Alma DADDARIO- L’intervista. Camilla Migliori racconta la sua “era del granchio”

 


L’intervista



CAMILLA MIGLIORI E “L’ERA DEL GRANCHIO”

Stefania Porrino

Ovvero raccontare a teatro l’assurdo della vita tra ironia, disincanto, speranza

****

Drammaturga, scrittrice, regista, Camilla Migliori ha ottenuto numerosi riconoscimenti per la sua attività artistica: Premio Spoleto Festival Art 2014, Premio Fersen 2009, Premio Gerundo 2007, Premio Vignoli 2000, segnalaz. Premio Flaiano 2000, Premio Polifemo 1998.

Ha pubblicato testi teatrali: “L’era del granchio” (Lepisma Edizioni 2014); “Narrativa in scena” (Nemapress Edizioni 2014); “Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante” (Edizioni Alter Ego 2013); “Le donne e il loro dàimon” (Edizioni Fabio Croce 2010). I racconti brevi: “Effetto Mozart” (Edilet Edizioni 2008), “Noie, paranoie, piccole manie” (Editori del Grifo 1999).

La incontriamo in occasione della presentazione del suo “L’era del granchio”, una raccolta di testi teatrali dall’impronta surreale, dove le vicende oscillano in moto continuo tra grottesco e dramma, assurdo e paradosso, a sottolineare le contraddizioni e il disagio esistenziale dei personaggi, spesso vittime inconsapevoli di condizionamenti sociali e mediatici che ne impostano senza scampo la vita. La ricerca della felicità per loro, è nel possesso, nell’aderire a modelli imposti dai media e dalla pubblicità: riferimento indicatore del “senso della vita” per alcuni appaiono mete difficili da raggiungere. Un’ironia, a volte amara e graffiante, si tinge a volte di noir, ma anche di leggerezza, in senso calviniano: sdrammatizza, crea attesa, spiazza, e anche per questo rende piacevole i testi alla lettura.

D – Ma siamo veramente ossessionati dalla ricerca della felicità, e chi sono i due personaggi che nel primo testo che dà il titolo al libro, che vanno a caccia di  emozioni forti? Rappresentanti di un’umanità ottusa e condizionata?

R – Questo libro di commedie e monologhi è il frutto di una mia riflessione sulla società odierna e l’ho voluta esprimere con una scrittura teatrale che punta al paradosso, non per il gusto della trovata fine a se stessa, ma perché  esasperando,  dilatando alcuni aspetti  insoliti della nostra società, e che in un primo momento  possono  apparire privi di senso, penso che si  riesca meglio a  metterne a fuoco tutta la loro realtà, con tutto quello che ne consegue per il comportamento dell’individuo.

Alla domanda rispondo: sì, siamo tutti presi da questa convulsa ricerca della felicità anche se  i personaggi del mio testo scambiano il concetto di Felicità con quello di  Piacere, e vanno alla ricerca di forti emozioni, riflettendo in questo una generale condizione dell’uomo all’interno della società contemporanea.

Infatti  ne “ L’Era del granchio”, il primo testo della raccolta, una coppia di coniugi decide di andare in vacanza in luoghi a rischio, anche a costo di mettere a repentaglio la loro vita, perché la guerra e il terrorismo rappresentano per loro una specie di lunapark. Vogliono vivere un’esperienza eccitante che provochi in loro uno stato di euforia, quell’ euforia che dovrebbe sottrarli  al senso di noia e di depressione che incombe nella loro vita.

D – Quale è la ragione che li spinge a tanto? E in che modo i due coniugi protagonisti della storia, subiscono i condizionamenti  legati alle sollecitazioni del mondo mediatico e del mercato?

R – Credo che oggi l’individuo si senta preso da un senso di inutilità, di insoddisfazione,  con un profondo  vuoto interiore  da colmare e che diventa necessario  riempire con una parossistica ricerca di piacere, da cui ci si aspetta un sempre maggior appagamento. E la società di oggi, basata sulle regole di un consumismo dissennato, interviene con il suo mercato, la sua  pubblicità, i suoi mass media e promette di placare quest’ ansia, ma in maniera provvisoria,  per la logica del profitto. Tutto questo si riflette nel comportamento della coppia che a causa dell’escalation nella richiesta di godimento, si avvierà fatalmente all’autodistruzione.

D – Nel testo appare un altro personaggio di non minore importanza, si tratta dell’Agente turistico. Cosa rappresenta questo persuasore occulto che assume la funzione di  un deus ex machina?

R – L’Agente è il portavoce del Mercato e condivide la sua logica. Promuove una concezione di vita bastata sulla vendita e sull’acquisto di beni materiali, con i quali l’individuo, fomentato dalla pubblicità dei mass media, dovrebbe soddisfare i suoi desideri, con la falsa prospettiva di raggiungere la vera felicità.

E’  certamente  il deus ex machina,  ma per chi? Per il  mondo della  finanza, delle banche, del mercato! In realtà è un Mefistofele che compra l’anima degli uomini e li porta dritti all’inferno, una sorta di Virgilio al negativo, che invece di condurre l’uomo verso la salvezza lo conduce verso l’annientamento. Nel testo ha le sembianze di un Agente turistico che vende pacchetti vacanze, con i quali promette la felicità, ai danni però dei suoi clienti. D’altro canto i clienti sono già predisposti a questo tipo di scelta essendo individui del nostro tempo che vanno alla ricerca del piacere puntando sempre più in alto, aumentando il tiro delle loro richieste. Si è infatti persa la misura delle cose e l’idea di provare piacere a costo dell’ autodistruzione, è una metafora di quello a cui sta andando incontro l’uomo di oggi, anche con il fomentare guerre, e perseverare nella distruzione delle risorse naturali.

D – Forse qui più che in altri testi, i due protagonisti appaiono come assurde marionette, totalmente preda di un messaggio fuorviante, che tentano invano di trasmettere insegnamenti alle generazioni future, rappresentate dal figlio. Ma il Figlio sembra non recepire: c’è un messaggio positivo in questo, rispetto a un futuro possibile o ripensabile?

R – Anche nel presentare la figura del Figlio ho continuato con la mia idea del paradosso e del capovolgimento comportamentale dei personaggi. Nel testo troviamo i due genitori a confronto con il figlio. Di regola ci si  aspetta che i genitori col loro esempio razionale e illuminato trasmettano ai figli sani principi. Questa sarebbe la funzione dei genitori. Invece nel testo  avviene il contrario: è il figlio che educa i genitori, è lui che si ribella all’opera di distruzione della generazione che lo precede, è lui che si oppone alla guerra.

In questo ho voluto accendere un piccola luce di speranza: forse saranno i giovani a prendere consapevolezza e a cambiare le cose; magari  i giovani  potranno avviare la costruzione di una società migliore. Forse potrebbe essere un’utopia, non so…

Io faccio parte della  generazione che una volta credeva nell’utopia, nel cambiare in meglio le cose; oggi parlare di utopia é fuori moda, se non visto con sospetto… una volta si parlava anche di  voler trasmettere un “messaggio”,  oggi la parola messaggio è totalmente fuori uso.

Personalmente ero interessata (ma lo sono tutt’ora) a una visione utopistica positiva  della società e uno dei temi che più mi interessavano era quello di sentirsi liberi e fuori dalla gabbia dei condizionamenti. Ricordo i romanzi di George Orwell che parla dei mezzi coercitivi violenti  da parte di chi esercita il potere, o i romanzi di Aldous Huxley che ci parla dei condizionamenti subliminali. Entrambi preveggenti.

D – Il dramma della guerra qui appare in tutta la sua atrocità, deformata attraverso la lente del grottesco e del paradosso. Un riferimento possibile è di rimando “Il rinoceronte” di Jonesco. Quanto sei stata influenzata o ispirata al teatro dell’assurdo di questo grande autore?

 

R – Effettivamente in questi testi  mi accosto ad uno stile che ricorda Jonesco  perché nei dialoghi tra i personaggi si fa sempre strada una sorta  di insensatezza che viene fatta passare per normalità. Una specie di follia che però ha una sua strana logica che alla fine  non  appare poi così strana e così irrazionale.

Nella prefazione al libro, si fa non a caso riferimento ad un celebre testo di Jonesco:  La Cantatrice Calva dove, come  sappiamo,  appaiono il signore  e la signora Smith, l’eterna coppia borghese che viene collocata in un antico e triste salotto, con un orologio a pendolo che suona le ore a caso.  I due coniugi  parlano di banalità, del pranzo e della cena, i loro discorsi sono autoreferenziali, pieni di luoghi comuni senza senso. Oppure pensiamo anche all’altra commedia di Jonesco: Il Rinoceronte, dove il rinoceronte diviene metafora di tutti i totalitarismi della società moderna.

Però il mio testo si distacca dai  contenuti del Teatro dell’Assurdo degli anni 50, perché non prende in considerazione  la critica del mondo borghese come avviene nella  Cantatrice Calva, né entra in polemica coi totalitarismi a cui  Jonesco si riferisce nel suo lavoro Il Rinoceronte, anche se poi in realtà nel mio testo qualche traccia di quel Teatro dell’Assurdo la possiamo ritrovare. Pensiamo ai più moderni totalitarismi del mondo finanziario e del mercato, che impongono le loro leggi e  che,  come i Rinoceronti di Jonesco, si  moltiplicano e si espandono sempre di più;  oppure pensiamo ai protagonisti  moglie e marito del mio testo anche loro  inerti, per certi versi, come la signora e il signor Smith, e che non trovano più argomenti per reagire alla monotonia della loro esistenza.

Ma trasportata ai giorni d’oggi la coppia del mio testo si trasforma,  si adegua  non solo alla manipolazione dei mass media, ma resta invischiata e coinvolta in questo mondo fatto di materialità e di fretta, e si ritrova spaesata dentro una società indifferente, mentre  vive con estrema conflittualità i suoi problemi  all’interno di  una società “ liquida “, come direbbe il noto sociologo Bauman che aggiunge:  “La via che porta alla felicità passa per i negozi, e quanto più sono esclusivi, tanto maggiore é la felicità cui si arriva”, ma poi  le gioie del consumo  “si dissolvono e svaniscono presto, lasciandosi dietro un’ansia durevole”.

D – Descrivere un dramma atroce come la guerra in termini comico grotteschi, può in qualche modo esorcizzarne il male, e comunque far riflettere di più, rispetto a un qualunque messaggio veicolato in termini più retorico-moralistici?

R – Penso che il teatro sia un mezzo molto potente, se usato bene. Qualsiasi partito politico anche  con voce prepotente potrà imporre le sue vedute ma non avrà mai la forza di dare consapevolezza all’uomo. Il teatro possiede questa forza e con lo strumento della parola può contribuire non solo a rispecchiare la società ma anche a risvegliare nell’uomo il “piacere”  di migliorare la società.

D – Il libro: “ L’era del granchio” comprende altri testi teatrali, legati tra loro da un sottile filo rosso, in cui metti è rappresentata l’alienazione dell’uomo contemporaneo, la sua solitudine, la paradossale incomunicabilità tanto più evidente e grave in un’epoca che si avvale di sofisticate tecnologie per la comunicazione.

R – Sì,  e spero che anche il lettore saprà rintracciare negli altri  testi questo filo rosso di cui parli. Viviamo in un’epoca che dà  all’ individuo l’illusione di essere sempre in relazione con l’altro, in realtà manca il vero dialogo tra le persone, quello da cui sgorga una verità su se stessi o su gli altri. Pensiamo ai social network dove ci si scambia informazioni generiche e  “comunicare” equivale in realtà  a  “mantenere il contatto”. In questo senso i tanti personaggi  presenti nei miei testi versano in condizione di solitudine, riescono ad  esprimersi  solo in maniera monologante, spesso  rivolgendosi ad un interlocutore  immaginario e perciò inesistente.

Author: admin

Share This Post On