Francesco TOZZA- Evgenij Onegin,una drammaturgia ‘liquida’ (Cajkovskij al S.Carlo, Napoli)

 

 


Teatro   Il mestiere del critico



EVGENIJ ONEGIN, UNA DRAMMATURGIA ‘LIQUIDA’

Per  l’inquieta grammatica dei sentimenti -Al San Carlo, dopo sessant’anni, è tornata l’opera di Čajkovskij, dal poema di Puškin

****

L’Onegin “non avrà mai successo, lo so in anticipo” – paventava Čajkovskij, e i sessant’anni trascorsi per vederlo ripresentato al San Carlo (peraltro, in quel lontano marzo 1954, era la prima volta per il Massimo napoletano!) sembrerebbero dargli ragione. Nella stessa lettera, indirizzata all’amico ed ex suo allievo Taneev, aggiungeva ancora: “Le convenzioni e la routine dei nostri grandi teatri, le loro pratiche di allestimento senza senso, […] tutto questo rende la mia opera quasi impossibile alle scene”. Emblematiche espressioni, le sue, di una rara preveggenza, riguardante – si direbbe, un po’ provocatoriamente – non solo, o non tanto, la realtà dei palcoscenici lirici  del suo paese, ai suoi tempi, quanto piuttosto quella attuale del nostro, assai poco coraggiosa nella sua offerta di spettacoli, troppo spesso legata alla più vieta tradizione, ad una convenzionale, logorante routine, appunto!

I timori di Čajkovskij, per la verità, erano piuttosto di merito, interni cioè a quello che lui stesso definiva il “mio modesto lavoro”: ne considerava “l’inefficacia scenica”, le “inadeguatezze teatrali”, dal momento che i personaggi esplicitavano la loro psicologia, diventavano “chiari”, non attraverso le loro azioni – molto semplici, non teatrali, ordinarie in definitiva – “ma con i loro monologhi e dialoghi”. Era disposto, dunque, a concedere – se davvero “l’opera è azione” – che il suo Onegin non potesse chiamarsi opera, ma “scene, adattamento scenico, poema”, qualunque cosa insomma, come asseriva, ancora, nell’interessante scambio di battute sempre con l’amico Taneev (e nel programma di sala dello spettacolo sancarliano sono meritoriamente riportati ampi lacerti di quell’acceso, intrigante epistolario). Non è un caso che il compositore decidesse, poi, di dare alla sua creatura, come sottotitolo: “scene liriche in tre atti e sette quadri”, confermando di aver voluto scrivere soltanto “un’illustrazione musicale all’Onegin di Puškin”.

E tuttavia, con orgoglio, rivendicava di averlo composto con “genuino entusiasmo”, “obbedendo ad un’irresistibile attrazione interiore”, creando – in una sorta di transfert – quasi una specie di “diario” intimo, di “autobiografia” in musica, consapevole di aver offerto, a se stesso ancor più che agli altri, attraverso il poema di Puskin (in alcuni momenti mantenendo addirittura i versi originali), una fonte di conforto a frammenti del proprio vissuto. “Vorrei obliare me stesso e addormentarmi”; “sono invecchiato, non sogno nulla, non aspiro a nulla, vivo all’esterno della mia vita” – diceva nei giorni della composizione, sempre all’amico Taneev. Che importava a questo punto che il suo Onegin risultasse alla fine “uno spettacolo noioso”, tradendo la sua “notoria inabilità a comprendere il teatro”, cioè le ragioni del palcocenico? Prontamente replicava: “non mi interessa affatto la sua inefficacia teatrale”, “disprezzo gli effetti”; e in proposito, giù bordate critiche all’imperante grand-opéra, con la “falsità nauseante” delle sue trame, piene di “re e regine, rivolte popolari, battaglie, marce” (e non risparmiava qualche riferimento, poco generoso, alla stessa Aida verdiana!). Dalla sua, invece, Čaikovskij poteva vantare “un’inesprimibile urgenza a mettere in musica, “un indescrivibile entusiasmo e piacere” nel cercare drammi intimi e profondi, basati su situazioni in conflitto da lui stesso sperimentati; il che gli faceva portare sul palcoscenico gli uomini con le loro passioni, non un mondo di marionette.

Il tempo, comunque, rese giustizia anche alle preoccupazioni più propriamente linguistiche, nutrite dal compositore russo: i valori della teatralità non si legarono più – o soltanto – alla c.d. azione scenica, tanto meno all’estetica degli effetti, che Čaikovskij già rimproverava a certo melodramma contemporaneo, in questo, a ben pensarci, poco in sintonia con il concetto stesso di opera lirica. Wagner non era passato invano: lo stesso Čaikovskij, in qualità di critico musicale (attività che esercitò scrupolosamente, anche se per poco), assistette alla prima rappresentazione del Ring che inaugurò Bayreuth nell’agosto 1876, quindi circa due anni prima che portasse a compimento il suo Onegin, anche se non sembra ne fosse particolarmente impressionato (ma le influenze, si sa, avvengono spesso anche in assenza del pieno convincimento degli influenzati!). Sta di fatto che alla dialettica, spesso solo formale, dei comportamenti scenici (con i ben noti, e spesso tediosi, recitativi) andava lentamente sostituendosi quella dei leitmotiv, musicalmente più pregnante: una drammaturgia liquida, per dir così, avrebbe sempre più caratterizzato l’opera dell’avvenire e l’Onegin ne costituì già un ottimo esempio. Nel caso  specifico, la “narrazione a sbalzi” del poema di Puskin si distende, quasi sciogliendosi, nella forma del dramma musicale, dando vita direttamente al gioco dei sentimenti che animano i personaggi, in un processo di “combustione pura”, per dirla ancora una volta con le parole dello stesso Autore. La teatralità si fa tutta interiore e la musica la segue magnificamente; il canto innerva perfettamente le parole e la strumentazione ne costituisce il felice contrappunto.

Bellissima la scena del 1° atto, con la lettera che Tat’jana scrive a Onegin appena conosciuto, senza remore o veli: “Bevo il veleno incantato del desiderio… avevo giurato di conservare nel fondo della mia anima il segreto di questa folle, ardente passione. Ahimè, non ho più la forza di padroneggiare il mio cuore! Che accada quel che ha da accadere…!”. Ma Onegin respinge le profferte così esplicite di Tat’jana: freddezza, scarsa volontà di venire a patti, per il momento, con l’etica della responsabilità, moralismo addirittura (“imparate a dominarvi, non tutti possono comprendervi come ho fatto io”!), o solo tentennante prudenza…., la sua? Probabilmente è l’angoscia o la noia di esistere che pervade il suo animo, impedendogli perfino di trovare la forza di innamorarsi, se non per gioco (il fatuo corteggiamento di Olga, sorella di Tatiana, e fidanzata di Lenskij, che per questo lo sfida a duello, però soccombendovi). Onegin si accorgerà dell’amore anni dopo: troppo tardi!

E verrà respinto – anche se a malincuore – da chi l’amò ardentemente, e forse l’amerebbe ancora se in lei, a sua volta, lo “stadio etico” non avesse ormai la prevalenza su quello “estetico”, per dirla con Kierkegaard. Evidentemente l’orologio dei sentimenti non segna per tutti, contemporaneamente, la stessa ora; la grammatica della psiche ha tempi e modi estremamente irregolari, il cui coordinamento è per lo più solo casuale. Per chi conosce la biografia del compositore, Tatiana è Čajkoskij e Onegin…? E’ l’oggetto/soggetto di ogni amore impossibile, su cui cade troppo spesso la coltre del “non detto” (che pure ha il suo fascino) o la sentenza del “non dicibile”. Certo, qui la musica del russo fa miracoli: ha rabbrividito di indescrivibile piacere l’Autore stesso nel comporla, ha stregato illustri spettatori, sicuramente non sospettabili di cedimento al c. d. romanticismo esasperato della sua musica, che ancora fa arricciare il naso a taluni pretesi intenditori! Mahler e Toscanini la diressero: il primo, alla presenza dello stesso compositore (ammirato!), ad Amburgo e Vienna (nel 1892 e nel 1897); il secondo alla Scala nel 1900. Prokof’ev, a sua volta, racconta di essersi commosso fino alle lacrime, assistendo ad una sua rappresentazione, quand’era studente, mentre Stravinskij volle manifestare ufficialmente la sua ammirazione, con evidente scandalo delle avanguardie! Nel nostro evidente entusiasmo per l’opera, siamo quindi in buona compagnia!

Di buon livello la realizzazione (non facile) dell’opera, offerta in questi giorni dal San Carlo, a cominciare – per una volta! – da regia e costumi (firmati dal polacco Michal Znaniechi) e dalle rutilanti scene di Luigi Scoglio; insieme, anche visivamente, hanno dato corpo a quella drammaturgia liquida di cui s’è detto nel corso dell’articolo: una onnipresente natura (il bosco di betulle che, stilizzato, invadeva anche gli interni) ben metaforizzava la febbrile memoria di un passato, tutt’ora bruciante nel ricordo. Bravi tutti gli interpreti, a partire da Carmela Remigio, con tecnica, anche recitativa, perfetta (e ha cantato in russo!), particolarmente convincente nell’appassionata scena della lettera. Intensa, e non solo dal punto di vista vocale, anche l’interpretazione di Golovatenko (Onegin) e di Marius Brenciu (Lenskij); bene anche gli altri, in particolare il basso Beloselvskiy (nel ruolo del principe Gremin, l’anziano marito di Tat’jana che la regia ha posto su di una sedia a rotelle: inutile aggiornamento, al solito!). Determinante il contributo del coro, diretto da Salvatore Caputo, secondo i desiderata dell’autore (“i cori non debbono essere un gregge di pecore”!), come pure quello del corpo di ballo (diretto da A. Panzavolta). Il direttore Axelrod, alla guida dell’orchestra del San Carlo, ha reso l’insopprimibile, febbrile melanconia della partitura, coerentemente a quanto ha affermato nel programma di sala: “la sofferenza è insita nella sociologia culturale russa”. Tutto bene, dunque? Resta solo il dubbio che si debbano aspettare altri sessant’anni per veder riproporre sul palcoscenico sancarliano un altro Onegin, o comunque opere di così rara esecuzione, in cui veramente appare “la grande bellezza”!

Author: admin

Share This Post On