Francesco NICOLOSI FAZIO- Il lavoro uccide (“Il calapranzi” di H.Pinter al Teatro del Canovaccio, Catania)
Teatro Lo spettatore accorto
IL LAVORO UCCIDE
“Il Calapranzi” Di Harold Pinter. Regia: Nicola Alberto Orofino. Con: Emanuele Puglia e Cosimo Coltraro. Produzione XXI in Scena – Al Teatro del Canovaccio di Catania
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Anche se avevo 12 anni il ’68 mi ha colpito. Un po’ meno il ’77. Avendo segretario Nazionale Enrico Berlinguer, Regionale Achille Occhetto e Provinciale Giulio Quercini la tessera PCI era un must. La politica era una cosa seria. Ma l’imprinting sessantottesco ha comunque colpito duramente e nel profondo. A costo di spararla grossa non posso fare a meno di vedere la politica dappertutto, anche dove non c’è. Alla fine dello spettacolo attraverso velocemente il grazioso foyer del teatro per evitare contaminazioni con altri giudizi, ancor meno con il bravissimo regista. Magari mi avrebbe aperto gli occhi e spiegato lo spettacolo. Corro il rischio e navigo scrivendo a vista.
Due uomini come prigionieri in una stanza/cucina. Aspettano un ordine, per un omicidio su commissione. Due killer che agiscono in coppia con un metodo consolidato, una sorta di procedura, quasi un protocollo burocratico. All’improvviso l’ambiente si manifesta per quello che è: una cucina a servizio di un “esercizio” commerciale. Dal montacarichi (il calapranzi) arrivano perentorie ed impossibili ordinazioni di cibi, foglietti rossi. Manca il materiale e la cucina non funziona. Alla fine al momento del delitto sembra che la vittima sia proprio uno dei due. Tutto si ferma un istante prima dello sparo.
A quanto prima preannunciato si aggiungono altre contingenze: la crisi, le “riforme” del lavoro, la globalizzazione, le delocalizzazioni, l’indiscusso strapotere della criminalità (ben) organizzata. Tutto congiura per “buttarla in politica”. Prima, però, parliamo della resa scenica.
Lo spettacolo scorre velocissimo e divertente, rimandando alle commedie di genere che, soprattutto al cinema, ci hanno spesso deliziato: Da Lemmon/Mattau ai nostri Aldo, Giovanni e Giacomo, per giungere ai presenti Coltraro/Puglia, che non sfigurano nell’ordine di apparizione sulla scena teatrale. Una comicità surreale, che rimpolpa quella comicità meno percepibile di Beckett, da cui non si può prescindere. Soltanto che il “convitato di pietra” è un meccanico God-ot che dall’alto impone farneticanti richieste: il perentorio “calapranzi”. Un atteggiamento tipico del vero potere, sia esso politico che mafioso. Finalmente possiamo scappare per la tangente (geometricamente e politicamente, ma non penalmente, intesa).
In questa fase storica il nostro ruolo nella società si identifica nel nostro lavoro. Anche nel più esecrabile lavoro di assassini a pagamento. Ma il potere non si accontenta e riesce a chiedere sempre di più, con richieste, certamente irrealizzabili, calate dall’alto, magari con anonime sentenze scritte su un “pizzino” rosso, che è anche il colore del potere. Alla fine la soluzione è evidente: eliminare il più debole; magari solo perché comincia a mostrare qualche dubbio o solo qualche superfluo residuo di umanità.
Temi forti e risate amare. Un teatro scomodo ma divertente, un’occasione per riflettere e poter tirare fuori qualche idea, per servirla magari tramite montacarichi, prima che il lavoro ci uccida.