Scaffale
L’INVENZIONE D’UNA LINGUA
“Stati di grazia”, un eccellente romanzo di Davide Orecchio
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Non si deve perdere neppure una parola di questo romanzo dalla scrittura densa, possente, molteplice, fatto di pagine da sorbire una ad una e che creano, ciascuna, mondi di significati e profondità di senso. Stile ed anima vanno insieme in questo testo che riverbera da ogni piega rimandi di significato come in un gioco di specchi. Siamo dalle parti della poesia: è questa la prima impressione che si prova leggendo Stati di grazia, il romanzo di Davide Orecchio.
Dunque, lo stile: a volte telegrafico, a volte sovraccarico, barocco nelle enunciazioni, fulminante nel lessico, ma sempre suggestivo ed evocativo. L’autore romano inventa una lingua piena di “sicilianità” con termini dialettali che incantano nella loro arcaica genuinità. È una scrittura accorata, responsabile, partecipe, ma con una componente cruciale, l’onestà. Perché non è furba, né opportunista, ma ha una sua austera moralità, è rispettosa della storia che narra e vi entra dentro aprendo scorci di vita.
In Stati di grazia si è presi dallo scorrere fluviale delle parole, e allora ci accorgiamo, oltre che dello stile, della storia che subito ci conquista. Il personaggio del primo capitolo, che scompare nel resto del libro, vale da solo un magnifico racconto, con la sua storia di sconfitta che però farà fiorire, sul suo ramo secco di morte, l’altra storia di colui che lo sostituirà nel procedere degli eventi prendendo anche la sua identità. Il ramo secco fiorisce dentro un più vasto affresco in cui nascono altri luoghi, personaggi, storie.
La figura iniziale, Paride Sanchis, è un perdente in ogni campo: in famiglia dove non trova che soffocanti silenzi, incomprensioni date e ricevute, dove perfino la figlia è impaurita di lui e delle sue stranezze; è perdente anche nel lavoro dove ogni abbandono scolastico da parte dei suoi alunni è per lui, maestro elementare, una sconfitta da aggiungere alle altre.
Paride decide di sfuggire a tutto questo, ed anche alla Sicilia degli anni Cinquanta in cui vive, rattrappita nei suoi silenzi e omissioni, programmando una finta fuga in Argentina che darà invece il via ad una fuga ben più decisiva: al suo posto parte il padre di un suo alunno morto in miniera, a cui Paride cede il biglietto di viaggio e anche la sua identità.
E qui fiorisce la seconda storia, ma è un fiorire doloroso e di sofferenza. In Argentina, il finto Paride troverà un duro lavoro da operaio in uno zuccherificio che ha il nome di un poeta, Holderlin, ma una natura ben più triste, un “opificio” di tutti gli sfruttamenti. Più di tutto rimane disilluso dall’assenza di prospettive di cambiamento – perlomeno troverà una nuova compagna.
L’Argentina intanto avanza verso il suo destino nero, con il colpo di Stato del ’76, le retate e le repressioni sindacali, le violenze contro gli oppositori politici. Anche la nuova compagna di Paride viene catturata e muore sotto le torture. Il finto Paride riesce a fuggire trovando riparo grazie alla rete degli oppositori al regime. Da qui inizia la terza parte, dove si fanno avanti altri personaggi, e di ognuno se ne narrano le vicende e i coinvolgimenti reciproci, come vasi comunicanti tra loro, gli antefatti, gli incontri.
E gli epiloghi. Sono figure tratteggiate con profondità psicologica nei loro diversi atteggiamenti, le vigliaccherie e gli atti di coraggio, la lotta contro la dittatura ma anche la lotta contro se stessi quando non si riesce a stare al passo con la vita.
Particolarmente intense le due figure di medici, Osvaldo Punchetto e Diego Wilchen. Il primo è una specie di consulente medico che sorveglia e assiste alle torture dei prigionieri politici, tra cui ci sarà anche Ximena, la compagna di Paride; Punchetto sarà presente alla morte della dona e perlomeno, grazie alla sua testimonianza, la poveretta potrà cambiare status, da desaparecida a morta accertata. Punchetto, infatti, le trova addosso una carta autografa con scritto il suo nome e una breve lettera a Paride, in cui ribadisce il suo amore per lui, una commovente testamento che Ximena decide di cucirsi addosso in previsione di una morte anonima e violenta – come facevano le popolane francesi del XVIII secolo per evitare di morire senza un nome.
Punchetto raccoglie questa eredità dando un nome alla morta, ma la sua responsabilità di medico è totalmente tradita, assistendo vigliaccamente e collaborando anche alle torture. Eppure, mentre osserva la sofferenza dei prigionieri politici, ripete paradossalmente tra sé il giuramento di Ippocrate, avvertendo la sproporzione tra quanto prescritto dall’antico medico e il suo agire da assassinio, senza far nulla per alleviare il dolore altrui.
In contrapposizione a Punchetto c’è il medico idealista Diego Wilchen, che rinuncia a tutto per andare a Holderlin e prendersi cura degli operai; per Wilchen questo gesto equivale a prendersi cura del mondo intero, perché il suo desiderio è lenire più dolore possibile e guarire oltre ai corpi, le anime. Sarà annientato anche lui dal regime.
La ragazza di Diego Wilchen, Aurora, si salva espatriando in Italia; ma è una sopravvissuta, costretta ad una vita di sradicamento nel gruppo degli esuli argentini a Roma. Solo i suoi amati poeti, memoria degli studi universitari, la sorreggono nelle ore tristi, e la recita dei loro nomi è per lei un mantra per sopravvivere alla cappa di delusioni e sconfitte.
Nella lotta clandestina contro il regime, Aurora aveva scelto per se stessa il nome di battaglia di Sylvia Plath, con tutto il carico di sofferenza che la poetessa americana, suicida, evoca. E come Aurora ha le sue giaculatorie poetiche, così il (vero) Paride dell’inizio ricorreva al ricordo e alla presenza immaginaria del fratello Pietro morto in guerra, per superare la vita misera e senza scopo che era costretto a vivere. Viatici per non cedere: ognuno sceglie il suo.
Pur con tutte le vicissitudini patite, per questi personaggi il succo della vita vera è scarsissima, la somma delle giornate e degli anni deludente, esigue le gioie. Voltandosi indietro, possono solo vedere la trama dei giorni spenti, senza luce e speranza, consumati nella rinuncia e nell’impotenza.
Emerge una rabbia potente nella figura finale di Matilde Famularo, poetessa e guerrigliera, arrabbiata con il mondo fin da bambina, una rabbia che però saprà dirigere contro il nemico politico. Scrivendo versi pieni di rabbia e di odio verso il destino, si può dire che Matilda viva nei suoi scritti, orgogliosa delle sue opere e di avere graffiato il mondo con esse.
Davide Orecchio è riuscito a creare una costellazione di figure opache e luminose, corredate a fine libro di biografie, complete di data di morte, per alcuni situate oltre il nostro tempo, e che quindi forse ci sopravvivranno. Onnipotenza della letteratura.
Un romanzo realista e visionario, documentato nella parte storica e ben costruito nella trama; leggerlo è un antidoto contro la superficialità di tante pubblicazioni inutili che prevalgono in questi tempi. E leggerlo è un poco entrare in uno “stato di grazia”.