Teresio SPALLA- Breve come un sospiro (in memoria di Gerard Philipe)

 

La memoria


BREVE COME UN SOSPIRO

In ricordo di Gerard Philipe – quasi dimenticato (in Italia) dopo la sua morte precoce

 

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Sono già trascorsi cinquant’anni. Dal 25 novembre 1959 siamo senza Gerard Philipe. Morì improvvisamente a trentasette anni. Recitava professionalmente da quando ne aveva solo diciannove. Allievo e poi amico di Jean Vilar (il fondatore del teatro francese moderno) ricreò con lui il Thèatre National Populaire di cui mantenne sempre le redini, anche negli anni della folgorante affermazione cinematografica, accontentandosi del compenso minimo sindacale .Fu uno dei grandissimi, certo il più versatile, simpatico e affascinante, attore francese del Novecento. La sua notorietà, in Francia, fu pari a quella di un principe non solo del palcoscenico e dello schermo ma della vita sociale dell’intera nazione.

In Italia, e quasi dovunque a dire il vero, la fama di Gerard Philipe cominciò con l’interpretazione di “Il diavolo in corpo” (’46) – dal sarcastico e allora scandalosissimo romanzo di Raymond Radiguet, un altro precoce talento stroncato a poco più di vent’anni – in cui rappresentò magnificamente tutta l’inquietudine e le contraddizioni, le speranze e le incertezze, la fame di vita e la spontanea energia, della gioventù dell’immediato dopoguerra anche se il film è ambientato al tempo della prima guerra mondiale.

Stravolto dalla passione per una donna ben più adulta di lui, il protagonista, incarnato per sempre da Gerad Philipe, cerca in lei la sensualità dell’amante, l’affetto della madre, l’amore delle coetanee, e anche un’inconscia ma profonda risposta, concreta e carnale, al miscuglio di sensazioni – timore, estraneità, angoscia, richiamo voluttuoso e pressante dello spirito – riscaldate dalla chiamata alle armi per la macelleria delle trincee.

Ma già nello stesso anno Gerard Philipe aveva colpito tutti con la sua incarnazione dell’irrimediabilmente buono e incompreso Muskin in “L’idiota” (da Dovstoevskij, film ingiustamente dimenticato di Georges Lampin) in cui, senza emendarsi dalle contorte problematiche dello scrittore russo, trasmise – per mezzo dell’amore per l’umanità e l’autocondanna al martirio del suo personaggio – le vocazioni positive di chi aveva immolato la giovinezza per un’umanità purificata dalla tragedia nazifascista, per un mondo dove l’arte della comunicazione fosse comprensibile e accessibile a tutti, concorrendo così a formare una nuova generazione in lotta per un futuro migliore di eguaglianza e giustizia.

Gerard Philipe era dotato di una bellezza affascinante ma non pretestuosa. Non usò mai il suo indiscutibile charme per guittate da amante latino. Infatti era amato dal pubblico femminile quanto da quello maschile che poteva vedere in lui un fratello, un compagno di giochi, oppure lo specchio di tante aspettative di un’epoca e quindi tante delusioni dei tempi successivi. I suoi occhi accesi di luminosità e spensieratezza seppero irradiarsi di ardore sconfitto e riempirsi di lacrime.

La sua concezione della professione, per quanto vissuta con felicità, fu seria e severa. Ma, pur avendo impersonato anche personalità infide e sgradevoli, egli rimase sempre il simbolo di una fulgida purezza che incantava a teatro e al cinema. Basta vederlo nei panni dell’indomabile spadaccino in “Fanfan la Tulipe” come in quelli dell’ambiguo seduttore in “Le donne degli altri” per comprendere quale fosse la sua vitalità espressiva.

Il suo metodo interpretativo era dettato solo dall’istinto. La sua recitazione era asciutta e controllata, spontanea e modernissima, antiromantica anche quando mise in scena personalità dominate dal sentimento come ElCid, RuyBlas, Don Carlos. Anzi, si può dire che egli diede a questi esseri romantici controllati dal destino una nobiltà nuova, vivace, accessibile, sottraendoli all’infelicità a cui li aveva condannati il vecchio stile teatrale e portandoli a spasso con agile leggerezza e rinnovato coraggio.

Fu sepolto – nel costume del Cid, che aveva più volte indossato con eccezionale partecipazione di pubblico – in una tomba molto modesta, nel cimitero di Ramatuelle, una piccola cittadina situata in un punto dove si confondono i confini della Provenza e della Costa Azzurra.

Per tanto tempo, dopo la sua morte, cineasti e attori di ogni tendenza, radunati in primavera al festival di Cannes, usavano recarsi in comune e accorato pellegrinaggio davanti alla sua sobria lapide dove, trascinati da una commozione ancor viva, si lasciavano poi andare ai racconti delle sue imprese. Tra i visitatori italiani dominava la memoria di come, per disguidi perversi, né Visconti né Strehler riuscirono a realizzare progetti concepiti apposta per lui.

La moglie Anne raccontò la loro storia d’amore e reciproca devozione in un libro – “Breve come un sospiro” – che divenne subito un best-seller dal successo stratosferico. Più di dodici anni dalla pubblicazione certe sue pagine, ricche di nostalgia e fiera memoria, erano ancora inserite quasi obbligatoriamente nelle nostre antologie delle scuole elementari e soprattutto le medie inferiori. Insieme a testimonianze di tragedie ben più epocali – “Il diario di Anna Frank” e “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana ed europea” – il testo veniva indicato didatticamente come esempio di ottima letteratura nata dalla contingenza, nel caso non storica ma intimamente personale.

Da parecchi anni “Breve come un sospiro” è andato fuori commercio. Così come i film con Gerard Philippe – anche quelli a colori e per lo più opere coprodotte con l’Italia – passano raramente, a notte fonda, spesso imbottiti di pubblicità sulle più scalcagnate emittenti locali.

In Francia le celebrazioni sono state ottime. La sua filmografia completa è stata restaurata e riprodotta in dvd così come le scarse riprese televisive del suo teatro.

Molti volumi erano già usciti e altri sono stati pubblicati per l’occasione. Nel suo paese, come in molta parte d’Europa, non è mai stato dimenticato. Da noi, forse per un inconscio desiderio di punirlo per non essere mai andato ad Hollywood, ben pochi se ne sono ricordati. Ma si sa che l’Italia ha, da almeno una ventina d’anni, la memoria sempre più corta.

Senza la conoscenza del passato è impossibile praticare bene qualsiasi professione artistica. Qualche volta appare una personalità geniale, dalle virtù innate. Ma normalmente tutti dovrebbero studiare cosa c’è stato prima per non fare dopo cose inutili ai limiti del dilettantesco. Eppure quando, durante periodiche edizioni, chiedo di Gerard Philipe o invito a conoscere i suoi film, vedo lo sgomento sui volti dei giovani esaminandi i quali, nella maggioranza dei casi, pur provenendo da scuole di recitazione o attigue facoltà universitarie, non sanno nemmeno di chi sto parlando.

Vagli a dire che – se ci sono stati straordinari attori che recitavano col cervello, altri col corpo, alcuni col cuore, certi con l’estraniazione o all’opposto l’identificazione totale nel personaggi – Gerard Philippe recitava col cervello, col corpo, col cuore. E questa sua naturale propensione si trasformava in intensa sensibilità. Pochi hanno saputo essere poeti recitando. Lui ci riuscì.

Rifiutava la rima gonfia e decadente, la retorica e l’enfasi. Nel suo verseggiare poteva concentrarsi molto della cultura moderna : l’amaro scetticismo di Paul Eluard e Prevert, la prosa secca e dolorante di Camus. C’era in lui un’intagliatura lirica simile al lavoro che il Picasso alle soglie del cubismo aveva fatto squadrando i volti e le carni di “Lesdemoiselles d’Avignon”.    Non per questo, figlio e protagonista del tormento contemporaneo, Gerad Philipe non ignorava i colori del trascorso impressionismo. In un paio di film, quando passeggia su Bois de Boulogne, sembra che nella sua festosa giovinezza vibrino le note di Satie immerse nei dipinti di Degas e Monet.

Sarà per questo che, tra tante strabilianti prestazioni, quella in cui lo preferisco ricordare è l’interpretazione di un pittore – Modigliani – in “Montparnasse” (“Montparnasse 19, ’58) suo terzultimo film e ultimo tra i migliori, ispirato a un testo di Michel-Georges Michel intitolato “LesMontparnos” e in italiano “Gli amanti di Montparnasse”. Un altro libro che si trova solo in qualche biblioteca molto fornita.    Era stato un progetto, a lungo covato, di uno di quei grandi registi – MaxOphuls – maestri nel saper descrivere i sentimenti con pudore e partecipazione ma soprattutto dotati di quella rara capacità di inserirli nelle loro epoche, testimonianza delle ipocrisie e malizie del passato.

L’autore morì all’inizio delle riprese e fortunatamente fu sostituito da un collega – Jacques Becker – capace di essere fedele alle sue istruzioni e alla sceneggiatura   originaria. Che Gerard Philipe dovesse essere il protagonista fu fuori discussione per tutti e due. Informato dal rallentamento che aveva subito la preparazione della pellicola il pubblico attese impazientemente che fosse terminata e la salutò immediatamente di uno splendido successo.

La vita di Amedeo Modigliani – nato a Livorno nel 1884 e morto a Parigi, a 35 anni, nel 1920 – è stato oggetto, soprattutto dopo la tardiva scoperta popolare degli anni trenta, di una memorialistica pettegola ai limiti del morboso che anche recentemente ha partorito un paio di strabiche bojate cinetelevisive.

Certamente la figura dello scultore e pittore si presta al romanzo e al romanzesco : ebreo, di famiglia socialista ed empito libertario, affetto fin da ragazzo da una pleurite trasformatasi presto in turbercolosi inguaribile; e nonostante ciò uomo   affascinante e dall’animo effervescente, amante infuocato delle donne da cui fu altrettanto amato e tra le quali troviamo anche figure importanti dell’emancipazione femminile come la scrittrice inglese Beatrice Hastings e la poetessa russa Anna Achmatova.

Del resto, se proprio si volessero rievocare le avventure e gli amori della sua breve vita, vi si potrebbero ricavare ben più di uno sceneggiato a puntate (quello che è stato fatto dalla Rai, nel ’90 – arido e noioso da risultare estenuante e antipatico – è stato rimosso da spettatori e critici subito dopo la messa in onda) dove Modì (come fu subito chiamato a Parigi) potrebbe risorgere nella sua tensione creativa, nella sua genialità incontestabile, che, pur compresa dai colleghi fin dal suo apprendistato italiano tra i macchiaioli e l’insegnamento di Giovanni Fattori, in vita non fu capita al di fuori dalla cerchia di artisti e intellettuali che animarono la straordinaria Parigi, tesa tra Montmartre e Montparnasse, tra il 1870 e l’occupazione tedesca del 1940.

Modigliani creò, nella scultura, tutte le premesse a quanto di più innovativo è stato fatto dopo, fino all’iperealismo più attuale.

Non a caso, con le sue “teste” si lasciò ispirare anche dall’arte primitiva africana importata a Montmartre alle fine dell’Ottocento e fonte di elaborazione particolarissima soprattutto in Picasso. Nella pittura fu il genio del trapasso tra il figurativismo e l’astrattismo mettendoci però in mezzo un’originalità solo sua. Non a caso riconosceva nella fotografia e nel cinema la continuazione di quel primato di cui le arti immobili dovevano e potevano fare a meno.

Il livornese di Parigi aveva quindi capito quello che solo un secolo dopo è stato accettato : il linguaggio dell’arte come contaminazione, evoluzione di stagioni diverse, ribollimento di sensazioni e fusione della semplicità primordiale con la riproducibilità tecnica imposta dalla coscienza dello smarrimento delle certezze assolute e dei prototipi intangibili.

Non per questo è stato spesso ritratto come l’ “ultimo romantico” cioè l’esaltatore di un mondo che era lontanissimo dalla sua creatività. In questa raffigurazione giocarono non solo le sue vicende sentimentali ma l’uso di hashish e l’alcolismo che, negli ultimi anni, accelerò la sua morte disgraziata.

Va detto che gli esperimenti con le droghe erano caratteristici nella Parigi del suo tempo dove la ricerca dell’ispirazione era un obiettivo quasi improrogabile. L’eccentrico Max Jacob aveva persino scoperto che sniffando una micidiale vernice d’acero poteva entrare in un virtuosismo onirico che ha pur generato le sue virtuose poesie. Forse non esisterebbe il teatro di Alfred Jarry se questi, immerso in quel mondo cosmopolita e anticonformista, non avesse attinto a tutte le esperienze del corpo per vivificarle in quelle dell’anima.

Ma va chiarito che, se per molti fu un esperimento ispirativo, per lui l’hashish e lo stramonio furono una cura per i suoi polmoni malandati. E’ accertato che molti, prima dell’invenzione degli inalatori carditostimolanti, fecero uso di derivati dalla Cannabis per curare l’asma bronchiale. Tra loro Marcel Proust e Che Guevara. Inoltre, se Modigliani beveva, il suo non era un vizio né una fuga dalle responsabilità, ma un momentaneo rimedio alla disperazione che lo perseguitava insieme alla pleurite. Insomma, se c’è qualcuno che va rispettato anche nei suoi espedienti più funesti questo è Modì.

Comunque non troverete niente di scabroso in “Montparnasse” di Becker. Non per niente il film racconta solo l’ultimo periodo della vita di Modigliani, esimendosi cos’ dal metterlo vicino al Parnaso della cultura sua contemporanea. E Gerard Philipe, calato nel ruolo come se ci fosse nato, ce lo mostra ormai sperduto nel quartiere dove non ci sono più i suoi amici illustri. Alcuni sono morti. Altri, finalmente baciati dal successo, si sono trasferiti. E lui è rimasto, nella soffitta al n°19, dove continua a dipingere dopo che ha dovuto smettere di usare lo scalpello. Le polveri di marmo e pietra si erano infatti rivelate insopportabili per il suo apparato respiratorio già abbastanza compromesso.

Nonostante ciò egli ritrova una grande vitalità quando riesce a ritrarre i suoi soggetti preferiti che ormai sono soprattutto i volti e i nudi di donna. Dopo un’esistenza in cui la soddisfazione sessuale non gli è mai mancata, Modigliani ha ora interesse per l’anima delle sue modelle : figlie di gente del quartiere, ex amanti ancora generose con lui, qualche volta figuriniste provenienti dalle grandi sartorie che riesce a pagare sottraendosi i pochi soldi per la cena. E, osservandone la freschezza fanciullesca o la prosperosità di una bellezza matura, riesce, come si è detto, a “spogliarne l’anima”.

Ed ecco le sue ragazze col collo a tubo, gli occhi come ferite lancinanti, la bocca che tradisce il grido per un muto dolore. Ma, quando dai lucernai entra la luce del sole nel cielo nitido e azzurro, anche l’introspezione di Modigliani si trasfigura. Le sue donne sono ora avvolte in una tiepida e accogliente serenità. Le labbra disegnano quasi un sorriso di lieve contentezza. I seni turgidi sono adagiati con tenerezza nel sonno o in un quieto stato di dormiveglia. I capezzoli sembrano essere stati appena baciati da un amante discreto e cortese o avere allattato un neonato già intenerito dal siero materno. Gli occhi mostrano una soddisfazione passata dalla voluttà al riposo dei sensi.

Ma i momenti salienti del film non sono quelli in cui Modigliani crea. Anzi, il regista ci mostra del momento creativo solo gli istanti necessari, come se, per pudore e rispetto, non volesse invadere troppo il campo di un’altra arte. E’ invece importante la relazione d’amicizia che il pittore mantiene con le sue due ex fidanzate, sempre avvinte da lui, che lo tengono sotto osservazione e cercano di convincerlo, insieme al suo fedele amico Sborowksy, a bere di meno e dedicarsi maggiormente alla promozione di se stesso.

Una è Rosalie, l’ostessa di origine italiana che se può non gli fa mancare il cibo o una visita medica. L’altra è Beatrice Hastings che passa da un amante ricco ad un altro per mantenersi a Parigi ma anche per sostituirli momentaneamente all’uomo che ama.

Queste due donne, diversissime nel carattere come nell’origine sociale, sono gelose l’una dell’altra ma finiscono col solidarizzare quando Modigliani conosce Jeanne che sarà la sua ultima compagna e la madre di sua figlia. Non a caso Rosalie e Beatrice, anche se nella realtà erano più giovani, sono interpretate da due creature dal fascino stagionale : la nostra Lea Padovani, presenza sensuale e quasi materna, il fisico opulento, gli occhi grandi e un pò tristi; Lilli Palmer – l’attrice tedesca che fuggì dalla Germania nazista per una bella carriera in Inghilterra e un pò dovunque – dal fascino ironico, le forme strette maliziosamente in abiti eleganti, lo sguardo avvinto in un erotismo raffinato e impudico.

Modì ha conosciuto Jeanne alla scuola di disegno dell’Académie Colarossi dove anche lui si reca a fare schizzi. Lei è di famiglia agiata e fortemente antisemita. Ma è giovane; il suo animo è fresco; il suo cuore è entusiasta di tutto e cerca nella pittura una fuga dalla ristretta mentalità familiare. E’ minuta, ancora un pò ossuta, ma con gli occhi straordinariamente vivaci e tutto lo splendore della sua età.

La cacciano di casa e presto vanno a vivere insieme. E insieme vivranno, tra gli attacchi di tisi e la discrezione dei pochi amici, un’ultima boheme fatta di stima biunivoca e complicità anche artistica.

Questo episodio non lo vediamo ma è rimasto celebre il duplice ritratto che, in un momento di estasi, si fecero l’un l’altro.

Anouk Aimee, che impersona Jeanne, diciannovenne quando conobbe Modigliani – aveva allora già ventisei anni. Ma l’attrice, tra le più sensibili e raffinate della sua generazione, ci appare lo stesso in un’aura di brava ragazza borghese, quasi adolescenzialmente colpita da Gerard  Philipe il quale, con la camicia sbrindellata e la rattoppata giacca di fustagno – soltanto accennando a smuovere il ciuffo sulla fronte, o guardandola di sbieco salire a Montparnasse da una scalinata dove dapprima è confusa tra la gente che va e che viene e poi risalta in tutta la sua esultanza – riesce a rendere tutta l’eccitazione e la nascosta malinconia che, i quei momenti, non si stenta a credere abbia provato veramente Modì.

Ma l’inferno di Modigliani non è mai stato la sua soffitta. Il male è fuori. Sborowski riesce ad organizzare una mostra in una piccola ma prestigiosa galleria. Modì teme che non verrà quasi nessuno. E invece il salone di Madame Solomon si riempie a poco a poco di gente di ogni tipo. Ci sono i curiosi, gli interessati, i critici che stanno sul chi vive e quelli più ottimisti. Ci sono persino i mercanti che intravedono nelle opere appese alla parete un futuro affare molto proficuo. Tutto sembra andare per il meglio.

Così, proprio allora, Modigliani viene preso dalla disperazione depressiva. Si rende improvvisamente conto che il successo sta arrivando quando ormai la vita gli sfugge. Sente quanto il destino sia stato crudele con lui e, avvilito e devastato dalla tosse, fugge via. Ma, anche per le sue opere, la scalogna è ancora in agguato. Poco dopo l’esposizione in vetrina del mitico “Nudo sdraiato a braccia aperte” provoca l’ira dei passanti più pruriginosi e la polizia interviene. I quadri possono rimanere appesi all’interno ma ormai nessuno vuole essere coinvolto nello scandalo e presto la galleria si svuota.

E in questo frangente interviene un altro personaggio chiave che è un’invenzione molto intelligente degli autori e, in realtà, ispirato a diverse figure di impresari e affaristi d’arte che frequentavano allora Montparnasse. Si chiama Morel ed è raffigurato da Lino Ventura, il grande attore allora non ancora affermato come protagonista di primo piano, il quale lavora così bene sul carattere che non capisci mai se è veramente ammirato dai quadri di Modì o vede in essi soltanto un investimento economico.

Sarà Morel a concludere il film. Trascorso qualche mese dai fatti della galleria Solomon, Modigliani è in preda alla febbre emorragica che sarà la causa finale della sua morte. Non riesce più a dipingere. Le mani gli tremano. La tosse gli scassa il torace. Per questo non vuole tornare a casa da Jeanne e la figlia appena nata. Intorpidito sul ciglio della strada, viene svegliato da un temporale improvviso. Allora cerca disperatamente di raggiungere la compagna. Forse insieme a lei riuscirà a vivere ancora un momento di felicità, a riprendere in mano i pennelli. Completamente fradicio cammina nelle strade deserte mentre la pioggia non gli da tregua.

Morel è dietro di lui. Lo insegue. Possiamo credere che voglia aiutarlo. Ma invece lo tallona tenendo sempre una breve distanza. E quando il pittore, stremato e inzuppato, cade a terra, non lo soccorre ma verifica soltanto il decesso. Allora si precipita in soffitta. Fa credere a Jeanne di essere un amico venuto a prendere dei quadri venduti. Lei è contenta e lascia fare. Lui mette sotto le braccia tutte le tele che può e ridiscende in fretta i troppi scalini di via Montparnasse n°19.

Il film si conclude con questa amara riflessione visiva. L’affermazione e il successo di Modigliani dipendono soltanto dall’avidità di un ottuso mediatore.

Tutto questo è una licenza narrativa, un’amara considerazione sul valore reale delle opere di un artista. In verità Modigliani muore all’ospedale e, il giorno dopo, Jeanne si getterà dal balcone della soffitta. La figlia, salvata da Zobrowski e la moglie, verrà poi adottata dalla sorella del pittore e farà in tempo a vederlo divenire un genio tra i posteri. L’anno scorso uno dei rari paesaggi dipinti da suo padre è stato venduto ad un ignoto compratore per trenta milioni di euro.

Dopo l’infanzia la signora Modigliani ha sempre vissuto a Parigi mantenendo i fiori freschi sulla tomba del genitore al PèreLachaise. E’ morta nell’84, proprio quando i tre ragazzi di Livorno inscenarono il ritrovamento delle false “teste” in un canale di scolo. Il fatto fece epoca e suggerì di nuovo la fama di Modì artista maledetto e autodistruttivo al punto di lasciar smarrire le proprie sculture per quanto si potesse supporre che poteva ben averle perse di vista a 64 anni dalla morte.

Ma lei, la figliola, aveva già scritto un libro interessante e genuino – “Modigliani senza leggenda” – che aiuta a capire molti disguidi sulla personalità di un uomo che, poco prima di morire, scrisse in una lettera : “La vita è un dono : dei pochi ai molti, di coloro che hanno e che sanno a coloro che non hanno e che non sanno”.

Anche nella peggiore disperazione, quando il male l’aveva ormai vinto quasi del tutto, Amedeo Modigliani detto Modì rimaneva un uomo generoso e intelligente che credeva nell’arte come un regalo destinato a tutti.

Gerard  Philipe – l’attore convinto che il teatro fosse comunicazione e insegnamento, destinati a tutti; e ci lasciò quando aveva solo due anni più di lui – in “Montparnasse” è riuscito a darci non solo il senso ma la realtà della sua ispirazione e del suo malessere.

In questo film egli fa suonare le corde più intense di una irripetibile vitalità recitativa. Ci fa comprendere, per evidente metafora, come il dramma del suo personaggio sia quello di ogni essere umano a cui viene tolta la libertà della comprensione altrui. Ci dona la felicità dell’artista quando riesce ad assolvere il suo compito, ci trasmette la deflagrazione del suo animo quando il pubblico lo rifiuta. E, in questi momenti, è, come scrisse ancora Modigliani, “la felicità che è un angelo dal volto triste”.

Non sono state tristi le ricordanze dedicate dalla Francia a Gerard Philipe. Anche il suo Modigliani è stato rivisto da chi lo ha amato in passato e da coloro che non hanno ancora avuto la fortuna di ammirarlo.

E, dopo le visite dell’ufficialità, le esecuzioni musicali della banda, ci sarà ancora qualcuno che, in primavera, senza troppo clamore e un certo groppo alla gola, salirà fino al cimitero di Ramatuelle a posare un mazzetto di anemoni sulla piccola tomba di un attore più grande tra i giganti del suo tempo e della sua arte.

 

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