Andrea SCANZI*- La memoria. Per Giorgio Faletti (di multiforme ingegno)

 

 

La memoria*



PER GIOGIO FALETTI

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Uomo ed artista di multiforme ingegno- Una persona perbene (se l’espressione vi dice ancora qualcosa)

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“La leggenda non vive. La leggenda vive anche dopo la morte”. Era la citazione preferita di Giorgio Faletti. E’ morto ieri alle Molinette di Torino, dopo una lunga malattia che lui – col pudore di sempre – aveva definito “guaio di salute piuttosto rilevante”. Per provare nuove terapie, si era anche recato negli Stati Uniti. Era nato il 25 novembre 1950 ad Asti, dove risiedeva in una casa piena di libri, chitarre, dischi, quadri e moto. L’altro buen retiro era l’isola d’Elba, dove amava rifugiarsi anzitutto nei periodi di stesura dei romanzi: “Quando scrivo mi muovo per casa, sono intrattabile, non mi faccio la barba per settimane e a volte non mi lavo per settimane”, ha raccontato a fine 2013 all’Associazione Fratelli d’Arte de L’Aquila.

Quaranta minuti di chiacchierata con Silvia Valenti, disponibili su Youtube, che assurgono a testamento. In quello stesso periodo, quando la malattia sembrava essersi fermata, dettava ironicamente il suo necrologio; “Sul mio epitaffio scriveranno: qui giace Giorgio Faletti, morto a diciassette anni. Ho tanta energia e voglia di mettermi in gioco. Non ho paura di rischiare”. Il suo ultimo post su Facebook è dolorosamente brutale: “Cari amici, purtroppo a volte l’età, portatrice di acciacchi, è nemica della gioia. Ho dovuto a malincuore rinunciare alla pur breve tournée per motivi di salute legati principalmente alle condizioni precarie della mia schiena, che mi impedisce di sostenere la durata dello spettacolo. Mi piange davvero il cuore perché incontrare degli amici come voi è ogni volta un piccolo prodigio che si ripete e che ogni volta mi inorgoglisce e mi commuove. Un abbraccio di cuore”. Comico senza paura d’essere nazionalpopolare, cantante di un teatro canzone quasi istintivo (“Sono un pessimo musicista ma una discreta mente musicale”).

Scrittore di smisurato successo, attore – pure qui – stupefacente (lo spietato Primario di Cemento armato). E alla fine anche pittore: “Colpa del mio amico e concittadino Massimo Cotto. Mi ha chiesto un quadro per beneficenza. Ho cominciato a pasticciare per la prima volta una tela. E’ piaciuto. Mi hanno spronato e ho fatto alcune mostre, con consensi di critica lusinghieri. Purtroppo, nella pittura, l’artista tende ad aumentare le quotazioni solo dopo la sua morte. Per ora non ne ho venduti tantissimi, anzi faccio fatica a regalarli”. Faletti non si sentiva “leggenda”, ma per qualcuno lo era. Lo scrittore americano Jeffrey Deaver lo fotografò così: “Uno come Faletti dalle mie parti si definisce “larger than life”, uno che diventerà leggenda”. Quattro milioni di copie per “Io uccido”, l’esordio del 2002 tradotto in tutto il mondo (lo stesso anno ebbe un ictus), tre milioni e mezzo per il successivo “Niente di vero tranne gli occhi” (2004).

Cifre che in Italia sapeva praticamente raggiungere solo lui. Eppure fu rifiutato da molti editori: “La scrittura nella mia vita c’è sempre stata. Ero il classico alunno i cui temi si facevano leggere come esempio in tutta la scuola. Erano già piccole sceneggiature”. Ma la diffidenza restava: “Molti editori mi hanno riso in faccia e per un po’ abbiamo preso in considerazione l’eventualità di utilizzare uno pseudonimo. Temevamo che il mio essere comico ci danneggiasse. Per anni hanno detto che i miei libri, in realtà, li scrivevano altri”. Mosso da una curiosità vorace, Faletti ha esibito in ogni ambito un talento naturale e mai scontato. Più lo sottovalutavano, più emergeva. Cresciuto al Derby di Milano con i Bisio e gli Abatantuono (“Era un periodo di divertimento smodato, dormivo tre notti a settimana”).

Per il grande pubblico era e sarà “quello del Drive In”. Vito Catozzo, anzitutto: “Gli altri personaggi li interpretavo, Vito Catozzo lo diventavo”. E poi Carlino, Suor Daliso e il testimone di Bagnacavallo. Battute e tormentoni destinati a sedimentarsi: ”Porco il mondo che c’ho sotto i piedi”, “Mondo cano!”, “Che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe orecchione, vivo ce lo faccio mangiare il certificato di nascita”, “Mi viene uno s-ciopone!”, “E’ qui che c’è le donne nude?”, “A me mi piaccono le donne nude perchè resizec’hanno l’esterno in pelle”, “Mia cognata c’ha due roberti!”, “Qui lo dico e qui lo annego”. Poteva vivere di rendita, non lo ha mai fatto. Rischiando sempre, con una fiducia incrollabile in se stesso: “Ho sempre sostituito la paura di non farcela con la speranza di farcela di nuovo”. Nelle interviste dimostrava di non reputarsi inferiore ai grandissimi della letteratura, e per questo la stessa Rete che ora lo celebra non mancò di attaccarlo. Non appena avvertiva il rischio di reiterare lo stesso schema, si spostava altrove. Refrattario non certo al successo quanto alla noia. Arrivò secondo a Sanremo ‘94 con “Signor tenente”, un recitato in equilibrio precario tra impegno e retorica che tutti ricordano anche per la reiterazione – al tempo quasi eretica – della parola “minchia”. Autore per Mina e Cinquetti, Fiordaliso e Branduardi. Premio della Critica e Premio Rino Gaetano, un disco di platino. Amava Giorgio Gaber e forse ne ha voluto ripetere anche l’amore per i continui smarcamenti. Non ignorava che l’ispirazione fosse destinata a evaporare.

Anzitutto quella comica: “Il comico non è un artista di serie B. Far ridere è la cosa più difficile del mondo. La creatività trascinante dopo un po’ si esaurisce. Chi riesce a far trovare le chiavi per ridere il mondo ha una sensibilità pari a colui che fa riflettere il mondo”. Simpatico, disponibile, umorale. Innamorato dei motori (è stato anche pilota di rally e giornalista per Autosprint), della Ducati (ha vissuto come una delusione cocente il fallimento di Valentino Rossi), della Ferrari e della Juventus. In tivù andava sempre meno e solo da chi sentiva vicino. Pippo Baudo, Antonello Piroso, Fabio Volo. Quest’ultimo gli fece riascoltare un’intercettazione in cui Nicole Minetti lo definiva “comunista testa di cazzo”. Lui, sorridendo: “Comunista no, testa di cazzo sì”. Mente poliedrica e divo controvento, uomo colto e creativo malinconico, Giorgio Faletti soleva ripetere: “La vita ha spesso una trama pessima. Preferisco di gran lunga i miei romanzi”. Preferiva bene.

*andeascanzi.it – ilfattoquotidiano

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