Sauro BORELLI- Una famiglia senza speranza (“Gebo e l’ombra, un film di M. de Oliveira)

 

Lo spettatore accorto

 


UNA FAMIGLIA SENZA SPERANZA

Locandina del film Gebo e l'ombra

“Gebo  e l’ombra” il nuovo film  di Manoel de Oliveira

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Chi se non Manoel de Oliveira 106 anni vissuti ancora con impavida alacrità – poteva appassionarsi ad una vetusta (1923) pièce di Raul Brandao incentrata su un intrico famigliare dislocato tra ‘800 e ‘900? Un tema complesso, ove, nella dimensione (quasi classica) del kammerspiel emerge, inesorabile, il persistente conflitto di sentimenti e passioni quali l’affetto e il disamore, la solidarietà e l’egoismo, la vita e la morte, la dovizia e l’indigenza e, soprattutto, l’infinito scontento dell’esistenza in balia del caso o dell’azzardo più bizzarri.

E così è stato. Due anni fa precettando, da una parte un manipolo cosmopolita di collaboratori davvero sontuoso: il magistrale direttore della fotografia Renato Berta, gli attori francesi Michel Lonsdale e Jeanne Moreau, l’italiana Claudia Cardinale; e, per di più, gli interpreti-feticcio portoghesi Louis Miguel Cintra e Leonor Silveira ha allestito il suo nuovo film, Gebo e l’ombra, con un rigore e un nitore riconducibili ai suoi precedenti, datati lungometraggi che gli diedero, a suo tempo, tardiva seppure indiscriminata notorietà, ovvero la “tetralogia dell’amore fustrato” (Francisca, Benilde o la vergine madre, Il passato e il presente, Amore di perdizione).

Realizzato quasi per intero in “interni”, Gebo e l’ombra ci sommerge subito nel clima asfittico di una stanza costantemente in penombra dove, di volta in volta, Gebo, un contabile al lavoro ininterrotto su registri di incassi e costi infagottato in panni dimessi; la ossessiva presenza della moglie Teodora intenta in continue lamentazioni, la nuora silenziosa e dolente e, di quando in quando, il visitatore amico e la vecchia vicina petulante, curiosa danno vita ad una sorta di dramma “liquido” che permea di sé ogni gesto, tutte le parole, i rari eventi di una convivenza desolata, inguaribilmente devastante.

Il denaro (anzi la penuria di denaro), l’inconsistenza d’ogni sognato prestigio personale e, ancor peggio, l’impossibilità di riscatto grazie all’iniziativa o qualche felice novità costituiscono lo sconfortante leit-motiv dei giorni monotoni, esasperati di una convivenza basata esclusivamente sulla pura, semplice sopravvivenza abbarbicata a rituali di un familismo sterile destinato a isolarsi dal mondo in un limbo insieme frustrante e, per qualche verso, “colpevole”.

La riprova di simile débâcle tutta privata – rinserrata proprio nei luoghi e nei modi di un’esistenza incardinata all’egoismo, all’abulia di tutti i personaggi del dramma divampante sotto la cenere – è segnata dall’imprevisto sopraggiungere (come un’ombra) del figlio traviato dell’impotente Gebo che, dinanzi, a tale destabilizzante novità, assillato dalla moglie Teodora e dalla nuora già succube dell’impreveduto ospite (presto resosi colpevole di un vistoso furto), non sa non vuole compiere alcun atto riparatore, ma anzi si rassegna squallidamente al precipitare rovinoso degli eventi (l’arresto del figlio, il ritorno al tran-tran senza sbocchi).

Detta così, la vicenda assume un aspetto forse approssimato. Anche perché in Gebo e l’ombra la misura espressiva si dimostra per chiari segni determinante. Proprio nel senso che l’impronta linguistica tipica del cinema di Manoel de Oliveira si caratterizza tanto nel décor frusto e tetro di un racconto opprimente, quanto nella stilizzazione strenua di figure e toni di una tragedia che nel chiuso di una realtà circoscritta sa cavare un ammonimento, una rampogna resoluti contro l’egocentrismo inerte e disperato.

Significativa, in tal senso, la manifesta attitudine di de Oliveira di far cinema in termini di una moralità civile coerente, praticando una scelta univoca e razionale: “Prima dello schermo viene sempre la vita… la macchina da presa trova naturalmente la sua strada solo se sa indagare e riportare a galla il vissuto degli uomini”. Appunto, ciò che accade sintomaticamente in questo cupo eppure smagliante Gebo e l’ombra, ove figurazioni e scorci ambientali, sorretti da strumenti digitali e da una visualità dettata da un “verismo” raggelato si risolvono in evidenti suggestioni pittoriche, contribuendo a dislocare questo stesso film nel solco di un piccolo, grande capolavoro.

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