Francesco TOZZA- Frammenti di un discorso a suo modo amoroso (“Morsi a vuoto” al Teatro Piccolo Bellini, Napoli)



Il mestiere del critico

FRAMMENTI DI UN DISCORSO A SUO MODO AMOROSO

Maniaci d'Amore_Morsi a vuoto_foto Andrea Macchia (1)

Al Piccolo Bellini di Napoli  I Maniaci D’Amore in  Morsi a vuoto, regia di Filippo Renda

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La programmazione parallela (una sorta di “teatro da camera”), che il Bellini di Napoli offre da qualche anno nella sua sala piccola (quasi sospesa in prossimità del tetto del bellissimo edificio), si è aperta – per la stagione 2014-15 – con un intrigante spettacolo di una giovane coppia di autori-interpreti, Luciana Maniaci e Francesco D’Amore. Altrove sono già piuttosto conosciuti, meritano certamente una più ampia attenzione, anche da parte degli indolenti spettatori della città di Eduardo, dove troppo spesso si cade nella sterilità di scoperte o celebrazioni postume. I Maniaci d’Amore, come si presentano in locandina i due attori (con un simpatico gioco linguistico operato sui loro cognomi) offrono, con questo Morsi a vuoto (che ha già alle spalle tre o quattro testi similari), un interessante spaccato dei disagi, delle inquietudini, dei problemi, ma anche della  (apparente?) leggerezza (per non dire superficialità) con cui essi vengono vissuti da una generazione cui sembra restare solo l’arma della più disincantata ironia; con dolore (ma non troppo!), in cerca ormai di un ubi consistam che meglio non riesce ad esprimersi, se non con l’inconsistenza di una drammaturgia che è anche, innegabilmente, sofferta, reale drammaturgia di un tragico quotidiano.

Frammenti di un discorso a suo modo amoroso, briciole di ricordo sono quelle che offre Simona, la protagonista: improbabili sedute psicanalitiche, di effetto più comico che terapeutico; un rapporto con un ragazzo, in apparenza dolce e rassicurante, che tuttavia la tradisce senza particolare trasporto, ma nemmeno rilevanti risvolti emotivi per lei; l’incontro con lo straniero (lo zingaro di cui parla tanta cultura popolare nostrana) che tuttavia, con la paura della morte, riesce a farle provare più vitali emozioni. Il tutto nel segno dell’iperbole e dell’ellisse. Si avvertono parentele più o meno lontane, magari con qualche sforzo ermeneutico: Queneau o addirittura Lewis Carroll, con il loro senso del non senso; ma soprattutto Ionesco, che riuscì – con invidiabile spirito profetico – a portare in scena l’anima ammaccata del secolo breve, anche se con il sorriso sulle labbra; a non dire dei più vicini Scimone e Sframeli, con un linguaggio, però, assai più asciutto e una dimensione quasi metafisica della messa in scena. Nei Maniaci D’Amore, invece, c’è una sorta di barocchismo nelle parole e nei gesti, che rende più labili i confini fra l’irrisione e la progettualità o comunque la consapevolezza critica: morsi a vuoto, appunto, i loro! Si susseguono, infatti, battute graffianti, talvolta sulfuree, sprezzanti e spiazzanti al tempo stesso, che non fanno mistero, con le loro cadenze regionali, di un tragicomico vissuto originario; e tuttavia è come se il pubblico percepisse una sorta di esclusione dalle profondità intime da cui quelle battute emergono, che lo inducono al riso, ma più spesso a reazioni esterefatte, al giudizio incerto, al dubbio stesso sulla volontà/capacità di portare a termine un discorso poco chiaro, forse, alla mente dei suoi stessi  (magari ancor troppo giovani) artefici: emblematico il silenzio che ha accompagnato l’inattesa fine della piéce, risolto – dopo qualche attimo che sembrava non finir mai – dalla ricomparsa degli attori alla ribalta, per gli applausi di rito.

Emblematicamente i nostri Maniaci…, fra le citazioni poetico-musicali che infarciscono il loro testo, ripetono, a circa un secolo di distanza dal loro apparire, i versi del grande Montale: “questo solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”; sembrano farlo fra il serio e il faceto, ignari forse della melanconica (ahimé profetica) disperazione che accompagnò quei versi per più generazioni di lettori.

 

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