica di accompagnamento, con la voce di Luigi Tenco, che ben si inserisce, qua e là), non senza – però – qualche goccia di quell’inchiostro cui si accennava all’inizio, da parte del Cirillo regista, che carica con leggero espressionismo taluni comportamenti scenici dei personaggi (quello della madre, per esempio, perché anacronisticamente invasiva, o quello della sorella, talvolta eccessiva nei suoi smarrimenti), ma soprattutto da parte del Cirillo attore, che fa di Tom un giovane sognatore, magari un po’ ribelle, ma che riesce a strappare allo spettatore pure qualche sorriso, per gli immancabili tic e qualche reazione, volutamente eccessiva, agli schemi comportamentali che gli si vogliono imporre.

Diverso il caso de La Gatta sul tetto che scotta (passata al Verdi di Salerno, appena un mese dopo la prima alla Pergola di Firenze); qui Cirillo non si è ritagliata nessuna parte ed è quindi assente come attore, ma in definitiva, spiace dirlo, lo è anche come regista, nonostante la firma in locandina (serviva, forse, da specchio per le allodole al botteghino, data ormai la notorietà, meritatamente raggiunta, del resto, da Cirillo, almeno come attore? Ma per questo non bastava la Puccini!?). Non abbiamo riscontrato nello spettacolo particolari interventi di regia (che non può essere solo direzione, più o meno illuminata…., degli attori, stando comunque attenti, anche in quest’ambito, a non cadere in scelte arrischiate, obbedendo magari alle sempre condizionanti leggi del mercato). E non parliamo, questa volta, di interventi all’insegna di quel grottesco (l’urticante veleno) cui si accennava all’inizio, né della vena lirica conseguente alla nuova cifra stilistica venuta a galla con lo Zoo di vetro del primo incontro. Ci si riferisce ad una più o meno originale, o comunque ad una qualsivoglia idea di regia, l’unica che giustifichi la messinscena di un testo, che altrimenti si farà bene a lasciare sulla pagina, alla mercè di quel primo regista che in ambito drammaturgico è pur sempre il lettore.

Su una scena non particolarmente indovinata (qualcuno vi ha visto, non sappiamo come, un richiamo a Hopper, e certo, con l’immaginazione, si può vedere tutto, o quasi!), si sono mossi gli attori, alle prese con i lunghi dialoghi del testo, che restano belli, intriganti, nel proporre le inquiete vicende, ancora una volta, di una famiglia: sempre lei, con i suoi conflitti, le sue contraddizioni, al centro degli interessi del drammaturgo; questa volta con le frustazioni di una donna, di modeste origini, assai poco soddisfatta da un menage matrimoniale in bianco, con un marito a sua volta frustrato dalla scoperta, chissà poi se veramente tale, di essere stato l’oscuro oggetto del desiderio di un caro amico, onde la sua chiusura solipsistica con conseguente abbandono all’alcol, in una famiglia dove, al solito, regna l’incomprensione, l’ipocrisia, l’interesse economico, mai veramente affettivo, di parenti terribili, fra un padre-padrone che solo la morte imminente riesce a far sciogliere, ma non certo a cambiar modo di intendere la vita, e una madre, più o meno volutamente ignara di tutto, una donna sull’orlo di una crisi di nervi anche lei. In definitiva, ancora un melò, forse più che negli altri testi di T. Williams, che nel genere, si sa, era particolarmente a suo agio, e che, del resto, se ben recitato, può risultare ancora convincente.

Nel nostro caso sembravano più a loro agio i c. d. comprimari: Paolo Musio nel ruolo del padre e Franca Penone, perfetta nei suoi tic di madre perbenista (una Franca Valeri in sedicesimo). Non male, ma senza molti chiaroscuri, pur necessari alla non facile parte di Brick, la recitazione di Vinicio Marchioni, da non molto uscito dal Tram dello stesso autore, per la regia però del più incisivo e illuminante (anche in senso letterale!) Antonio Latella, il cui mentalismo…. é comunque preferibile all’ingenuo realismo dello spettacolo di Cirillo. Il quale avrebbe fatto bene – e sarebbe stato (questo sì) un intrigante tocco di regia, bagnato sempre in quell’inchiostro nero di cui si diceva all’inizio – a sostenere, lui, la parte di Margaret, la gatta, invece della Puccini. Che al suo debutto in teatro, dopo non poco cinema e televisione, ha dimostrato di non possedere, almeno nel caso specifico, le physique du rôle. Bisogna riconoscerle, però, una rara coscienza professionale e un discreto intuito teatrale, se è vero che, nelle ambasce del debutto, durante le prove, tutt’altro che sicura delle proprie capacità, ha lei stessa ventilato l’ipotesi della Gatta/Cirillo. Lo spettacolo ne avrebbe senza dubbio guadagnato.

 


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