Franco LA MAGNA- Nino Martoglio, una meteora cinematografica

 

 

Cent’anni dopo

 

NINO MARTOGLIO, UNA METEORA CINEMATOGRAFICA

 

Tutto ciò che abbiamo dimenticato del regista di “Sperduti nel buio”

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 Alla fine dell’800 s’avvia in grande stile la carriera artistico-letteraria dell’intrepido “moschettiere” belpassese Nino Martoglio (Belpasso 1870 – Catania 1921). Licenziato capitano di lungo corso dall’Istituto nautico di Catania ed ex mozzo, tornato a terra dopo quattro anni d’errabonda vita marinara, rientrato a Catania nel 1889 fonda la rivista satirico-politico-letteraria “il D’Artagnan”, dalle colonne della quale – a dimostrazione d’un fulminante e fatale interesse – per primo annuncia l’arrivo del cinema nel capoluogo etneo. Subito catturato dalla settima arte Martoglio pubblica nel numero del 24 gennaio 1897 il breve e divertente dialogo “Li Civitoti e lu Cinematografu”, in cui con toni sapidi esprime in vernacolo strettissimo tutto lo sbalordimento popolare nei confronti della nuova “strabiliante meraviglia”.                                                                                                        

 La sua folgorante ma brevissima carriera cinematografica inizia esattamente cento anni fa,  nel 1913, quando entra in affari con la Cines, diventa autore di soggetti cinematografici (“Il gomitolo nero”, “Il tesoro di Fonteasciutta”, di cui restano ignote le regie, ma con legittimo sospetto a lui attribuibili). Passato  spavaldamente dietro la macchina da presa, gira prima per la casa di produzione romana “Il romanzo” (1913), con la già diva messinese Pina Menichelli e lo sconosciuto Paolo Sersale, “un gentiluomo della buona società partenopea”, Carmine Gallone, Soava Gallone, Augusto Mastripietri, Eduardo D’Accursio.       

Tratto da un soggetto dello stesso Martoglio, “Il romanzo” è il “cine-dramma passionale” di uno scrittore (Giorgio) che riesce a diventare famoso, ma le cui fortune (donna compresa) sono vanamente insidiate da un ex compagno di collegio (Paolo), fallito e invidioso, che (recita la pubblicità della Cines) “andrà incontro a un esemplare castigo”. Subito dopo con la “Morgana Films” di Roma (l’altra fallimentare “Morgana” da lui stesso fondata, era stata quasi subito abbandonata a Catania) Martoglio dirige un drammatico “Il Capitan Blanco” (1914), in coregia con il socio Roberto Danesi, traendolo dal suo lavoro teatrale  “U paliu”, spostandosi tra il paese rivierasco di Aci Castello, zone limitrofe e la Libia, divenuta due anni prima – a coronamento del sogno imperiale di Sua Maestà -colonia italiana e  “sul cui sfondo si svolge il soggetto ma senza nessuna speciale significazione”.

Ancora secondo la stampa un insostituibile Giovanni Grasso sr., già accreditato “esponente morale ed estetico della razza siciliana” (il sostantivo “razza”, forse al di la delle intenzioni di chi lo usa, si commenta da sé) nei panni del vecchio lupo di mare Matteo Blanco, che però non sbudella la moglie fedifraga con coltello a serramanico come vuole la tradizione ma la perdona (sic!), secondo la stampa  ne “resta diminuito dalla sottrazione della parola”                          

Sulla performance del grande attore catanese gli aggettivi si sprecano in un impetuoso fiotto di encomi: strabocchevole,  impressionante,   incredibile . Non tutti però cadono in trance di fronte alla recitazione del “commendatore”. Fuori dal coro c’è anche chi storce il muso perché a suo dire il film non inscena “qualcosa di veramente grande, di fortemente siciliano…”. Altri più cautamente ne ammirano i valori naturalistici, compresi quelli ‘nature’ delle donne: la nera “lava di Acireale bella nel suo terribile bagliore perché fiorita di zagare…Vita, aria, luce, masse policrome e tumultuose di contadini, di pescatori abbronzati, di donne siciliane dagli occhi profondi e dalle labbra di fiamma…”.

 Non siamo lontani da una visione della Sicilia (qui anzi non delle più funeste) terra felix, tutta bollori carnali, effluvi di zagara, selvaggia natura e finalmente perdoni coniugali. Almeno in questo (e non è poco!) Martoglio non asseconda i luoghi comuni. La sua avventura cinematografica, breve come la sua vita, si concluderà con le regie del mitizzato “Sperduti nel buio” (1914) dal dramma del partenopeo Roberto Bracco, “l’Ibsen di Piedigrotta”, ultima interpretazione della grande Giacinta Pezzana (sepolta ad Aci Castello) e “Teresa Raquin” (1914) da Emile Zola, eponimi del neorealismo italiano. 

Nutrito e apprezzato l’intero cast: Giovanni Grasso, Virginia Balistrieri, Totò Majorana, Rocco e Rosalia Spadaro, Micio Quartarone, Pietro Sapuppo, Giuseppe Trovato, fino allo stesso Giulio Martoglio, attore non professionista e fratello di Nino…mutatis mutandis. Insomma, non a caso, il top in assoluto del teatro isolano d’allora, visto che l’inpavido Martoglio ne era stato il fondatore. Alla tragica conclusione teatrale, dove anche il vecchio Blanco muore, la versione cinematografica contrappone però quella molto più accomodante del perdono di Marta, rimasta comunque  accidentalmente gravemente ferita da uno scoppio provocato dall’uomo tradito che comunque, consoliamoci, ammazza il doganiere con cui Marta amoreggia.

 L’infedele consorte, alla fine redenta da  un’esemplare condotta, riabbraccia felice l’evangelico compagno e l’unità familiare è ricomposta, ma a scanso d’equivoci il capitano decide di portarla via dal paese natìo. Giovanni Grasso, centro di gravità su cui ruota il film, con comprensibile ‘dolus bonus’ viene così esibito in una scrosciante nota pubblicitaria: “più grande di quello che è in teatro: mancandogli l’ausilio della parola condensa nella maschera del viso tutta la sua arte e tutti i tesori della interpretazione, cosicché la film da lui interpretata è davvero un autentico capolavoro”.

Ancora da un dramma omonimo di Martoglio, sempre prodotto dalla Cines, nel 1913 esce anche “Il salto del lupo” di cui resta ignota la regia (forse dello stesso Martoglio), ma non il soggetto che il Belpassese riduce senza indugio per lo schermo. Ambientato nei pressi di Catania, a Torre del Grifo (percepito dalla vulgata come’turrulifu’) e interpretato da Amleto Novelli (Giovanni, il ’lupo’) ed Enna Saredo (la castellana), il film è la storia d’un uomo coraggioso e leale, amato dalle donne ed ovviamente odiato dagli uomini, segretamente innamorato della bella figlia d’un vecchio barone. Ingiustamente accusato dai compaesani d’aver commesso crimini inesistenti, il poveretto braccato si rifugia in una grotta, ma resta intrappolato.

La castellana lo raggiunge ed egli, prima di gettarsi nel vuoto, implora gli inseguitori inferociti di salvarla. Poi spicca il salto uccidendosi, sicché da quel giorno quella triste località viene chiamata ‘il salto del lupo’. Non dissimile da quello sempre altezzoso dei letterati del tempo il giudizio di Martoglio su questo cinema melenso e melodrammatico, al quale tuttavia il Belpassese prosaicamente si piega prima di rinunciarvi definitivamente nel 1915. “San Giovanni decollato” (1917, finito in tribunale) di Telemaco Ruggeri, tratto da un suo lavoro teatrale e interpretato da Musco, chiude l’epos martogliano antecedente alla morte ma non le (per quanto rare) trasposizioni cinematografiche. 

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