Valentina IORIO- Esercizi di critica (50o ciclo Rappresentazioni Cassiche Siracusa)
Inauguriamo con una recensione del 500 ciclo (2014) di spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa una sezione dell giornale che ospiterà gli scritti di giovani interessati all’esercizio della critica teatrale. Riteniamo, infatti, che sia importante incoraggiare le nuove generazioni a mettere alla prova le proprie capacità di analisi in un settore come quello del teatro da sempre palestra di crescita individuale e sociale e pensiamo anche che sia utile a tutti coloro che a vario titolo operano in questo campo confrontarsi con l’opinione del pubblico giovanile.
Lo spettatore accorto- Esercizi di critica
Valentina Iorio
Corso di Laurea magistrale in Lettere Classiche
Università di Padova
AGAMENNONE
Una landa di terra battuta, questa è la scenadell’Agamennone. Un paesaggio interamente ricoperto di sabbia, dalla quale affiorano elementi architettonici, rovine di una gloria ormai lontana. Sul fondo di questa desolazione si staglia un portale monumentale: siamo sulla soglia della Reggia di Argo. A poco a poco dalla terra emergonofaticosamente i vecchi del Coro: alternano movimenti lenti a scatti nervosi, sembrano smarriti, incapaci di muoversi in uno spazio che non riconoscono più;in una Argo sfiancata dalla guerra, privata del suo signore, nelle mani di una donna dai “maschi pensieri”, si vedono spaesati e impotenti.
Entra dunque in scena, ad annunciare che Troia è stata presa,Clitemnestra, la signora della persuasione, colei che “parla come un uomo”. Al passo incerto e lento del Coro, fanno da contraltare gli ampi passi della regina, che avanza sicura e sfrontata.La forza retorica di Clitemnestra è sostenuta dalla presenza scenica di Elisabetta Pozzi.
Una corsa affannata introduce il messaggero, uno “stralunato” Mariano Rigillo, il cui annuncio è continuamente interrotto dalla fatica fisica e dall’incredulità;in un’alternanza di slanci euforici e moti di terrore, riferisce ad un Coro, più incredulo di lui, che la guerra è finita ed il re è di ritorno. La manifestazione di gioia, mostrando il divario tra l’incapacità fisica e gli animi ardenti dei vegliardi, assume i tratti goffidella commedia e genera straniamento.Felicità illusoria è quella del Coro, che vede nel ritorno del re la restaurazione di un equilibrio di potere irrimediabilmente compromesso, e quindi destinata ad essere ridicolizzata e smentita.
Non è infatti il ritorno di un vincitore quello a cui si assiste, non è un carro trionfale a portare in scena Agamennone. Un’arca, a forma di osso di seppia, emerge dalla terra arsa, una struttura primordiale e futuristica ad un tempo che sembra trasportare la vicenda in un “sempre” indefinito. Questa struttura chiusa, all’interno della quale giacciono stesi il re e la prigioniera, Cassandra,lascia presagire il destino di morte che li attende. L’Agamennone che ne esce è un uomo stanco, gravato dal peso di una lunga guerra, affrontata a carissimo prezzo. Conscio dei limiti del suo eroismo, rifiuta in un primo momento gli onori eccessivi che l’ingannatrice Clitemnestra vuole attribuirgli. Troppo debole è però la sua regalità per confutare le suadenti argomentazioni di Clitemnestra, troppo forte la seduzione del potere simbolicamente rappresentato da questo trionfo.
Il re quindi si appresta ad incedere sul “tappeto di porpora”, un rosso fiume di sangue, il sangue che da sempre scorre tra gli Atridi. A guidare il cammino del sovrano, un’eterea fanciulla, il cui candore è turbato da un velo rosso che tiene fra le mani: forse lo spettro di Ifigenia, la vergine immolata, la vittima di quel sacrificio cruento, che conduce irrimediabilmente Agamennone alla rovina.
Alla medesima rovina va incontro Cassandra, l’unica sulla scena veramente cosciente e per questo destinata, nel gioco paradossale della tragedia, a risultare folle, tanto agli occhi del Coro, quanto a quelli dello spettatore. Un’ottima Giovanna di Rauso, con lo sguardo allucinato, il corpo in preda a continui spasmi, le movenze da animale ferito, fa rivivere la sacerdotessa in tutta la sua impotenza.
Luca De Fusco, con la sua scena essenziale e per lo più monocroma, rinuncia ai grandi effetti, dando centralità all’agone verbale, lì infatti si esplica il potere di Clitemnestra. Nel contrasto tra il dominio di un’ingannevole persuasione, incarnata dalla regina, e l’impotenza afasica dei suoi interlocutori nasce la tensione tragica.
COEFORE E EUMENIDI
Ben lontane dal minimalismo di De Fusco sono le Coefore e le Eumenidi di Daniele Salvo. Sulla scena delle Coefore le strutture architettoniche dissepolterestituiscono la facciata della reggia e un altare al centro. Dalle porte un lugubre corteo, guidato da Elettra, si appresta a compiere i riti funebri in onore di Agamennone. I corpi femminili delle Coefore sono imprigionati nel lutto, forte è l’impatto visivo del nero che le avvolge completamente.
Mentre Elettra compie le sacre libagioni, le donne intorno si percuotono il petto e lanciano grida, secondo le modalitàdi un arcaico compianto funebre; l’iterazione esasperata di questa gestualità fa da controcanto al dolore e al desiderio di vendetta di Elettra. Il rituale è interrotto, nel momento in cui Elettra riconosce sulla tomba le ciocche di capelli del fratello Oreste, da questo momento in poi si riaccende in lei la speranza di poter rendere giustizia al padre. Convincente l’interpretazione di Francesca Ciocchetti, che riesce a mantenere un equilibrio tra gli stati d’animo contraddittori della figlia di Agamennone.
E’ quindi il momento del ritorno di Oreste, il riconoscimento tra i due fratelli è giocato sull’esasperazione del dolore: i due accasciati sulla tomba paterna levano la loro preghiera a Zeus, invitandolo ad assisterli nella vendetta. Le parole sono accompagnate dalla ritmica oscillazione dei corpi stretti in un abbraccio, da cui dovrebbero trovare la forza di agire.
Da qui in poi al centro della scena ci sarà l’Oreste di Francesco Scianna: furente, vendicativo, frenetico, la cui ansia di agire entra in crisi nel momento del confronto diretto con la madre. Clitennestra nell’estremo tentativo di salvarsi fa appello al seno materno, da cui tante volte il piccolo Oreste si è nutrito, il tutto è all’insegna di un accentuato patetismo, che in parte lo stesso personaggio eschileo sembra richiedere.
Risulta invece eccessiva l’abbondanza di artifici scenici che segnano il passaggio alle Eumenidi: tra nuvole di fumo e raggi di luce dai colori pop, la tensione tragica si perde.
Le Erinni, avvolte dal fumo, escono dalla terra:lunghe parrucche bianche e scheletri stilizzati sulle calzamaglie nere, nel loro voler simboleggiare una dimensione infera, rischiano di creare un’atmosfera da notte di Halloween.
Apprezzabile è tuttavia la bravura del Coro nel richiamare attraverso la danza e le grida una dimensione ferina e brutale. Nel canto “che incatena la mente” l’iterazione di alcuni versi, abbinata ad una ricorsività delle movenze sfrenate riesce a produrre quello stordimento che si propone.
La stessa ripetitività, se nel canto delle Erinni può apparire funzionale, in altre parti sembra sovraccaricare inutilmente un testo già molto denso.
Si contrappone alla furia delle Erinni l’assoluta ieraticità di Atena, cui dà autorevolezza la voce di Piera Degli Esposti. Nel corso del suo lungo discorso per placare le dee, si soffermerà più volte ad evidenziare l’importanza di Peithò, la persuasione senza la quale non potrebbe portare avanti il suo progetto di fondazione della giustizia, che prevede la conversione delle dee della vendetta in “Benevole”.
Se Atena rimane ferma sul trono al centro della scena, vero e proprio deus ex machina è invece l’Apollo di Ugo Pagliai, che sospeso su una pedana, pronuncia la difesa di Oreste, rivolgendosi agli spettatori, che diventano idealmente parte dello stesso Areopago e sembrano così essere chiamati a farsi soggetti giudicanti.
Una processione festante accompagna la conversione delle Erinni in Eumenidi, la danza delle ancelle prepara l’uscita dal tempio di una vergine nuda con un bambino tra le braccia, simbolo della rinascita o coup de théâtre per richiamare l’attenzione dello spettatore, smarritosi nella lunga argomentazione di Atena: il dubbio è legittimo.
VESPE
Una parete costituita dalle celle di un alveare si staglia sulla scena, dalle celle a poco a poco scende il Coro delle Vespe,in calzamaglie a righe nere e gialle, come grossi insetti fastidiosi si presentano agli spettatori i compagni di Vivacleone.
Un’arnia a forma di cupola è la sua stessa casa, con tanto di rete protettiva, nella quale il figlio Abbassocleone lo tiene rinchiuso sotto la custodia dei servi. In prossimità di essa cala il Coro ronzante, venuto a tentare di liberare l’amico.
Le lamentele dei vecchi danno vita ad un fastidioso brusio, in cui si inserisce in modo vivace e irriverente l’apparentemente sgangherata Banda Osiris. La loro capacità di giocare con la musica e gli strumenti, che, usati come veri e propri oggetti di scena, possono diventare ali e pungiglioni di calabroni, spiazza piacevolmente nel corso di tutto lo spettacolo.
Al centro si ha lo scontro tra Abbassocleone, capace di svelare le dinamiche di potere, che guidano il sistema giudiziario ateniese e giustificano l’ossessione per i processi del padre e degli altri vecchi, e Vivacleone, il vecchio padre, marginalizzato dall’età, che affida la sua stessa sopravvivenza a questa insensata passione. Proprio questa vitalità, questo bisogno di esistere, a dispetto di quanto ordina il buon senso, porta lo spettatore a simpatizzare per il vecchio padre, cui Antonello Fassari regala tutta la sua verve.
Brillante la trovata di far partecipare le suppellettili da cucina al processo domestico intentato al cane; gli oggetti, diventati a loro volta personaggi dell’azione, animanoil lungo dibattimento, nel corso del quale l’opera rischia inevitabilmente di perdere vivacità.
Agli eccessi paterni si contrappone la sincera preoccupazione di Abbassocleone, convince Martino D’amico, chiamato ad essere il “serio” della situazione, compito difficile sulla scena aristofanea, che porta a premiare eccessi e stravaganze.
In questo scontro generazionale si inseriscono gli interventi dei servi Sosia e Santia, che mediano tra i personaggi e dialogano più volte con il pubblico, tenendo vivo il gusto per la provocazione.
Vivacleone accetta infine di cambiare vita, dandosi alla mondanità, il cambiamento tuttavia non avverrà nel modo auspicato dal figlio. Il vecchio infatti nei simposi si ubriaca, litiga con tutti, si dà alle danze sfrenate e insegue le flautiste. Un chiassoso carosello di moto invade quindi la scena, con i vecchi ubriachi, le giovani ballerine seminude, i lazzi e il turpiloquio, di cui il grottesco aristofaneo si nutre.
Al culmine del momento carnascialesco Vivacleone invade la scena a passo di danza: le movenze e l’imperfetta nudità dell’autoironico Antonello Fassari, nel goffo tentativo di raggiungere un’insperabile leggiadria, regalano sincere risate.