Gianfranco CAPITTA – Illusioni e vanità goldoniane (“L’impresario dello Smirne”, al Massimo di Cagliari)



Teatro    Casa d’altri*



ILLUSIONI E VANITA’

Nel segno di Goldoni: L Impresario delle Smirne a Cagliari e Sassari

L’Impresario delle Smirne

 

“L’impresario delle Smirne” , regia di Roberto Valerio (di scena a Cagliari) sa cogliere la capacità diabolica di Goldoni di mettere in evidenza alcuni vizi sempre attuali

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Al suo secondo anno di tour­née, con­ti­nua a pren­dersi ogni sera il suo meri­tato carico di risate ed applausi L’impresario delle Smirne ( di scena al Mas­simo di Cagliari, poi al Nuovo Tea­tro comu­nale di Sas­sari). Uno spet­ta­colo che con­ferma ancora una volta la cen­tra­lità di Carlo Gol­doni nella nostra sto­ria tea­trale, facen­done anche l’oggetto di mag­giore e fecondo sac­cheg­gio dei nostri arti­sti più avve­duti (in que­sta sola sta­gione basta pen­sare, che siano pia­ciuti o meno, all’Arlec­chino ser­vi­tore di Anto­nio Latella e a quello di Pier­fran­ce­sco Favino, men­tre si appre­stano a ricom­pa­rire gli eterni Inna­mo­rati).

Ma Gol­doni aveva la vista assai lunga, e oltre i trionfi e le mise­rie del pal­co­sce­nico, intuiva come nella «fat­tura» di uno spet­ta­colo, fos­sero ben netti e pesanti vizietti, illu­sioni, vanità, e pic­cole por­che­rie di una intera società. E pos­se­deva, il pro­li­fico «avvo­cato» vene­ziano, anche la capa­cità dia­bo­lica di rac­con­tarli con un soave senso dell’umorismo, spinto fino alla cru­deltà più comica e dispe­rante.
In que­sto caso la vicenda è quella clas­sica della locanda vene­ziana dove coa­bi­tano (e inces­san­te­mente si spo­stano, arri­vano e par­tono dalle loro came­rette che è meglio non pene­trare) attori, aspi­ranti tali, e qual­che gra­dasso pro­dut­tore. In par­ti­co­lare uno la cui fama è accre­sciuta dalla pro­ve­nienza lon­tana: è addi­rit­tura turco, e pro­getta di met­ter su spet­ta­coli nella favo­losa Smirne, come da titolo. Con il pro­getto luci­dis­simo di rac­co­gliere a quelle rap­pre­sen­ta­zioni un gran pub­blico, ma non quello locale: piut­to­sto di stra­nieri che nella città lon­tana vivono per affari e per com­merci, innan­zi­tutto vene­ziani, of course, ma anche di altri stati ita­liani, e poi fran­cesi, e poi spa­gnoli …

A tes­ser le trame, a metà tra un moderno agente e un casting, la nobiltà incerta del conte Lasca, clas­sico fac­cen­diere e motore di tanti intrecci gol­do­niani. Attori fal­liti, attrici dalle pre­tese supe­riori alle pro­prie arti sce­ni­che, donne disin­volte e comi­che dispo­ste a offrire per una scrit­tura tutto il pro­prio calore. C’è per­fino un tut­to­fare, sopra e sotto e anche fuori, rispetto alla scena.
È un intero uni­verso quello cui il regi­sta Roberto Vale­rio (che coe­ren­te­mente si riserva la parte del truf­fal­dino Lasca) dà vita su una bella scena tanto anti­rea­li­sta quanto effi­cace (fir­mata da Gior­gio Gori): sul fondo rug­gi­nose pareti mobili che aprono e chiu­dono le stan­zette di mise­ria e vanità; poi una serie di pra­ti­ca­bili sfal­sati su cui pro­cede l’infaticabile via­vai di arte, fame e immo­ra­lità, men­tre le pareti late­rali assem­blano locan­dine di spet­ta­coli (o film) che di quelle car­riere, liber­tine senza costrutto, dovreb­bero testi­mo­niare la ric­chezza.

La for­mula è simile a quella che Vale­rio aveva usato due o tre anni fa per un altro bello spet­ta­colo, Il Van­tone (ovvero il plau­tino Miles glo­rio­sus nella tra­du­zione di Paso­lini) con un minimo quanto accu­rato lavoro di adat­ta­mento, e la grinta di un gruppo di gio­vani attori che non si vogliono negare il diver­ti­mento (nel frat­tempo lo stesso regi­sta ha otte­nuto quest’anno il suc­cesso de Il giuoco delle parti creato sulla misura di Umberto Orsini).

C’è ancora qual­cuno degli attori del Van­tone qui, come il para­dos­sale, a tratti irre­si­sti­bile, Nicola Rigna­nese, pro­prio nel ruolo del titolo, borioso e pre­po­tente come spesso rende la dispo­ni­bi­lità del denaro, ma con una vena di amara con­sa­pe­vo­lezza che lo rende ancora più cru­dele oltre che ridi­colo. Ma nes­suno degli attori lesina pathos, agi­lità, gusto della bat­tuta né debo­lezze per imper­so­nare quei sogni impos­si­bili di car­riere fan­ta­scien­ti­fi­che, poco rea­li­sti­che nep­pure a Smirne, ultimo avam­po­sto «civile» prima delle Asie e delle Cine. Ognuno, quasi a con­va­li­dare il pas­sag­gio gol­do­niano dalla com­me­dia dell’arte al testo scritto, fa la mossa giu­sta, dal negligé allo strip tease, dalla bir­bo­nata all’ineccepibile vir­tuo­si­smo del locan­diere, che a dif­fe­renza di Miran­do­lina, piut­to­sto che con «i lini di fian­dra» eccelle nei gio­chi e nelle acro­ba­zie di clavi e birilli.

A voler­celo vedere, c’è in quei rondò gol­do­niani, come inse­gna­rono Stre­hler e Visconti, ma soprat­tutto Cobelli (suo l’indimenticabile Impre­sa­rio con tur­bante su tap­peto per­siano, fatto dalla star tv Alberto Lupo), c’è il tea­tro e quindi l’intera società di oggi. Que­sto bel gruppo di attori (tra gli altri Valen­tina Sperlì e Anto­nino Iuo­rio, ma sareb­bero da nomi­nare tutti) ci ino­cula un gusto san­gui­gno e sprez­zante, quasi di gene­rale con­sa­pe­vo­lezza di quanto quelle Smirne par­lino di noi, e uno stra­ri­pante pia­cere nella comi­cità. Il pub­blico alla fine applaude con­tento e quasi sor­preso, per­ché magari non cono­sceva prima la com­pa­gnia o il testo poco rap­pre­sen­tato di Goldoni.(*ilmanifesto)

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