Mario SAMMARONE- Per G.Garcia Marquez, lo scrittore che non amava la solitudine
La memoria
PER GAGRIEL GARCIA MARQUEZ
Lo scrittore che non amava la solitudine
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Chi dimenticherà mai il villaggio di Macondo e le avventure del colonnello Aureliano Buendìa, o del patriarca José Arcadio fondatore di una stirpe “condannata sulla terra a cent’anni di solitudine”? Credo nessuno; nessuno che abbia letto il romanzo di Gabriel Garcìa Marquez (Acarataca, 1927), premio Nobel per la letteratura nel 1982, perché Macondo e la stirpe dei Buendìa appartengono all’immaginario collettivo, fanno parte di ciascuno di noi e risuonano nelle pieghe più riposte dell’animo; essi hanno affascinato ogni lettore, giovane o meno giovane, colto o ignorante, perfino i più disincantati.
Ho letto Cent’anni di solitudine molti anni fa, da ragazzo liceale, durante le vacanze di Natale, e già allora riflettevo che questo “caldo” libro si era legato a me per la sua carica di umanità e per le storie di vite, certamente mitiche, che di certo affascinavano un ragazzo che si affacciava alla vita. Ma per questo libro non ci sono parole, al loro posto vengono fuori le emozioni.
La stirpe dei Buendìa che piano piano acquista forza sotto i vari José Arcadio, l’indimenticabile colonnello Aureliano Secondo, Amaranta, Ursula, fino alla decadenza e all’ultimo Buendìa, Aureliano Babilonia rimasto solo nella casa di famiglia ad attendere che le forze dell’universo spazzino via la sua stirpe. Ed il libro di Gabriel Garcìa Marquez è una metafora della grande parabola della vita, dell’ascesa e del declino di ogni opera umana, e perciò sembra suggerire di goderci ogni momento ma anche di affrontare con risolutezza le avversità.
Prodigio della letteratura. Qualche giorno fa Marquez si è spento, eppure la sua opera continuerà ad accompagnarci ancora a lungo, con le sue storie realiste ma impregnate di fiaba, impregnate di una magia che non è possibile dimenticare, anche grazie a una buona dose di ironia dal sapore amaro che ci colpisce come piccoli satori. Credo che nessuno sia passato indenne alla lettura di Marquez; queste sono opere che lasciano il segno, vicine a quel “canone occidentale” che il critico americano Harold Bloom ha definito per i più grandi.
L’autunno del patriarca, L’amore ai tempi del colera, Nessuno scrive più al colonnello, sono solo alcuni dei romanzi che hanno sancito il successo di Marquez. Giornalista, intellettuale, uomo di grande impegno politico che ha conosciuto importanti pensatori come Sartre e Bertrand Russell, o politici del calibro di Francois Mitterand, Gorbachev o Fidel Castro, a cui era legato da una forte amicizia. Lo scrittore colombiano è stato protagonista del dibattito politico internazionale.
E così un altro gigante del Novecento scompare; la cerimonia funeraria si è tenuta ieri a Città del Messico, alla presenza di molte personalità della cultura e della politica. Il presidente colombiano Santos ha detto: “I giganti non muoiono mai”. Rafael Tovar de Teresa, presidente del Consiglio Nazionale per la Cultura del Messico ha evidenziato: “Nel XIX secolo Lev Tolstoj, Fëdor Dostoevskij e Anton Cechov resero universale la letteratura russa, nel XX l’ha fatto Marquez con la letteratura spagnola”. Un continente si sente orfano di un suo cantore.
A tutti noi, e specialmente ai giovani, futuri uomini di un nuovo secolo, il testamento morale di Marquez e il suo regalo più grande: il villaggio di Macondo, patria dello spirito, patria in cui ciascuno potrà rifugiarsi nelle ore tristi o in mezzo allo sconforto, patria ideale in cui tutti vorremmo vivere, perché si trova nel mondo della pura poesia, del mito, o meglio, di quel realismo magico che solo lo scrittore di Aracataca ha saputo affrescare.
Macondo vive!